Giancarlo Petrella, Il Sole 24 Ore 18/11/2012, 18 novembre 2012
EDITORE DI LIBRI E SAPONI
Nel 1545, o poco oltre, si spegneva a Lucca Ippolito da Ferrara, un misconosciuto cantastorie e venditore girovago di opuscoli e altra mercanzia. Della presenza e del ruolo dei "cerretani", figure a metà strada fra commercianti ambulanti, librai e persino editori d’occasione, nel sottobosco del circuito editoriale del Rinascimento non sappiamo ancora abbastanza.
Si stenta a ricostruirne il giro d’affari, che pure testimonia dell’effettiva richiesta di letture da parte di artigiani, mercanti e semiletterati, soprattutto per la comprensibile difficoltà di sopravvivenza di intere categorie librarie (fogli volanti, opuscoli e stampe di largo consumo) oggi disseminate fra biblioteche pubbliche, collezioni private e mercato antiquario. Si tratta di figure marginalmente presenti nei repertori bibliografici, ma che all’epoca seppero conquistare pubblico e porzioni di un mercato che dovevano conoscere bene e che probabilmente contribuivano a creare, invogliando all’acquisto di opuscoli e stampe di vario argomento da loro commissionate. Qualcuno assurgeva persino agli onori della cronaca, tanto da guadagnarsi una sorta di necrologio pubblico nella forma di un lamento a stampa, che finiva a sua volta coll’entrare in quello stesso circuito commerciale che in vita il cantimbanco aveva alimentato.
È questa la vicenda di Ippolito Ferrarese, la cui itinerante attività si prolungò per quasi un ventennio dalla natia Ferrara alle strade e piazze di Venezia, Brescia, Bologna e di parecchie località del centro Italia fino all’improvvisa scomparsa. Per l’occasione un anonimo collega scelse infatti di commemorarne l’attività commissionando la stampa di un paio di lamenti in ottave nei quali l’anonimo verseggiatore finge che «il ferrarese in Luca, un giorno avanti la morte sua, facendosi dar la lira» ripensi alla propria esperienza di canterino. Il componimento assume per certi versi una valenza storico-documentaria. Rivela particolari altrimenti inediti: Ippolito aveva moglie e figli a Ferrara e, come altri mercanti del libro, cercava proventi dalla vendita di altre mercanzie forse persino più fruttuose. Il libro viaggiava assieme a una merce meno nobile, ma altrettanto remunerativa, il sapone: «Io portavo fra gli altri il pregio, il vanto / facendo di savone argento ed oro / ... Adesso conosciute fien le balle / del Ferrarese dall’altrui sapone».
Non so quando da cantimbanco e venditore di sapone Ippolito si sia fatto editore. Né so dire se smerciasse soltanto le edizioni stampate per suo conto o fosse invece anche libraio ambulante di libri (nuovi o usati?) impressi da altri e acquistati probabilmente sul mercato veneziano.
L’attività editoriale prese avvio ufficialmente a Pesaro nel 1531, quando in data 26 luglio venne licenziata una plaquette sull’assedio di Firenze e il ritorno dei Medici in città che reca esplicitamente (e per la prima volta, almeno stando alle edizioni sopravvissute) il suo nome al colophon come finanziatore: «Stampata impesaro ad instantia de Hippolito Ferrarese». È certo che l’anno successivo Ippolito abbia fatto tappa a Venezia e abbia colà commissionato a Guglielmo da Fontaneto un anonimo poemetto cavalleresco dall’allettante titolo Opera nova del superbo Rodamonte dietro il quale si cela un episodio della Marfisa di Pietro Aretino, e a un altro ignoto tipografo un lunario tascabile impresso alla buona senza troppe indulgenze iconografiche noto tramite l’unicum della British Library appartenuto all’erudito bolognese Ulisse Aldrovandi.
La ricostruzione dell’attività editoriale di Ippolito dà il polso delle letture effettivamente richieste dal pubblico che si affollava nelle piazze di Brescia, Parma, Bologna, Perugia, forse anche Firenze, per sentirlo recitare e alla fine della performance acquistare sapone e libri. Fu Ippolito nel 1537 a commissionare la prima edizione clandestina delle rime del concittadino Ariosto offerta con l’ampolloso titolo di «Forze d’amore opera nova nella quale si contiene sei capitoli di messer Lodouico Ariosto sopra diuersi sogetti non più venuti in luce». Nello stesso anno sempre a Venezia l’officina Bindoni-Pasini ristampò per il cantastorie girovago una seconda edizione dei Trionfi di lussuria (la prima evidentemente era andata a ruba) di cui sopravvive un unicum presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
L’osceno poemetto, che passa in rassegna le cortigiane romane in forma di parodia del poema petrarchesco, rimanda a quel sottobosco di letteratura erotica che aveva come tema le più celebri meretrici romano-veneziane assai in voga negli anni Trenta del Cinquecento (si pensi alla veneziana Tariffa delle Puttane). Seguendo l’esile filo delle edizioni sottoscritte, possiamo affermare che nel 1538 il cantimbanco si sia affacciato anche sulla piazza bresciana e qui abbia preso accordi con la locale officina dei Turlini per imprimere il poemetto di materia cavalleresca Del cavalier dal Leon d’oro e un testo di tutt’altro genere, un’opera in volgare di devozione popolare dal titolo Opera santissima e utile a qualunque fidel cristiano de trenta documenti con dedica esplicita alla marchesa Vittoria Colonna che suscita la nostra curiosità. In effetti già Salvatore Bongi, nel secolo scorso, in una serie di scarni appunti, cita, senza però rimandare ad alcun esemplare, una presunta edizione delle Rime della Colonna impressa a istanza di Ippolito Ferrarese. Dell’edizione non si è riusciti finora a rintracciare alcuna copia. Di certo però è l’unico labile indizio che renderebbe ragione di una dedica altrimenti sorprendente. Non può a questo punto non colpire la destrezza di questo cantimbanco che si fa editore di opere proprie e altrui e smercia senza troppe remore poemetti cavallereschi, poesie d’amore, trattatelli devozionali e persino opere oscene.