Lucio Caracciolo, la Repubblica 20/11/2012, 20 novembre 2012
MALI, NUOVO FRONTE CONTRO IL TERRORE
Undici anni dopo l’11 settembre, la guerra al terrore inaugura un nuovo teatro: il fronte del deserto. Il casus belli è la secessione delle regioni settentrionali del Mali — quasi tre volte l’Italia, nemmeno un milione e mezzo di abitanti — che offre ad al-Qa’ida nel Maghreb islamico (Aqim) e affiliati l’occasione di costituirvi un santuario strategico di portata globale. Questa almeno la versione codificata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza il 12 ottobre scorso. Promossa dalla Francia, già padrona del Mali e dell’Africa nord-occidentale, con il fervido sostegno degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e di gran parte degli Stati africani, la risoluzione 2071 apre la strada alla campagna per sradicare dal Nord del Mali il cancro del qaidismo, secondo le sperimentate ricette del controterrorismo di matrice americana.
Il santuario qaidista nel Mali è “una minaccia per l’intera regione e per il mondo”, ha stabilito Hillary Clinton, echeggiando François Hollande e i media francesi, che da mesi evocano l’incubo “Africanistan”. Come i Taliban concessero a Osama bin Laden l’Afghanistan, trampolino d’attacco agli Stati Uniti, così i ribelli tuareg che il 6 aprile scorso avevano proclamato l’indipendenza dell’Azawad, loro coronimo per le regioni maliane di Timbuctù, Gao e Kidal, hanno dovuto cedere campo e bottino, in circostanze piuttosto misteriose, ai jihadisti di Aqim, Ansar al-Din (Difensori della fede) e Mujao (Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale). Con ciò mettendo in questione non solo il simulacro dell’integrità territoriale del Mali, ma i rapporti di forza negli immensi spazi sahariano-saheliani e soprattutto la sicurezza dell’Occidente, America e Francia in testa.
Le dimensioni di Aqim non sono impressionanti. Qualche centinaio di miliziani armati di tutto punto, dediti al narcotraffico, ai rapimenti di walking money (cooperatori, turisti e spericolati giornalisti, per il cui riscatto le nostre intelligence versano milioni di dollari), alla propagazione dell’islam salafita in versione cruenta. Ma vale il marchio: al-Qa’ida. Brand di tragico successo, con il quale Stati Uniti e resto dell’Occidente identificano il “terrore globale” — leggi: capace di colpire in America e in Europa. Aqim non ha mai varcato gli oceani, eppure nella rappresentazione del Pentagono è l’ultimo anello della temibile “fascia salafita”, inquietante macchia jihadista che nella cartografia militare a stelle e strisce corre dallo Yemen all’Africa occidentale. Imperniata su quattro sigle, quattro facce del medesimo mostro: Aqap (al-Qa’ida nella Penisola Arabica), al-Shabab (Somalia), Boko Haram (Nigeria) e appunto Aqim.
Ma non siamo più alle crociate di Bush junior. A Washington tira aria di quaresima. Va di moda lo smart power. La guerra al terrore globale continua, ma con altri mezzi. Non più invasioni dai costi e dalle perdite insopportabili. Semmai, operazioni coperte e spiegamento di droni, armi democratiche per eccellenza, poiché servono alle democrazie occidentali per condurre una guerra invisibile alle proprie opinioni pubbliche, scottate dalle disastrose campagne afgana e irachena. Per il resto, l’America “guida da dietro”. In parole povere, usa risorse altrui per fini propri. O almeno spera di farlo. Salvo poi scoprire che sono altri — nella fattispecie qualche dittatore, tribù o mafia africana — a profittare del controterrorismo Usa fingendo di servirlo.