Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 19 Lunedì calendario

IL BORSINO DELLA SALUTE SEGNA ROSSO


[vari pezzi]

La sua prenotazione è confermata per il 13 maggio del 2013”. La voce è tranquilla come quella di un’onesta funzionaria pubblica. Ma la notizia ha l’effetto di un insulto. Il signor Rossi, cittadino immaginario alle prese con la Sanità, ha prenotato un’Ecografia addominale e si è sentito rispondere dal Centro unico prenotazioni che il tempo di attesa è di 6 mesi. Ovviamente impreca, ma non sa di essere fortunato. Se avesse prenotato una Risonanza magnetica avrebbe dovuto attendere dai 9 ai 10 mesi, mentre sarebbe stato più “fortunato” nel caso di una colonscopia per la quale si prevede un tempo medio di attesa di 6 mesi e mezzo. Va peggio alla signora Rossi che, per una mammografia, analisi cruciale in sede di prevenzione, dovrebbe attendere dai 12 ai 14 mesi.
Il signor Rossi in attesa
I dati sono quelli forniti dal Tribunale dei diritti del Malato che ha appena pubblicato un rapporto completo sullo stato della Sanità pubblica basato sulle segnalazioni dei cittadini. I tanti signor Rossi, appunto, gli stessi che si sentono spiegare l’importanza della prevenzione (che costa meno delle cure e protegge la salute). Infatti, il nostro signor Rossi immaginario decide di andare dal medico di base che resta l’avamposto decisivo del sistema di protezione sociale. In Italia ce ne sono 46.510 (dati del ministero della Salute al 2008) e ognuno di loro, in media, cura 1.114 italiani (esclusi i bambini che si dividono i circa 7.500 pediatri registrati). C’è la fila, come sempre, però il medico è gentile, ascolta, dà fiducia. Il problema nasce quando, compilando il ricettario rosso, scatta la prescrizione per una visita specialistica. Occorre di nuovo prenotare: nel caso di una visita urologica occorrono 12 mesi di attesa, per quella oculistica da 8 a 11 mesi mentre va un po’ meglio per le visite di cardiologia e oncologia che richiedono, rispettivamente, da 9 a 7 mesi e da 9 a cinque mesi.
Seri problemi, poi, se si è costretti a un intervento chirurgico: per quello di protesi all’anca, ad esempio, si può attendere fino a 9 mesi mentre quelli di urologia richiedono 8 mesi.

La sanità migliore al mondo
È una grande angoscia per il nostro Rossi anche perché viviamo in un paese che svetta ancora a livello mondiale per la qualità della propria sanità. Nella classifica dell’Oms (l’ultima è del 2000), l’Italia è al secondo posto dietro la Francia. Prima di trovare un’altra grande potenza occorre arrivare al 10° posto con il Giappone. Molto distaccate, invece, la Gran Bretagna, al 18°, la Svizzera, al ventesimo, la Germania al 25° posto. Gli Stati Uniti sono ancora oltre, al 37° posto. Stiamo parlando di una classifica che è ancora il frutto di una riforma tra le più avanzate del mondo, quella del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario nazionale e della salute gratuita per tutti.

In quale ospedale andare
La riforma è stata costantemente ritoccata, ma resiste. E permette di esibire ancora situazioni di eccellenza sanitaria. La fama delGaslini di Genova o del Bambino Gesù di Roma fa parte della memoria di milioni di genitori. Per avere un quadro più preciso della qualità delle cure, però, è bene utilizzare i dati presentati lo scorso ottobre dal Ministero della Salute con Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che ha stilato una particolare classifica delle eccellenze sanitarie e delle strutture peggiori (vedi articolo a fianco). Lo studio è definito “Programma nazionale di valutazione degli esiti” e ha riguardato 1.483 strutture sanitarie per circa 10,5 milioni di degenze ospedaliere. Una maniera diretta e concreta di analizzare le performances e gli esiti delle cure per decidere a chi è bene affidarsi.

La fila al Pronto soccorso
Il signor o la signora Rossi non hanno, ovviamente, i dati dell’Agenas sottomano e quindi si trovano di fronte a tre strade: ricorrere subito a una struttura privata, spendendo di più (2-3 mila euro per un parto cesareo, 5-6 mila per una colecistectomia, etc.); sperare che il disturbo passi da solo (è la maggior parte dei casi). Oppure ricorrere al Pronto soccorso. Che viene così impropriamente usato come un ambulatorio pubblico (anche per visite che andrebbero fatte da specialisti), cioè luogo dove usufruire di un intervento gratuito, rapido e, spesso, risolutivo. Le immagini del degrado che si può trovare nei centri di prima emergenza degli ospedali sono però ormai note a tutti, come dimostrano i casi del Policlinico di Roma o delle Molinette di Torino. E dipende anche da chi ricorre all’urgenza anche per un’influenza. Eppure, nel Lazio gli accessi ai Pronto soccorso, dal 2000 al 2011, sono rimasti sostanzialmente invariati mentre è cresciuta l’attesa media, da 3,5 ore a 4,5. Secondo l’Ordine dei medici la causa è “lo stazionamento dei pazienti da ricoverare nell’ambito del dipartimento di emergenza per un tempo superiore alle 6-8 ore per la mancanza di una appropriata possibilità di collocazione ospedaliera”. Non ci sono posti sufficienti e quindi il Pronto soccorso fa da ambulatorio, ma anche da degenza. Un disastro. I tagli dei posti letto nei reparti, però sono la norma: quelli previsti dall’attuale governo riguardano 7.389 letti che, sommati ai precedenti, portano il taglio degli ultimi tre anni a 26.708. Meno 72 mila letti dal 2000.

Non resta che il ticket
“Con la politica della cosiddetta spending review – commenta il Tribunale del malato nel suo rapporto annuale - a più riprese sono stati tolti dal fondo sanitario nazionale oltre 23 miliardi. Che rispetto al totale è il 20% in meno del finanziamento totale”. Il problema è quindi di risorse ma, come dimostrano i frequenti scandali, la lottizzazione delle nomine sanitarie, l’intreccio tra profitto e salute, c’è anche un problema più generale di organizzazione e cultura. Resta il fatto che l’Italia ha una spesa sanitaria pro capite nel 2010 pari a a 2.282 euro (dati Oc-se) in linea con la media Ue che è di 2.171 euro, ma molto meno di Germania, 3.337, e Francia 3.058 euro. L’effetto di queste politiche è l’applicazione costante di nuovi ticket sanitari. Gli ultimi sono stati introdotti nel 2011 dal governo Berlusconi con 10 euro su visite specialistiche e diagnostica, e più di 25 euro sui codici bianchi (i casi meno gravi) al Pronto soccorso. Una tassa occulta che viene pagata prima o poi da tutti. Federfarma ha stimato che il contributo sulla spesa lorda delle quote di partecipazione a carico dei cittadini è passata dal 7,4% del giugno 2010 all’11,2% del giugno 2011. Non solo per gli interventi regionali sui ticket, ma anche per la riduzione dei prezzi di rimborso. Se la sanità resiste è anche perché oggi la paga il signor Rossi.

Salvatore Cannavò


GLI OSPEDALI DI ECCELLENZA NON SONO SOLO AL NORD–
Dove curarsi? Una metodologia di valutazione dell’efficienza del sistema sanitario è offerta dall’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali, che ha redatto il Programma nazionale di valutazione degli esiti (Pne). Vengono misurati gli effetti del ricovero calcolando la mortalità a 30 giorni dagli interventi oppure i tempi per l’intervento chirurgico. O, ancora, la percentuale di parti cesareo sul totale delle nascite. L’Agenas era presieduto da Renato Balduzzi, il quale, da ministro, ha indicato lo studio come un riferimento obbligato.
L’Agenzia ha esaminato 1.483 strutture sanitarie e oltre 10 milioni e mezzo di degenze ospedaliere per 7 milioni di pazienti. Per quanto rigurda l’indicatore della mortalità a 30 giorni dopo il primo ricovero per infarto (media nazionale 11,6%), tra le prime dieci strutture ben otto sono concentrate al Centro e al Sud Italia (il migliore è l’ospedale Madonna del Corso a San Benedetto del Tronto con l’1,5%). Ma nel Centro Sud si trovano anche sette delle dieci strutture con esiti molto negativi.
Per quanto riguarda l’intervento chirurgico entro 48 ore dal ricovero per frattura del collo del femore nell’anziano, lo scarto tra Nord e Sud è davvero rilevante. Se all’ospedale Loreto Mare di Napoli, è garantito solo allo 0,5% dei ricoverati, alla Poliambulanza di Brescia la percentuale sale al 94,4% . I dati si possono migliorare visto che il Policlinico Gemelli di Roma è passato dal 15% di pazienti operati in 48 ore nel 2008 all’attuale 72,2%.
Per il bypass aortocoronarico (media Italia 2,45%) viene descritto uno scenario molto vario: cinque strutture concentrate al Centro Nord hanno quasi azzerato la mortalità. Ma anche tre strutture del Sud sono positive.
Per l’ictus i migliori risultati sono stati raggiunti dall’ospedale Eustacchio a San Severino Marche con un dato di mortalità solo dell’1,50%, quelli più sfavorevoli all’Ospedale Venere di Bari con il 37,40%. L’intervento di valvuloplastica e/o sostituzione di valvola isolata (la media esiti italiana è del 3,15%), considerato come un buon indicatore della qualità delle strutture di cardiochirurgia, indica come vincente la Lombardia mentre per la colecistectomia laparoscopica in testa c’è la Clinica S. Anna di Agrigento Infine i parti cesarei: all’ospedale V. Emanuele II di Carate Brianza i parti con taglio cesareo primario sono il 4%, mentre alla clinica Mater Dei di Roma il 91,9%.


LA “TINA VAGANTE” CHE GARANTÌ LE CURE A TUTTI–
La “Tina vagante”, come la chiamavano nella Democrazia Cristiana, la riforma sanitaria la fece correndo. Su e giù per Roma, tra il ministero e Montecitorio, staffetta tra la Dc e la famiglia Moro di cui era amica. Assediata dal Vaticano, guardata con sospetto per il rapporto speciale con l’amica, e comunista, Nilde Jotti (che da presidente della Camera la volle a capo della Commissione P2). All’inizio visse lo spostamento al ministero della Sanità, da quello del Lavoro, come un declassamento: “Vuol dire che faremo una vacanza” disse al suo assistente più fidato, Enzo Giaccotto, segretario particolare e oggi Priore dell’Arciconfraternita dei Siciliani a Roma. Tina Anselmi ha 85 anni e Giaccotto accetta di parlare anche a nome suo: “Il 1978 fu l’anno del rapimento e dell’uccisione di Moro, il Pci era nell’area di governo, morirono due papi, di cui uno, Papa Luciani, caro amico di Anselmi”. E quindi si correva, tra il ministero collocato all’Eur, Montecitorio, Monte Mario dove abitava la famiglia Moro. E ben presto la vacanza divenne solo una battuta dimenticata in fretta. Anche perché appena insediata alla Sanità, Tina Anselmi si trovò di fronte alla prima grana. “La legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza, era stata approvata dal Parlamento anche con il suo voto contrario di cattolica, ma attendeva la firma del ministro. Le pressioni del Vaticano, fatte dalla Pastorale della Sanità, furono fortissime fino a minacciare la rottura dei rapporti. “Ma lei non indietreggiò, da ministro le sembrava inconcepibile derogare da un suo preciso dovere, firmare una legge approvata dalle Camere”. In quell’anno vide la luce anche la legge Basaglia e nacque, poi, la riforma della Sanità. “Giaceva in Parlamento da 14 anni e non aveva mai trovato lo slancio giusto”, ricorda ancora Giaccotto. Il quadro politico (cioè l’accordo tra Dc e Pci che a quel tempo sosteneva il governo Andreotti) ne permise la realizzazione. “Il nostro interlocutore fu Giovanni Berlinguer” allora “ministro ombra” del Pci per la Sanità e uno dei padri della riforma. Il suo discorso alla Camera del 23 dicembre 1978 non ebbe incertezze: “Essa (la riforma, ndr.) è il frutto dell’iniziativa del movimento operaio, rappresentato sia dalle organizzazioni sindacali che dai partiti della sinistra, partito comunista e partito socialista”. Aggiunge Giaccotto: “Infatti nella Dc si parlò di “salto nel buio” con pressioni dei settori più moderati – Andreotti, Piccoli, i Dorotei – per annacquare quella norma perché non era possibile dopo decenni di scomuniche al Pci condividere la stessa legge”.
La riforma eliminava le vecchie mutue, decentrava i poteri alle Regioni e alle Usl, erodeva potere e denaro alle strutture private, istituiva quattro princìpi cardine, come spiegò in aula il rappresentante della Dc, Bruno Orsini: “Globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”. Era la legge che accompagnava i mutamenti civili e politici dell’Italia. A opporsi furono i partiti moderati come i repubblicani, rappresentati da Susanna Agnelli, che si astennero; mentre liberali e Msi, che fece tenere l’intervento contrario a Pino Rauti, votarono contro.
“Per la riforma sanitaria - continua Giaccotto - il fatto di avere come ministro una “Tina vagante” fu un bene. Questa sua caratteristica di sfuggire agli ordini di partito o, peggio, di corrente, avrebbe poi garantito il lavoro svolto come presidente della Commissione P2”.

Sa.Can.


NIENTE DENARO, NON SI CURA IL TUMORE–
La crisi non si misura solo con il ragionieristico spread. Serve attraversare le corsie degli ospedali. La prevenzione e la cura sono un lusso se hai perso il lavoro. Flavia è della provincia di Napoli, si è rivolta a una struttura pubblica dopo aver avvertito un fastidio al seno. Ha pensato fosse il sintomo di una malattia dilagante nella Campania dei veleni: il cancro.
All’Asl la lista d’attesa per Flavia è lunga. Troppo. Oltre un anno. Alternative? Il privato, per chi può permetterselo. A Flavia non restava che attendere. “Il fastidio continuava – ha raccontato durante la visita – per fortuna sono riuscita a sottopormi a controlli gratuiti”. Ma bisogna ricorrere al volontariato, alla fondazione “Bartolo Longo III Millennio” che la visita e riscontra un tumore. Flavia è stata subito operata. “In quel giorno di screening gratuito abbiamo controllato 98 persone” racconta il presidente Sergio Amitrano. Senza quella visita la signora sarebbe ancora in attesa. La differenza, forse, tra guarire e no.
Insomma, rischia di salvarsi solo chi può permetterselo. A Roma la storia non cambia: Vanessa ha una figlia di 10 anni. Racconta: “Mio marito lavora, ma non lo pagano e il mio negozio è in crisi”. Il medico di famiglia consiglia di sottoporre la figlia a una visita specialistica, sospetto melanoma. Disponibilità agosto 2013. Ma le malattie non aspettano le liste di attesa. “C’era la possibilità di farla in intramoenia”, racconta Vanessa. Tempi più rapidi, una visita nella struttura pubblica. “Ma mi hanno chiesto 100 euro. Li troveremo. Spero che l’esame non ci obblighi a ulteriori spese. Non saprei come affrontarle”. Il Tribunale dei diritti del malato elabora un rapporto dove raccoglie testimonianze e suggerisce misure per ridurre le liste d’attesa, tra i punti critici proprio l’intramoenia.
ANGELA ABITA in provincia di Torino. Il figlio è autistico. Angela conduce una battaglia con le istituzioni per ottenere un aiuto, l’assistenza domiciliare che le consentirebbe di lavorare. Al momento vive con 600 euro al mese, il contributo che le spetta è di 400 più una quota per il trasporto scolastico. “Ho avuto un’ulcera corneale – ci racconta – dovrei sottopormi ad un trattamento con l’acquisto di farmaci. L’ho sospeso per risparmiare cento euro al mese. Ho dovuto barattare i giochi per la spesa”.
Uno spazio di ascolto per chi è in difficoltà è l’associazione di Giuseppe Iudici, imprenditore che ha pagato in prima persona la crisi chiudendo l’azienda.
Ma torniamo a Napoli, in uno studio medico. “La cura della bocca – spiega il dottor Roberto Duraccio - nel mezzogiorno è un diritto di pochi”. Ai senza lavoro non resta che fare un patto con il medico che si sobbarca il rischio pur di curare e lavorare. Franco non ha più lavoro. Quando arriva a visita, la diagnosi è semplice: asportare un dente e curare gli altri. Totale mille euro che Franco non può permettersi. Rinuncia. Un problema enorme, visto che il soggetto è cardiopatico e l’infiammazione potrebbe costargli cara. Ma curarsi è un lusso che non può permettersi.

Nello Trocchia


UN PAESE PER VECCHI CHE SI AMMALANO PRESTO–
Vivere più a lungo ma vivere sempre peggio. É questo il destino che aspetta la maggior parte degli italiani, ma quasi nessuno sembra preoccuparsene granché: “É un’enormità - racconta l’epidemiologo Valerio Gennaro - una tragedia. Qualcosa che dovrebbe come minimo far aprire un tavolo di lavoro. E invece niente”. Gennaro è uno stimato professionista che da oltre 30 anni, dai tempi di Seveso, lavora con l’Istituto per la ricerca sul cancro di Genova, studiando le conseguenze sulla salute delle esposizioni a fattori inquinanti a rischio, sul lavoro e nella vita quotidiana: “Sono un medico - racconta - e fornisco alle istituzioni un lavoro di conoscenza”. E infatti l’allarme sulla “tragedia” in corso non è la fuga in avanti di uno visionario in cerca di notorietà, ma il frutto della semplice lettura di dati ufficiali: “I dati Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, ndr) ci dicono che l’aspettativa di vita in Europa e in Italia è, come sappiamo, in miglioramento. Una donna italiana di 65 anni, oggi, ha di fronte a sè un’aspettativa media di 22 anni di vita. Belle notizie, peccato che ci sia anche un’altra statistica che nessuno sembra voler leggere: quella sull’aspettativa di vita sana. Ebbene, fino al 2003 l’Italia era tra le migliori dell’Ue, dal 2004 c’è un calo drammatico”.
IL SIGNIFICATO è semplice, in Italia, oggi, si vive in media più a lungo ma ci si ammala prima: “Una bambina nata nel 2004 - racconta Gennaro - aveva di fronte a sè un’aspettativa di vita sana di 70 anni. Una bambina nata nel 2009 circa 62. E una donna di 65 anni nel 2003 poteva sperare di vivere in buona salute ancora per 13 anni; oggi ha una prospettiva di 7. C’è stato un dimezzamento dell’aspettativa di vita sana. Una cosa enorme”. Una generalizzata anticipazione di sofferenza, certo, ma anche un aggravio diagnostico e farmaceutico che graverà sul bilancio della Sanità, quindi della comunità. Sono dati di evidenza pubblica che chiunque può consultare online, ma in Italia sono passati sotto silenzio: “Chiediamoci il perché - ancora Gennaro - se è colpa dell’inquinamento, dell’alimentazione , della crisi che rovina la salute o di chissà cos’altro. C’è chi sta peggio (come la Germania, per esempio), ma in altri paesi l’aspettativa di vita sana sta crescendo significativamente, per esempio in Svezia. Cosa aiuta gli svedesi a vivere a lungo meglio? Abbiamo la fortuna di avere una statistica, possiamo difenderci. E invece facciamo finta di niente. Questo - conclude l’epidemiologo - è un paese dove il dato scientifico è spesso irrilevante. Serve solo per dare forza alle opinioni, non viceversa. E non lo dico io, lo denuncia anche l’ ultimo editoriale di Nature, prestigiosa rivista scientifica internazionale. Per fare un esempio, se prendessimo in considerazione questa statistica, che fine farebbe l’assioma secondo cui,, dato che si vive più a lungo è necessario lavorare più a lungo e andare in pensione più tardi? Se a 70 anni sei già ammalato da dieci, come si può lavorare? Forse è il caso di ricordarsi che la salute non solo viene prima del lavoro, ma è anche più utile. Se fossimo delle mozzarelle sarebbe tutto più semplice. Ma siamo uomini e non abbiamo ancora diritto a tutto quel packaging protettivo”.

Stefano Caselli


FONDI DELLO STATO SOLTANTO AL VATICANO–
da Genova
Cinquanta milioni l’anno dello Stato all’ospedale del Vaticano (Bambino Gesù). Zero a quello pubblico (Gaslini, ma il discorso vale anche per gli altri).
Elena, 9 anni, ricoverata nel reparto di oncologia del Gaslini di Genova non si cura di questi “paradossi”. Guarda negli occhi il medico e gli chiede: “Quando uscirò?”. Lui, il professor Pierluigi Bruschettini, fa uno sforzo fisico per non abbassare lo sguardo. Da 40 anni lavora qui, da mattino a notte lo trovi tra i piccoli malati di cancro. Ha messo su un giornale che pubblica le loro poesie. Con una fondazione ha comprato appartamenti per ospitare le famiglie che vengono da lontano. Ma non basta una vita per trovare la risposta a Elena. Quando esci dal Gaslini il mondo fuori ti appare diverso, assurdo perfino. Hai il cuore gonfio di stati d’animo contrastanti: dolore e speranza, sconforto e ammirazione. Per quei bambini che lottano e non è vero che non capiscono. Per i genitori che si tormentano le mani nelle sale d’aspetto. Per i medici che a volte ti sembrano eroi e vengono pagati dieci volte meno di un manager.
SIAMO in un ospedale simbolo della migliore sanità italiana. “Qui – spiega il direttore sanitario Silvio Del Buono – approdano bambini da tutta Italia e da 90 Paesi (tra cui Iraq, Afghanistan e Striscia di Gaza). Nonostante i tagli siamo al primo posto in Italia per la ricerca pediatrica”. Ma nello stesso tempo un istituto in crisi, al centro di una lotta per il controllo di due ospedali pediatrici di eccellenza: Gaslini e Bambino Gesù. L’un contro l’altro armati uomini vicini ai cardinali Angelo Bagnasco e Tarcisio Bertone. Per non parlare di incursioni della politica. “L’intervento delle gerarchie ecclesiastiche è sempre più pesante. E pensare che il Gaslini, nonostante sia controllato anche da una fondazione presieduta dal cardinale di Genova, è pubblico”, racconta Sandro Alloisio della Cgil, uno dei pochi a parlare apertamente. Perché nelle corsie ormai tanti denunciano “invasioni di campo”, ricordano i soldi spesi per la nuova cappella, ma poi pubblicamente tutti tacciono. Del resto basta leggere i nomi ai vertici del Gaslini: il direttore generale è Paolo Petralia. Il suo nome (Petralia , va detto, non era indagato) compariva nelle intercettazioni dell’inchiesta Mensopoli che ha scosso Genova nel 2008: “Ha detto se mi faccio seguire le cose da Petralia che è un uomo molto vicino a Bagnasco”, dicevano gli indagati. Ancora: “Il lavoro sporco lo facciamo fare a ‘sto Petralia”. Niente di illegale è emerso, e comunque quelle frasi non hanno fermato la carriera di Petralia. Intanto mille fili uniscono l’ospedale e la banca Carige, il salotto dei potenti genovesi dove siedono scajoliani e uomini vicini alla Curia. Flavio Repetto e Amedeo Amato sono in entrambe le fondazioni. Nella banca sedeva anche Vincenzo Lorenzelli, oggi presidente del Gaslini che non ha mai smentito la sua vicinanza all’Opus Dei. Poltrone e polemiche: Marta Vincenzi, allora sindaco di Genova, designò nel cda del Gaslini Donato Bruccoleri, farmacista senza esperienza specifica e cugino di Totò Cuffaro, all’epoca ancora in auge nell’Udc (che doveva allearsi con il Pd per le regionali). La Regione invece scelse Raffaele Bozzano, anch’egli senza esperienza specifica e già socio di Franco Lazzarini (grande amico del Governatore Claudio Burlando).
DALL’ALTRA PARTE del Tevere, al Bambino Gesù, regnano invece i bertoniani: il presidente è Giuseppe Profiti condannato in appello a sei mesi per Mensopoli, ma sempre sostenuto da Bertone, fino a farlo ricevere dal Papa nel mezzo dell’inchiesta.
Finora i bertoniani l’hanno spuntata. Il Bambino Gesù ha “scippato” a Genova medici eccellenti come Giacomo Pongiglione che per primo al mondo ha trapiantato un cuore artificiale su un quindicenne. Certo il Bambino Gesù è un ospedale prestigioso. Ma forse c’entra anche il fatto che i suoi dipendenti seguono il regime fiscale vaticano. Ora ufficialmente si parla di tregua, di alleanze. Ma Del Buono sottolinea: “Nessuna polemica, ma quei 50 milioni dovrebbero essere riservati almeno anche agli ospedali pubblici”.
A Elena e ai bambini del Gaslini, però, di queste lotte non arriva nemmeno l’eco. Hanno battaglie più grandi da combattere.

Ferruccio Sansa


TORINO, IN RIANIMAZIONE I PAZIENTI NON SONO SOLI –
Nella sfortuna di trovarsi in un reparto di terapia intensiva, ci si può anche sentire fortunati. Perché in Italia, per un paziente di Rianimazione, avere il conforto dei propri familiari mentre si lotta tra la vita e la morte, tra crisi respiratorie e dolori, è tutt’altro che scontato. Anche quando chi è ricoverato è un bambino di pochi mesi.
NEL NOSTRO Paese il tempo medio di visita nelle rianimazioni è di due ore al giorno e solo due reparti su cento non pongono limiti. Da un’indagine presentata in Senato emerge che molte unità di rianimazione non modificano le proprie “visiting policies” neanche quando il paziente sta per morire. Nel resto del mondo va diversamente: in Svezia le porte della rianimazione sono aperte nel 70% degli ospedali, in Inghilterra nel 50, il 30 negli Usa. Perché allora l’Italia non riesce a far uscire le rianimazioni dal “bunker”? Nel 2007 la Commissione Bioetica della Toscana ha confutato le principali giustificazioni che consentono ancora oggi di tenere chiuse le porte: dal rischio di infezioni, all’interferenza con il trattamento, allo stress per il paziente. Tutto smentito. Ma a distanza di cinque anni la situazione è cambiata poco o nulla. “Da parte di tanti colleghi c’è più una pigrizia mentale che una reale necessità”, spiega Sergio Livigni, primario di Rianimazione al San Giovanni Bosco di Torino. Qui le porte sono aperte 24 ore su 24 dal 2008. “Credo sia un diritto negato quello di non permettere ai pazienti di avere i familiari accanto. Un orario di visita full-time è più impegnativo, ma è anche più gratificante”. Anche perchè questa scelta comporta dei vantaggi terapeutici. Come ricorda Gianni Biancofiore dell’unità di terapia intensiva di Pisa: “Lo sradicamento dei malati dal loro tessuto familiare può indurre o peggiorare una sindrome da stress post-traumatico caratterizzata da ansia e depressione”.
INTANTO in Parlamento qualcosa si muove. A luglio in Commissione Sanità del Senato è stato presentato un disegno di legge per fissare in almeno 12 ore al giorno l’apertura dei reparti per i pazienti adulti e in 24 ore per i bambini. “Ma non è detto che il ddl riesca ad essere approvato entro fine legislatura”, spiega la senatrice Fiorenza Bassoli, una delle promotrici. Nel frattempo, come cantava De Andrè, “quando si muore, si muore soli”.

Lorenzo De Cicco

ELIPORTO INAGIBILE E BARELLE “LARGHE”–
La storia che stiamo per raccontare sembra ambientata in un’epoca che non c’è. Siamo a Sassari, Sardegna. Dopo anni viene ristrutturata un’ala dell’ospedale civile. Grandi progetti, affidati a un notabile di An, sicuramente ambiziosi. Il blocco è quello del pronto soccorso e della cardiochirurgia.
Milioni di spesa e taglio del nastro. Ecco a voi la prima prima perla. L’eliporto. Bello da vedere, luci che lampeggiano, attrezzato per l’atterraggio notturno, barriere. Tutto a 40 metri d’altezza. Peccato che l’eliporto non abbia mai visto un elicottero . Motivo? Non c’è un’ascensore adeguata che dalla pista di atterraggio porti al pronto soccorso. Solo scale esterne. In genere come minimo si viene espulsi dall’ordine degli ingegneri, degli architetti, viene bruciato il diploma di geometra, ma tutto questo nei Paesi che non sono l’Italia. Si finisce anche sotto inchiesta. A volte. Gli scatti di genio però non finiscono. Basta scendere in cardiochirurgia. Reparto dove operano fior di medici e personale paramedico. Tutti preparatissimi, perché la sanità sassarese è fatta anche di grandi eccellenze. Umane, però. Non infrastrutturali. Perché quel gran genio di progettista, quando è andato a disegnare le porte non ha calcolato la larghezza delle barelle. Così il malato viene trasferito su una piccola lettiga. Come se non bastasse tutto il resto c’è un altro particolare: dopo 20 anni di lavori e centinaia milioni di euro spesi, si accorsero che nelle sale operatorie mancava il blocco delle luci. Storie di un’altra epoca, appunto.

Emiliano Liuzzi