Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 20/11/2012, 20 novembre 2012
IL PRIVILEGIO DI LEGGERE IL PROPRIO NECROLOGIO
Non si erano mai visti dei necrologi in vita: ci sono i coccodrilli, d’accordo. Ma pur essendo scritti prima, vengono pubblicati post mortem. Philip Roth invece, dopo aver annunciato la sua uscita dalla scena letteraria, ha avuto il privilegio (o il dispiacere) di leggere i suoi necrologi, perché molti giornali ne hanno pianto l’addio come fosse defunto, abituati a leggere un anno sì e l’altro pure un suo nuovo romanzo. Qualcuno si chiederà che bisogno avesse Roth, alla bella età di quasi ottant’anni, di dichiarare: «Sono stanco, smetto di scrivere». Intanto, deve aver capito che il Nobel non glielo daranno più. Ma il fatto è che negli ultimi vent’anni Roth ha sfornato una quindicina di romanzi (tra cui Patrimonio, Pastorale americana, La macchia umana, L’animale morente…). Solo Camilleri, in questo decennio, è riuscito a stargli dietro (anzi, davanti) nel rapporto tra età ed energia produttiva. Si capisce dunque che Roth abbia sentito il dovere di comunicare ai suoi affezionati lettori di aver chiuso bottega: non si aspettino da lui più niente di nuovo.
Altri, meno prolifici, non hanno mai avuto questa esigenza: è bastato loro eclissarsi senza preavviso. Il quasi omonimo Henry Roth pubblicò Chiamalo sonno, il suo primo indimenticabile romanzo, nel 1934, ventottenne, e tornò alla scrittura solo negli anni Sessanta, quando qualcuno si accorse della grandezza del suo libro d’esordio. D’altra parte lo scrittore è esattamente il contrario di un calciatore, che deve scendere in campo ogni tre-quattro giorni e che a un certo punto si trova costretto dall’età ad appendere la scarpetta al chiodo, con buona pace dei suoi tifosi. Ventisei discese in campo (cioè romanzi), come quelle di Philip Roth non sono mica bruscolini. Equivalgono, più o meno, a quelle dell’altro quasi omonimo Joseph Roth.
Poi, in settimana, ci si è messo pure il premio Nobel ungherese Imre Kertész. Anche lui, testimone dell’Olocausto, ha preannunciato il silenzio: pur tenendo a precisare, per prudenza, che «il destino è imperscrutabile». Scrivere è lavorare: e lavorare stanca. Salinger ne sapeva qualcosa. Ma Roth si è spinto oltre. Ha lasciato passare qualche giorno e ha aggiunto: «Non voglio che le mie carte vadano in giro, nessuno le deve leggere». Ragionevole, ma sa benissimo che per non farle circolare, post mortem, quelle carte dovrebbe soltanto bruciarle, come fece Boccaccio con le sue rime giovanili quando conobbe quelle di Petrarca. Anche Nabokov chiese di eliminare dopo la sua morte alcuni frammenti di un romanzo incompiuto, ma la sua richiesta non fu soddisfatta, come dimostrano le aste in cui si battono i suoi autografi. Per non dire di Kafka che chiese all’amico Max Brod di dare alle fiamme i suoi manoscritti, rimanendo per nostra fortuna inascoltato: chissà se ne sarebbe contento. Mai fidarsi dei posteri. Utilizzi il camino, Roth, finché è in tempo. Senza bisogno di dircelo. E soprattutto all’insaputa degli eredi.
Paolo Di Stefano