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 2012  novembre 20 Martedì calendario

IL SUD-EST ASIATICO RESISTE ALLA FRENATA MONDIALE

Se Myanmar, un Paese da 60 milioni di abitanti al grado zero o quasi dello sviluppo economico, è la nuova frontiera del capitalismo, Cambogia, Indonesia, Thailandia e l’intero Sud-Est asiatico non fanno meno gola a multinazionali e super potenze. Soprattutto quando le economie avanzate si barcamenano tra la crescita incerta degli Stati Uniti e la recessione dell’Eurozona.
Nei prossimi cinque anni, i Paesi della regione torneranno ai ritmi di sviluppo precedenti alla crisi del 2008-2009, secondo un rapporto appena presentato dall’Ocse al summit dell’Asean in corso in Cambogia. Tra il 2013 e il 2017, l’Indonesia registrerà un’espansione media annua del 6,4%, come non accadeva dalla grande crisi finanziaria del 1997. Le Filippine cresceranno del 5,5%, la Thailandia del 5,1%, il Laos del 7,4%, la Cambogia del 6,9%.
Spesso, dietro questi risultati, ci sono politiche di sviluppo adottate dai Governi per proteggere le economie dal calo dell’export verso Stati Uniti ed Europa. In Thailandia, il primo ministro Yingluck Shinawatra ha aumentato spesa pubblica e salari, imitato dal collega malese. Il presidente delle Filippine Beningno Aquino sta facendo lievitare a livelli mai visti per il Paese la spesa pubblica e progetta oltre 16 miliardi di dollari di investimenti in strade e aeroporti. Scommette sulle infrastrutture anche Giacarta: a settembre, il Pil è salito del 6% e l’Indonesia, che una decina di anni fa dovette chiedere il salvataggio dell’Fmi, è oggi quello che cresce di più nel G20.
In molti di questi Paesi, gli investimenti in infrastrutture sono stati accompagnati dall’avvio di un sistema di welfare che ha incentivato la propensione al consumo di una classe media emergente e giovane. Il mix ha fatto da propellente alla domanda interna, permettendo alle economie di espandersi e attirare investimenti anche in una fase di crescita mondiale frenata. Un mix, sostengono i tecnici dell’Ocse, che continuerà a produrre effetti anche nei prossimi anni, riducendo sempre più la dipendenza dall’export.
Multinazionali e fondi d’investimento non scoprono certo oggi l’importanza della regione. E lo stesso vale per le super potenze mondiali. Il fatto che il presidente Barack Obama l’abbia scelta come meta della sua prima missione all’estero dopo la rielezione, in occasione proprio del vertice Asean, non è che l’ennesima riprova. Qui, Stati Uniti e Cina si affrontano su tutti i tavoli.
Pechino è il primo partner commerciale dell’Asean dal 2009. L’anno scorso il suo import dal blocco economico è aumentato del 29% e l’export del 13%. Lo sviluppo economico in Cina alza il costo del lavoro e le sue aziende guardano oltre confine per delocalizzare, gomito a gomito con le multinazionali di tutto il mondo. In Myanmar, Pechino ha fatto in pratica da padrone di casa durante i 50 anni di regime della giunta, ma le elezioni del 2010 hanno aperto uno spiraglio nel quale gli Stati Uniti si sono gettati a capofitto. In Cambogia, dal 2006 al 2012, le società cinesi hanno investito 8,2 miliardi di dollari, surclassando le concorrenti americane (924 milioni). Dal 1992, Pechino ha sborsato 2,1 miliardi di dollari in aiuti e prestiti per l’agricoltura e per la costruzione di strade e ponti. Tutto senza fare domande sulla democraticità del regime di Phnom Pehn o sul rispetto dei diritti umani. Questioni che proprio ieri, Obama ha invece sollevato con il premier Hun Sen, nella visita nella capitale (anche questa una prima volta per un presidente Usa), un’offensiva diplomatica nel cuore dell’area d’interesse strategico della Cina.
La Cambogia, che ospita il vertice Asean tenutosi in questi giorni, sa a chi essere fedele e ha subito proposto di non discutere le dispute territoriali sulle aree marittime contese tra Pechino e i suoi vicini.
Sul tavolo dell’Asean del resto si gioca una partita enorme. Da oggi i suoi membri cominciano a negoziare un accordo commerciale che coinvolge anche Cina, Giappone, India, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda (tutti invitati al summit): 16 Paesi, tre miliardi di abitanti, un quarto del Pil mondiale. Si vorrebbe chiudere entro il 2015, ma non sarà facile. Il progetto si pone in diretta concorrenza proprio con il progetto di accordo commerciale lanciato dagli Stati Uniti: destinatari più o meno gli stessi Paesi, eccetto la Cina.