Adriano Bonafede, Affari & Finanza, La Repubblica 20/11/2012, 20 novembre 2012
LA SAGA DEL MATTONE DI STATO PERCHÉ IN VENTICINQUE ANNI NESSUNO È RIUSCITO A VENDERE
«Il valore degli immobili su cui possiamo lavorare è tra i 3 e i 5 miliardi. Si tratta di caserme, di beni già conferiti alla Cassa depositi e prestiti e di 350 beni individuati dal demanio potenzialmente conferibili ai nuovi fondi della costituenda sgr». Ecco le conclusioni del ministro dell’Economia Vittorio Grilli sulla vendita degli immobili pubblici che per un anno ha dominato il pubblico dibattito, con svariate proposte (da quella del duo Bassanini-Amato a quella del Pdl, da quella dell’ex Ragioniere dello Stato Andrea Monorchio a quella del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, per finire a quella del Pdl). Un dibattito che aveva accesso speranze per una vendita accelerata dei beni pubblici con il fine di ridurre drasticamente il debito pubblico da 2.000 miliardi di euro e alleviare in questo modo i sacrifici degli italiani, tartassati da ogni genere d’imposta. Ma il mesto Grilli, a un recente seminario a porte chiuse ha gelato tutti: massimo 3-5 miliardi. Come a dire una goccia in un mare da circa 400 miliardi di immobili (i calcoli sono i più vari e vanno da un’ipotesi minima di 190 miliardi - vedi grafico in pagina - a 500 e oltre) che, secondo il ministro, nessuno riuscirà a vendere. Il mattone di Stato - caserme, edifici, siti industriali, uffici e così via - non si può vendere, dice Grilli, o al massimo se ne possono vendere briciole e un po’ per volta. Rispetto alle “grandi speranze” sollevate un anno fa, la delusione non poteva essere più cocente. Un oscuro deputato dell’Italia dei Valori, Francesco Barbato, dopo la risposta a una sua interrogazione, mercoledì scorso, da parte del sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani, ha chiosato: «È particolarmente censurabile che il governo, nonostante la sua caratterizzazione tecnica, non sia stato ancora in grado di assumere iniziative decise in questo campo». In effetti Vieri Ceriani ha fatto presente che di tutta questa massa di immobili sparsi fra segmenti dello Stato ed enti locali, si sa ancora abbastanza poco: «Il primo approccio sistematico per una completa conoscenza dell’attivo pubblico è rappresentato dal progetto “Patrimonio della pubblica amministrazione” avviato dal ministero dell’Economia ai sensi della legge finanziaria 2010. Una prima fase di raccolta dati, terminata nel marzo del 2011, ha riportato una risposta complessiva pari al 53 per cento del totale». Quasi la metà degli enti pubblici non aveva risposto, tanto che lo stesso Vieri Ceriani ha detto che la prossima rilevazione sarà integrata con banche dati ufficiali. Certo, il tempo passa e prima o poi tutto finisce nell’oblio. Ma è strano che Vieri Ceriani (o chi ha per lui scritto la risposta all’interrogazione) abbia completamente dino menticato che già nella seconda metà degli anni Ottanta una commissione pubblica, presieduta da Sabino Cassese, aveva prodotto, con un lavoro certosino durato due anni, un completo censimento di tutti gli immobili pubblici. Perché anche allora, nell’era del Prima Repubblica, qualcuno si era posto il problema della vendita di una grossa parte dell’immenso (e inutilizzato o mal utilizzato) patrimonio immobiliare pubblico. Il lavoro della Commissione Cassese non andò completamente perduto. Nel 1993 fu costituita Immobiliare Italia, dove entrarono vari soggetti allora pubblici, come Imi, Bnl, Banca di Roma, Crediop, Iccri, Comit, Credito Italiano, Fonspa aed Eni. La società aveva l’ambizioso obbiettivo di portare nelle casse dello Stato 50 mila miliardi di lire (circa 25 miliardi di euro). I precedenti storici erano incoraggianti: nel 1862, l’allora ministro delle Finanze Quintino Sella, aveva creato una spa partecipata dalle banche che, vendendo proprietà immobiliari pubbliche, sanò per il 48 per cento il deficit delle casse regie. La Repubblica Italiana non sembra però riuscire, nelle sue cangianti versioni di “Prima” o “Seconda”, laddove il Regno aveva avuto successo. Infatti dopo tre anni Immobiliare Italia fu chiusa senza aver venduto un solo immobile. I tentativi successivi di cavare qualche ragno dal buco del mattone di Stato sono stati numerosi, ma tutti velleitari. Il governo Prodi nel 1998 istituì una commissione presieduta da Giacomo Vaciago che però non si tradusse in alcun risultato concreto. Poi arrivò Berlusconi e il ministro Tremonti provò con le cartolarizzazioni immobiliari denominate Scip 1 e Scip 2. La prima ebbe un relativo successo (ma gli enti previdenziali, che avevano ceduto le abitazioni, si lamentavano perché il prezzo pagato a loro era basso, mentre erano stati i privati entrati nel veicolo a guadagnare), la seconda fu un vero fallimento. Una serie di successivi interventi sparsi un po’ qui e un po’ là dal vero deus ex machina di quella fase, cioè Giulio Tremonti, hanno creato una specie di diaspora che perdura tuttora. Nel 2002 era stata creata Patrimonio dello Stato Spa (a capo della quale era stato messo Massimo Ponzellini), che sarebbe dovuta diventare il soggetto a cui trasferire tutti i beni dello Stato, ma che è stata chiusa nel 2011. Mentre nasceva Patrimonio dello Stato sorgeva anche Fintecna, che doveva pensare alla valorizzazione e alla vendita dei beni pubblici anche grazie all’accordo con partner privati: l’operazione più importante è stata quella per le torri dell’Eur dell’ex ministero delle Finanze, ancora in fieri. Nel 2004 il Mef aveva costituito il Fondo Immobili Pubblici che doveva vendere (e ancora sta vendendo) immobili per 3,3 miliardi. Qual è adesso la situazione? Fintecna è da poco pervenuta alla Cassa depositi e prestiti. Quest’ultima, comunque, ha già una Direzione immobiliare, che si occupa di aiutare gli 8 mila enti locali a vendere i loro asset. In Cdp c’è anche un’sgr che insieme ad altri partner gestisce il fondo di housing sociale e un altro fondo (Fiv) che opera per valorizzare gli asset delle utilities locali. Infine, last but not the least considerando la proliferazione di interventi che si sovrappongono, nascerà una nuova sgr che farà capo questa volta al ministero dell’Economia (mentre in un primo tempo avrebbe dovuto far capo al Demanio, molto attivo i quest’ultimo anno), per creare un fondo da 3-5 miliardi. «Lo Stato negli ultimi 20 anni ha fatto molti tentativi di vendita del patrimonio - dice Cesare Ferrero, country manager di Bnp Paribas Real estate - con risultati di alterna fortuna e senza una regia stabile. Bisogna domandarsi perché. Io credo che l’errore sia nelle procedure di vendita straordinarie senza strategia industriale. Io suggerirei di procedere a un’operazione di privatizzazione del patrimonio, conferendo a una Spa pubblica 40-50 miliardi di asset, come avvenuto per Fs, Eni, Enel o Autostrade. Poi la società, ben gestita da un buon management, attuerà la migliore strategia gestionale e verrà quotata». Ma perché tutti i tentativi esperiti finora finiscono regolarmente nel (quasi) nulla? «L’ostilità della struttura burocratica - spiegò nel 1996 l’allora presidente di Immobiliare Italia, Luigi Scimia - ha pesato in misura decisiva sul fallimento». «È ancora così - dice oggi Gualtiero Tamburini, presidente di Federimmobiliare - Ci sono le resistenze sotterranee da parte di tutti quelli che il patrimonio immobiliare pubblico lo utilizzano per fare favori (affitti regalati, prezzi di vendita ridicoli). Nessuno si priva di uno strumento di potere. Per spezzare questo circolo vizioso occorreva un coraggio e una lungimiranza che questo governo d’emergenza forse non poteva avere».