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 2012  novembre 20 Martedì calendario

FLAUBERT, RITRATTO D’ARTISTA DA GIOVANE SOLITARIO - A

ventun anni Gustave Flaubert era bellissimo: di una bellezza eroica, scrisse Maxime du Camp. Aveva una pelle bianca leggermente rosata sulle guance, lunghi capelli fini e ondeggianti, era alto e largo di spalle, aveva la barba abbondante e di un biondo dorato, gli occhi enormi, color verde mare, protetti da sopracciglia nere: mentre una voce echeggiante come un suono di tromba, i gesti eccessivi e un riso squillante ricordavano i giovani condottieri galli che avevano lottato contro le armate romane. Salmodiava la prosa, urlava i versi, s’infatuava di una parola che ripeteva sino alla sazietà, riempiva tutto col suo rumore, sdegnava le donne attratte dalla sua bellezza, svegliava gli amici alle tre del mattino per portarli a vedere un effetto di chiaro di luna sulla Senna. Aveva un’immensa vitalità fisica. Sembra che solo il mare potesse fronteggiarlo. La primavera e l’estate era sempre nell’acqua, nella Manica e nella Senna, nuotando e vogando su un canotto, che il padre gli aveva acquistato.
Il padre gli aveva imposto di studiare legge, abbandonando la letteratura; e il 10 novembre 1841 si iscrisse alla facoltà di Diritto di Parigi, sebbene continuasse ad abitare a Rouen. L’8 gennaio 1842 era a Parigi. Discese all’Hôtel de l’Europe, rue Le Pelletier, e scrisse alla madre. «Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile, come dice Candide»: poi si informò sul programma e gli orari del corso del primo anno. Ma il diritto non era, per Flaubert, «il migliore dei mondi possibili». «La giustizia umana», scrisse qualche mese dopo a un amico, «è per me quello che c’è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà... Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto».
Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell’appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l’Est. Era furibondo. «Il diritto mi uccide — scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier —, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei». «Voglio finirla prima possibile — ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline —, perché non può durare più a lungo così, finirei per cadere in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito». «Sono così irritato, così infastidito, così furioso — continuava 5 mesi dopo —. Qualche volta ho voglia di dare dei pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l’accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz’ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima». Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione.
Quando lo studio del diritto non gli offuscava la mente, faceva la parte del Garçon: un ruolo ilare, grottesco, rabelaisiano, che derideva l’immensa idiozia del mondo, e insieme se stesso. Se entrava in questa parte, non poteva uscirne. Diceva e ripeteva levando le braccia in un gesto di ammirazione: «Non so se tu capisci la grandezza di questo: quanto a me, lo trovo enorme (anzi: hénaurme)». E gridava. «È enorme! Enorme!». Quando gli amici non condividevano il suo entusiasmo, li trattava da bourgeois, che era la sua massima ingiuria. A Parigi, cenava frequentemente da Dagneau, rue de l’Ancienne Comédie, insieme a Louis de Cormenin, Maxime du Camp e Alfred Le Poittevin. Restavano sino all’ora della chiusura, chiacchierando con i gomiti sul tavolo. Parlavano di tutto, tranne che di politica. Dalla personalità di Dio e dall’identità dell’io fino alle buffonerie dei piccoli teatri, tutto era buono per gettarsi in teorie a perdita d’occhio. «Saltavamo — continua Maxime du Camp — da un soggetto all’altro senza preoccuparci troppo delle transizioni. Mi ricordo una conversazione a proposito di una farsa recitata allora al Palais-Royal, che continuò con l’analisi del libro di Gioberti sull’estetica, e finì con l’esposizione delle Idee ebraiche di Herder».
Malgrado la compagnia degli amici, aveva una profondissima nostalgia per la famiglia. Scriveva a Caroline: «Ora sono tutto solo che penso a voi, immaginando quello che fate. Siete là tutti accanto al fuoco, dove io solo manco. Si gioca al domino, si grida, si ride, si è tutti insieme, mentre io sono qui come un imbecille, con i due gomiti sulla tavola a non sapere che fare... Amo la mia vecchia stanza di Rouen, dove ho passato delle ore così tranquille e così dolci, quando sentivo attorno a me tutta la casa muoversi, quando tu venivi alle quattro per fare della storia o dell’inglese, e invece di storia e inglese parlavi con me fino a cena. Per amar vivere in qualche luogo, bisogna viverci da molto tempo. Non è in un giorno che si scalda il proprio nido». «Quando penso a voi altri, qualcosa di buono e di dolce mi rianima e mi rinfresca, mille tenerezze gaie mi tornano al cuore, e vado dall’uno all’altro guardandovi tutti andare, venire, parlare col suono della vostra voce».
A Rouen, amava soprattutto Caroline, il suo «topo», il suo «topolino»: «Se mi ami molto è giusto, perché io ti ho molto amata». A Caroline era legato da una strettissima complicità: insieme condividevano la letteratura e il riso — le due divinità di Gustave. «Ho nelle orecchie il tuo riso sonoro e dolce, quel riso per il quale mi farei crepare in buffonerie, per il quale darei la mia ultima facezia, persino la mia ultima goccia di saliva». A volte, solo, nella camera di Parigi, faceva smorfie nello specchio, o gettava il grido del Garçon, come se la sorella fosse là per vederlo e ammirarlo. «Che sciocchezze dirò e farò nella carrozza con te! Quali smorfie e quali buffonerie! Ti prometto un riso come non ne hai mai sentito». Intanto, Caroline era a Rouen: disegnava, dipingeva, suonava il piano; e pensava al fratello, desiderava vederlo e parlargli. Senza il fratello la casa era vuota e triste: anzi, faceva «vomitare di noia».
***
Mentre studiava diritto, contendendo disperatamente il tempo ai codici di Giustiniano, Flaubert scriveva: dapprima Novembre, cominciato alla fine del 1840 e terminato il 25 ottobre 1842, e poi L’Éducation sentimentale (la prima redazione), cominciato nel febbraio 1843 e finito nel gennaio 1845. Novembre si apriva sotto il segno di Montaigne: «Se filosofia è dubitare, come dicono, a più forte ragione niaiser e fantasticare, come io faccio, deve essere dubitare», scriveva Montaigne negli Essais e ripeteva Flaubert nella dedica. Aveva rivisto tutto il proprio passato, come un uomo che visita le catacombe e che guarda lentamente, sulle due pareti, i morti disposti dopo i morti. Qualche volta gli sembrava di aver vissuto per secoli e che il suo essere racchiudesse i resti di mille esistenze trascorse. Sognava e desiderava le donne: l’aria imbalsamata da un caldo odore di donna ben vestita, qualcosa che sentiva il mazzo di violette, i guanti bianchi, il fazzoletto ricamato. Amava di un amore divorante la morte: i dolci fluidi che salgono e discendono nelle nostre vene; e i pensieri tristi, così piacevoli, perché evocano l’infinito.
L’Éducation sentimentale è un libro variegato e molteplice quanto Novembre monotono e ossessivo: costruito su due personaggi, Henri e Jules, che si contraddicono come poli estremi. A Jules, la vita umana fa l’effetto di un ballo mascherato, dove ci si spinge, si grida, dove ci sono dei pierrot vestiti di bianco, degli arlecchini, dei domini, delle donne oneste che attendono l’avventura, delle donne galanti che la provocano, dei marchesi consumati, dei re che si pavoneggiano, degli imbecilli che si divertono, una folla di curiosi che guarda. Jules nutre un’irresistibile attrazione per le epoche «abbondanti» come il Basso Impero e il XVI secolo, dove la vegetazione completa dello spirito umano si è mostrata in tutta la sua ricchezza, dove tutti gli elementi sono stati mescolati, e i colori impiegati. Sogna la totalità: quando la suprema poesia, l’intelligenza senza limiti, la natura in ogni sua faccia, la passione in ogni suo grido, il cuore in ogni suo abisso si abbracciano in un sistema immenso, di cui rispetta le parti per amore dell’insieme.
Qualche anno più tardi, rileggendo L’Éducation sentimentale insieme a Louise Colet, Flaubert scriveva che c’erano in lui due scrittori distinti. Uno innamorato di gueulades, di lirismo, di grandi voli d’aquila, di tutte le sonorità della frase e dei culmini dell’idea; un altro che frugava e scavava quanto poteva, e amava sottolineare il piccolo fatto potentemente come il grande, che avrebbe voluto far sentire quasi materialmente le cose che riproduceva, che amava il riso e l’aspetto animale dell’uomo. Nell’Éducation aveva cercato di far convivere queste due tendenze del suo spirito, ma aveva fallito. Mentre scriveva a Louise Colet, stava preparando il capolavoro nel quale la gueulade e l’analisi, il volo d’aquila e la materia si sarebbero fuse: Madame Bovary.
***
In un giorno del gennaio 1844, Flaubert lasciò Pont-l’Évêque insieme al fratello Achille. Era una notte nera. Gustave teneva le redini del coupé: all’improvviso provò uno stordimento orribile e crollò, senza conoscenza, sul sedile. Per dieci minuti, il fratello lo credette morto: poi lo portò in una casa vicina, dove lo salassarono. Quando Flaubert riaprì gli occhi, lo trasportarono a Rouen, dove venne affidato alle cure del padre. Il 1° febbraio scrisse all’amico Ernest Chevalier: «Ho rischiato di andare a vedere Plutone, Radamanto e Minosse. Ho avuto una congestione al cervello, cioè come un attacco di apoplessia in miniatura, con accompagnamento di male di nervi. Ho rischiato di crepare nelle mani della mia famiglia». Attraverso gli scritti di Maxime du Camp, possiamo conoscere ogni particolare di ciò che accadde nella notte di gennaio e nei primi mesi del 1844: la terribile esperienza epilettica che Flaubert condivise con Dostoevskij.
L’esperienza si ripeteva quasi identica. Di colpo, senza un motivo comprensibile, Gustave diventava pallidissimo. Aveva sentito l’aura, questo soffio misterioso che gli passava sul viso come il volo di uno spirito. Il suo sguardo era pieno di angoscia, e alzava le spalle con un gesto di scoraggiamento desolato. Diceva: «Ho una fiamma nell’occhio sinistro»; qualche secondo dopo: «Ho una fiamma nell’occhio destro. Tutto mi sembra color d’oro». Udiva parlare a bassa voce, a trenta passi da lui, dietro una porta chiusa. Milioni di pensieri, immagini e combinazioni esplodevano nel suo cervello, come i razzi di un fuoco d’artificio. Credeva di morire. Il suo viso impallidiva ancora e prendeva un’espressione disperata: camminava rapidamente, correva verso il letto, si stendeva sopra di esso, cupo, sinistro, come se fosse disteso vivo in una tomba; gridava, gettando un lamento straziante, che — scriveva Maxime du Camp molti anni dopo — «vibra ancora nelle mie orecchie». Un parossismo di convulsioni lo sollevava sul letto.
Al parossismo succedeva invariabilmente un sonno profondo, e un indolenzimento che durava parecchi giorni. Le crisi si rinnovavano: ma con minore violenza. Nel giugno 1844 si credette guarito, sebbene la guarigione fosse così lenta che gli sembrava impercettibile. Veniva dominato da una incessante vibrazione nervosa. Trasaliva come una corda di violino: i nervi si eccitavano a ogni suono, mentre le ginocchia, le spalle e il ventre tremavano. Bastava che un ceppo crepitasse nel camino perché sussultasse gettando un grido di terrore. Tutto lo irritava: la piega di una tenda che cadeva di traverso, il volo di una mosca, il rumore di un carro, il fischio di un rimorchiatore.
Il padre medico lo curava con un regime durissimo, che obbediva alle abitudini cliniche dell’epoca. Il fondamento di questo regime era il salasso: «Eccesso di pletora, troppa forza, troppo vigore», diceva il padre e proibiva al malato tutto ciò che poteva eccitarlo e sostenere la sua vitalità. Niente vino, liquori, caffè, tabacco, carni rosse: valeriana, olio di ricino, tisane di tiglio e di foglie d’arancio. Flaubert aveva preso nella biblioteca del padre i libri che trattavano le malattie nervose, li lesse e dopo la lettura disse a Maxime du Camp: «Sono perduto». Il padre trasformò completamente la sua vita. Lo obbligò a stare in Normandia, sotto la sorveglianza costante della famiglia, e gli impedì di continuare gli studi di diritto a Parigi. Per questo aspetto, il figlio considerava la crisi come benvenuta.
Sulla crisi nervosa, Flaubert costruì l’edificio della sua vita. Tutto era ispirato alla rinuncia. «Mi sono privato di tante cose — scrisse nel giugno 1845 all’amico Alfred Le Poittevin —, che mi sento ricco nel seno dell’indigenza più assoluta». Aveva rinunciato alla vita pratica, alla felicità, al sesso, soprattutto all’amore. «Hai riflettuto — scriveva — a quante lacrime ha fatto scorrere questa orribile parola "felicità"? Senza questa parola, si dormirebbe più tranquilli e si vivrebbe più a proprio agio. Qualche volta mi prendono ancora delle strane aspirazioni amorose, sebbene ne sia disgustato fin nelle viscere. Esse passerebbero forse inosservate, se non fossi sempre attento e con l’occhio teso a spiare i giochi del mio cuore». La sua vita — diceva — aveva degli orizzonti meno larghi e soprattutto meno variati, ma forse più profondi, perché più ristretti. Amava ciò che è chiuso. Aveva compreso che, per vivere tranquillo, doveva tappare le fessure di tutte le finestre, per impedire che l’aria del mondo giungesse fino a lui. Il suo era un carcere: la gabbia di una tigre allo zoo; ma sapeva che poteva vivere soltanto in un carcere.
Per lui — diceva — non c’era niente di preferibile a una buona stanza ben calda, con i libri che amava e l’agio desiderato. Era un orso; e voleva restare un orso nella sua tana, nel suo antro, nella sua vecchia pelle, ben tranquillo e lontano dai borghesi. C’era un intervallo così grande tra lui e il resto del mondo, che a volte si stupiva di sentir dire le cose più naturali e più semplici. Ma, nelle pareti chiuse del suo studio, col soccorso dei libri, risuscitava la ricchezza e l’immensità della vita: otto, dieci, dodici ore al giorno, a leggere con amore crescente Shakespeare e Omero. Nell’agosto 1845 scriveva che era divenuto più libero. «Ho sacrificato molto a questa libertà. Ci sacrificherò ancora». Leggeva gli antichi. «Amo il profumo di quelle belle lingue»: Tacito era, per lui, come un bassorilievo di bronzo, e Omero bello come il Mediterraneo. Adorava la letteratura: esaltava l’artista che fosse veramente e soltanto artista, senza preoccuparsi di nulla. Giunse a dire: «Quando scriviamo, la stanchezza dell’esistenza non ci pesa sulle spalle». Ma subito aggiungeva: «È vero che i momenti di stanchezza e di abbandono che seguono non sono che più terribili. Ma tanto peggio!».
***
Il 3 marzo 1845 la sorella, l’amatissima Caroline, sposò Émile Hamard. Flaubert ne fu triste: non poteva rinunciare alla vita insieme a Caroline. Il lunghissimo viaggio di nozze fu grottesco: la famiglia Flaubert quasi intera accompagnò in Italia i giovani sposi. Tutti erano malati: Caroline aveva dolori ai reni; il padre una malattia d’occhi, che lo costringeva a restare chiuso in albergo; Gustave ebbe due crisi nervose. Ma ci fu una meraviglia: Genova. «Ora sono in una bella città, una città veramente bella: Genova. Si cammina sul marmo, tutto è marmo: scale, balconi, palazzi. I palazzi si toccano gli uni cogli altri: passando sulla strada si vedono questi grandi soffitti patrizi tutti dipinti e dorati... Ci fu un tempo in cui avrei pensato di più e guardato di meno. Al contrario, ora apro gli occhi su tutto, ingenuamente e semplicemente, e ciò è forse superiore».
L’anno successivo, nel 1846, scoppiò la tragedia: così totale e terribile, che a malapena Flaubert restò vivo. Il 15 gennaio il padre, che egli amava moltissimo, sebbene sapesse di non esserne compreso, morì per un tumore. «Tu hai conosciuto — scriveva qualche giorno dopo a Ernest Chevalier —, tu hai amato l’uomo buono e intelligente che abbiamo perduto, l’anima dolce e nobile che è partita».
Una settimana dopo, Caroline diede alla luce una figlia, alla quale diede il proprio nome. Ebbe una febbre puerperale. Delirava con una voce debole, a volte gettando grida strazianti e gemiti dolorosi. Non si ricordava più che il padre era appena morto, e riconosceva a malapena i visi che si chinavano sul suo letto. Disperata, la madre gridò alla figlia: «Addio!». E la morente, rialzando le palpebre già pesanti, domandava: «Addio, perché?». «Caroline — scriveva Flaubert il 15 marzo — parla, sorride, ci accarezza, dice a tutti delle parole affettuose e dolci. Perde la memoria: tutto è confuso nella sua testa... Che grazia c’è nei malati e quali gesti singolari! La bambina poppa e grida. Mio fratello non dice nulla e non sa che dire. E io ho gli occhi secchi, come il marmo. Strano, quanto mi sento espansivo, fluido, abbondante e straboccante nei dolori fittizi, tanto i veri dolori restano nel mio cuore acri, duri: si cristallizzano a misura che vengono».
Il 22 marzo 1846, alle tre del pomeriggio, Caroline morì. La vestirono col suo abito bianco di sposa, e la circondarono di rose, di semprevivi e di violette. Flaubert passò la notte a vegliare il corpo. «Sembra molto più grande e molto più bella che da viva, con questo lungo velo bianco che le discende sino ai piedi». La mattina diede alla sorella un lungo e ultimo bacio d’addio. «Ho con me il suo grande scialle colorato, un ciuffo di capelli e la tavola di legno e il leggio sul quale scriveva. Ecco tutto, ecco tutto quello che resta di coloro che si sono amati». Ci fu la sepoltura. La bara non entrava nella fossa. La girarono da tutte le parti: presero una vanga, delle leve; un becchino camminò sopra la cassa per farla entrare: sotto i suoi piedi stava il viso di Caroline. Flaubert era in piedi lì vicino, col cappello in mano; e lo gettò a terra gridando.
Alla fine del mese di marzo, Flaubert, la madre e la piccola Caroline andarono nella villa di Croisset: gli alberi non avevano ancora foglie, il vento soffiava, il fiume era gonfio, gli appartamenti freddi e vuoti. «Mia madre — scriveva Flaubert — sta meglio di quanto potrebbe. Si occupa della bambina della figlia, dorme nella sua camera, la culla, la cura più che può. Cerca di ritornare madre. Ci riuscirà?». Flaubert non usciva dal suo studio: la campagna era bella, gli alberi verdi, gli uccelli cantavano e i lillà erano ancora in fiore; ma «di tutto questo, come del resto del mondo, non godo che dalla mia finestra». Cercava di studiare la propria sofferenza: «A forza di allargarsi per la sofferenza, l’anima arriva a possedere delle capacità prodigiose». Leggeva un libro sul buddismo. «Dalla ricerca — diceva il testo — nasce l’attaccamento, dall’attaccamento nasce in questo mondo il dolore: colui che ha riconosciuto che il dolore proviene dall’attaccamento, si ritiri, come il rinoceronte, nella solitudine». Flaubert non dimenticò mai queste parole: continuò a cercare la solitudine del rinoceronte; ma non rinunciò mai, anche senza saperlo, a quella passione che chiamava, come i buddisti: l’attaccamento.
Pietro Citati