Michele Ainis, Corriere della Sera 20/11/2012, 20 novembre 2012
LO SLALOM VERSO IL VOTO E L’INGORGO ISTITUZIONALE
C’ è la meta, non ancora la rotta. Sappiamo che ci attende una cartolina precetto per il voto, ma non sappiamo quando, come, per chi. Mancano le regole della competizione (votare con le vecchie sarebbe una sciagura). Manca un’offerta politica precisa (quanto alla domanda, non ne parliamo: ormai il primo partito è quello del non voto). E manca in ultimo la data: al singolare, o forse al plurale. Quando e quanto voteremo? In un’unica tornata o distanziando le elezioni regionali e nazionali?
Siccome in Italia ogni accidente si trasforma in una guerra permanente, sul calendario delle urne si è subito innescata una tenzone fra i partiti, fino a minacciare la crisi di governo. E ovviamente con una scia di carte bollate, ricorsi giudiziari, appelli e contrappelli. Casus belli: il Lazio, dove il consiglio regionale è sciolto da quasi due mesi, ma la Polverini non ha ancora indetto le elezioni. La scorsa settimana il Tar le ha intimato di provvedere senza indugi, e allora ha preso corpo l’idea di votare in febbraio anche per Lombardia e Molise, tenendo le politiche in aprile. Però tre giorni dopo il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar, sicché l’election day (politiche e regionali insieme) ha ripreso fiato. Morale della favola: quando la politica è incapace di decidere, la decisione tocca alla magistratura. Ma questo già lo sapevamo.
Per scongiurare il rischio che lo slalom elettorale inizi con un capitombolo dell’esecutivo, Napolitano ha convocato il premier e i presidenti delle Camere. Dopo la riunione è stato diffuso un comunicato, dove s’ipotizza il 10 marzo come data unica del voto. A due condizioni: che nel frattempo il Parlamento approvi la legge di Stabilità e che confezioni una nuova legge elettorale. Dunque un breve anticipo sulla fine della legislatura, ma al contempo una rinuncia, giacché Napolitano è sempre stato l’orologiaio delle istituzioni, ne ha sempre difeso le scadenze naturali. In questo caso vi rinunzierebbe in nome della pax politica, della tregua fra i partiti.
Invece apriti cielo. Come si permette il presidente di ritardare le elezioni regionali? Difatti non si permette, si è permesso casomai il Consiglio di Stato. Perché ha fatto un regalo al centrodestra, accorpando le regionali e le politiche? Ma la scelta dell’election day non è del capo dello Stato: spetterà al governo, in sintonia con le Regioni. E perché non dice chiaro e tondo che voteremo per il Parlamento il 10 marzo? Semplice: perché anche questa data verrà stabilita dal Consiglio dei ministri, dopo le scioglimento delle Camere; ma fino a prova contraria Napolitano non le ha ancora sciolte.
Da qui l’ingorgo: quello dei cervelli. Poi c’è l’ingorgo istituzionale, che deriva dalla doppia scadenza delle Camere (il 29 aprile) e dello stesso presidente (il 15 maggio). Anticipando la prima data al 10 marzo si può districare la matassa, ma si può anche aggrovigliarla. Tutto dipende dalla volontà di Napolitano di conferire il nuovo incarico di governo dopo il voto; e lui ha già detto che non lo farà, per non vincolare il proprio successore. Sicché bisognerebbe stirare al massimo i termini costituzionali: 20 giorni per insediare il Parlamento (e arriviamo al 1º aprile), 15 giorni per eleggere i presidenti delle Camere e gli altri organismi di Montecitorio e Palazzo Madama (e siamo alla metà d’aprile), poi la riunione del Parlamento in seduta comune, con all’ordine del giorno l’elezione del capo dello Stato (e l’esperienza insegna che questa faccenda può andare per le lunghe).
Nel frattempo però il Paese rimarrebbe in stallo per oltre due mesi, senza un governo che rispecchi il responso delle urne, e con un vecchio governo (quello guidato da Monti) disarmato, perché i suoi poteri sarebbero circoscritti all’ordinaria amministrazione. Ce lo possiamo permettere, in questi frangenti straordinari? Probabilmente no, ed è possibile pertanto che il capo dello Stato decida d’anticipare di qualche settimana la sua uscita di scena, come fece già Cossiga nel 1992, in circostanze analoghe alle attuali. Insomma, la fine anticipata della legislatura può tirarsi dietro l’elezione anticipata del nuovo presidente. Ma in ogni caso il problema dell’Italia non è mettere indietro l’orologio, è farlo andare avanti. Di tempo ne abbiamo sprecato già abbastanza.
michele.ainis@uniroma3.it