Marco Panara, Affari & Finanza, La Repubblica 20/11/2012, 20 novembre 2012
PER IMPRESE E CLASSI MEDIE UN “FISCAL CLIFF” ALL’ITALIANA
Le tasse sono una cosa seria. Lo dimostra la parabola del disegno di legge di Stabilità, che nel testo uscito dal Consiglio dei Ministri prima è stato smontato nei numeri, che pure erano stati prodotti dai sacerdoti dei numeri del Ministero dell’Economia, e poi smantellato politicamente, mentre quello che uscirà dal Parlamento si presenta con un tiepido pannicello che tocca molte cose senza incidere su nessuna. Fermo restando che il problema fiscale numero uno in Italia è l’evasione e il problema numero due è il carico eccessivo per chi le tasse le paga, dovremmo essere consapevoli che il problema numero tre, dal quale dipendono il numero uno, il numero due e molte altre cose, è la ripartizione del prelievo. Da dove e da chi si prendono le tasse, e in quale misura, dipendono in buona parte la struttura dell’economia del paese e l’equilibrio della sua società. Se si tassano poco patrimonio e rendite e molto lavoro e impresa avremo un paese pieno di proprietari immobiliari e imprese con poco capitale, quindi una società patrimonialmente ricca ma economicamente poco dinamica. Se si tassano poco patrimonio e rendite e la progressività sui redditi è poco efficace avremo disuguaglianze crescenti. Forse non è solo per via del fisco, ma avendo un fisco di questo tipo non dovremmo stupirci se l’economia italiana non cresce, le imprese hanno molti debiti e poco capitale e investono poco e se la distanza tra i ricchi e i poveri aumenta mentre parallelamente arretra anche la classe media.
Poiché la fotografia dell’Italia e quella del suo sistema fiscale sono troppo esattamente sovrapponibili perché sia un caso, e poiché di quella fotografia dell’Italia la maggioranza di noi non è contenta dovremmo a questo punto ragionare e decidere cosa fare.
Che una riforma fiscale sia necessaria lo dicono tutti, il problema però è che una operazione del genere prima di essere tecnica è innanzitutto politica, perché prima di decidere che fisco vogliamo dobbiamo decidere che Italia vogliamo e solo dopo costruire un sistema fiscale che ci aiuti a portarla in quella direzione. Per decenni abbiamo vissuto e subito il fisco solo in termini di quantità: tasse e sovrattasse sono state imposte per raccogliere il denaro necessario a tappare i buchi. Ma se la quantità è rilevante, e per i livelli che ha raggiunto un ostacolo alla crescita, la qualità non lo è da meno. Stabilizzare e ridurre la spesa pubblica è fondamentale per ridurre la quantità del prelievo, rendere efficiente e trasparente la spesa è fondamentale per legittimarlo, ma per far ripartire nel modo giusto il paese ci vuole la terza gamba: una ripartizione del prelievo che sia da una parte meno funzionale alla rendita e più al dinamismo dell’economia e, dall’altra, che incida sulle disuguaglianze per ridurle anziché aumentarle.
Se è vero che ci avviciniamo ad una svolta, ad una fase nuova nella vita del paese, ci aspetteremmo una discussione pubblica e non opportunistica, alta e tecnicamente solida, sull’Italia che vogliamo e con che tipo di fisco pensiamo di costruirla. Sappiamo che ci sono vincoli enormi, che la quantità del prelievo non si potrà ridurre significativamente in tempi brevi, ma avere le idee chiare su dove si vuole arrivare consente di modificare con consapevolezza la struttura del prelievo pur rispettandone le quantità e consente anche, quando qualcosa si può togliere o qualcosa si deve aggiungere, di inserire tasselli di un disegno coerente invece, come fino ad oggi è avvenuto, di sparare nel mucchio.
Il primo passo, per una discussione responsabile, è rompere i tabù, liberarsi di quelle tesi che sono state ripetute tante volte da essere percepite come vere. Un primo pezzetto di strada in questa direzione ci aiuta a percorrerlo il Congressional Research Sevice, il qualificatissimo centro di ricerca del parlamento di Washington che notoriamente non è un covo di estremisti. Nel rapporto “Taxes ad the Economy: An Economic Analysis of the Top Tax Rates Since 1945” scritto dallo specialista in finanza pubblica Thomas Hungerford e pubblicato lo scorso settembre, c’è una analisi dettagliata dell’impatto delle aliquote marginali sui redditi e sui guadagni in conto capitale su risparmio e investimenti, crescita della produttività, crescita del reddito pro capite e distribuzione della ricchezza. La ricerca ha lo scopo di fornire elementi alla discussione vivacissima in corso negli Stati Uniti su come modificare il prelievo fiscale per ridurre il deficit, tra i sostenitori di un aumento delle tasse sui più ricchi (i democratici) e chi invece ritiene che si debba aumentare la base contributiva attraverso tagli alle detrazioni per ridurre il deficit e le aliquote (i repubblicani). Questi ultimi, a sopporto della loro posizione, sostengono che aliquote marginali più basse favoriscono risparmio e investimenti e l’aumento della produttività.
L’analisi fa giustizia di molti luoghi comuni. Dimostra con i dati che non c’è nessuna correlazione tra la riduzione delle aliquote marginali sui redditi e sui guadagni in conto capitale con la crescita dell’economia, con la propensione al risparmio e all’investimento e con la crescita della produttività. Anzi. Negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso l’aliquota marginale sui redditi era del 90 per cento e quella sui guadagni in conto capitale era del 25 per cento: in quel periodo il pil è cresciuto mediamente del 4,2 per cento e il pil pro capite del 2,4. Negli anni 2000 con l’aliquota marginale sui redditi al 35 per cento e quella sui guadagni in conto capitale del 15 la crescita media del pil è stata dell’1,7 per cento e quella del pil pro capite dell’1 per cento. In compenso l’aumento delle disuguaglianze è stato imponente. La quota della ricchezza prodotta che nel 1945 andava allo 0,1 per cento della popolazione era il 4,2 per cento, nel 2007 è stata del 12,3 per cento, il triplo. La conclusione di Hungerford è icastica: “L’evidenza non suggerisce che ci sia una relazione tra il livello delle aliquote marginali e la dimensione dell’economia. Ma ci può essere una relazione su come la ricchezza viene distribuita”. Andrebbe scolpita nel marmo.