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 2012  novembre 20 Martedì calendario

LO SPRECO? LO ABBIAMO CREATO NOI AI BANCHETTI DEL RE SOLE SI RICICLAVA


Massimo Montanari ha vinto la prima edizione del premio Giovanni Rebora, dedicato alla memoria dell’indimenticabile «Professore» baffuto, storico dell’alimentazione ed entusiasta gourmet, dal figlio Federico Rebora e da Gianni Carbone. Montanari, imolese, docente di Storia medievale e di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, nonché direttore del master europeo «Storia e cultura dell’alimentazione», tra le sue più importanti mansioni, ricorderà il grande banchetto del 20 marzo in cui la guest star era Gianni D’Amato del Rigoletto di Reggiolo. Dove sarà finito tutto l’inevitabile avanzo di quella cena di gala?
Partiamo di qua per un’indagine sullo spreco e l’idea che è giunta fino a noi attraverso i secoli. Montanari, come deve fare un vero storico, rovescia la prospettiva. «Spesso ci è stata trasmessa l’idea di un passato dove i ricchi sprecano, buttano, lanciano il cibo dalle finestre, ma questa è un’immagine legata all’ostentazione del lusso, ai banchetti, ai festini, insomma al fatto che le portate erano infinite e un banchetto durava anche per giorni. Vorrei spiegare che questa è una prospettiva sbagliata».
Perché? «Perché legge il passato con un’idea attuale, perché noi siamo abbagliati dallo sfarzo di allora e non cogliamo che la cultura dello spreco nasce con la società industriale, con l’instaurarsi della società dei consumi. Buttare quello che avanza, non riparare quello che si guasta è tipico dell’economia del produrre: se una cosa non è perfetta la si butta». Dagli spazzolini da denti alle lavatrici, i nostri cestini dei rifiuti, le nostre discariche (spesso solo angoli di periferia dove si trova di tutto, dal divano al televisore), la cultura dell’usa e getta è solo nostro, dei moderni. «Abbondanza, sfarzo, ostentazione sono sempre stati il retaggio delle corti, da quelle lontane nel tempo a quelle più vicine, nei secoli, a noi. Ma questa cultura non è mai stata una cultura dello spreco, tutto quello che, a livello alimentare veniva ostentato non veniva mai sprecato ma inserito in un’economia di recupero e riciclo. Un esempio. A Parigi, durante la monarchia assoluta, c’era un’ enorme produzione di cibo, ma quello che avanzava non veniva buttato. Esisteva una vera e propria economia del recupero con ufficiali appositi che ridistribuivano in città gli avanzi della corte. Certo, si può discutere sulle diverse situazioni: su chi mangiava cibo fresco e su chi, invece, riceveva roba meno fresca, quando non deteriorata, ma non esiste nulla che ci possa far pensare a uno spreco. C’era, inoltre, l’idea, da parte del Re o del Principe, che quanto più uno dona o regala più dà un’immagine del suo potere».
Ma non era solo per questioni di potere o di immagine (si potrebbe dire così) che esisteva questa economia del riciclo. Sussisteva anche un interesse economico. «Tutte queste cose venivano recuperate in un’economia di vendita. In realtà non le conosciamo bene, ma la redistribuzione, il riutilizzo del cibo avanzato esisteva di sicuro». Lo spreco «è un discorso nostro, di oggi» anche perché, per fare un esempio italiano, da un film di Pupi Avati («Storia di ragazzi e ragazze»), negli anni 30 del secolo precedente, un pranzo di nozze che si rispetti doveva avere venti portate e non venti portate di ora, un assaggino, una lacrima e via. Roba vera, pesante. Eppure, nulla, anche di quei pranzi, spesso organizzati in casa, andava buttato. «È vero, anche a livello domestico è sempre esistita nella nostra tradizione gastronomica, un’economia del recupero. Tutti i ricettari più importanti prevedevano piatti di recupero: polpette, polpettoni, ribollite. Il cibo inteso non in funzione del singolo pasto ma di più pasti, specialmente quando questi seguivano una grande festa comandata. In questo senso è esemplare l’opera di Olindo Guerrini "L’arte di riutilizzare gli avanzi della mensa": nasce dall’idea di riutilizzare quanto avanzato dopo il pranzo di Natale. Esisteva un’economia della settimana che secondo me abbiamo perso». È arrivata l’industria (anche alimentare) «che ci ha introdotto nell’economia industriale del consumo: devi cambiare tutto. L’instant food al limite si conserva in freezer. La cultura del riciclo viene sostituita la cultura della dispensa piena».
Sicuramente il discorso dello spreco nasce dagli oggetti, ma l’abito mentale, poi si adatta anche al cibo. «Un pezzo di pane raffermo dove finisce? Nel Medioevo le regole monastiche prevedevano che, con gli avanzi del pane, alla fine della settimana si preparava una torta. Anche noi lo potremmo fare, non ci costerebbe niente avere un recipiente dove mettere le briciole, ma non lo facciamo». Sono sempre di meno le massaie (anche al maschile) che grattano il pane duro per poi riutilizzarlo per impanare o per altre ragioni. Da noi, in Europa in generale, e in Italia in particolare, il «doggy bag» è una delle poche «americanate» che non abbiamo importato. Però ora, promossa dall’Associazione italiana sommelier e sposata da molti gestori di ristoranti, sta partendo una promozione sul vino. Spesso non si ordina una bottiglia perché si è in pochi, qualcuno non beve o qualcuno deve guidare. Invece la bottiglia aperta te la porti a casa. È un discorso un po’ diverso, è vero, ma la cultura che sottintende è quella giusta: non si deve aver paura della tavola, perché è una benedizione.
Roberto Perrone