Sergio Rizzo, CorrierEconomia 19/11/2012, 19 novembre 2012
SICILCASSA, IL CONTO (SALATO) VA AI SOLITI NOTI - I
ladri non sono mai stati trovati. Durante un processo per mafia un pentito disse che quel furto non era l’opera di qualche banda del buco, bensì di Cosa nostra. I mafiosi avrebbero perfino utilizzato alcuni specialisti «romani». Fatto sta che quando la mattina del 12 maggio 1989 la polizia entrò nel caveau della Sicilcassa, erano spariti valori bollati per la bellezza di 32 miliardi 157 milioni 870 mila lire.
Un colpo tale da classificare i suoi autori fra i più grandi rapinatori del secolo, a nemmeno troppa distanza dal leggendario assalto al treno Glasgow-Londra del 1963. Con una non piccola differenza: che chi ha svaligiato la Sicilcassa non ha corso alcun rischio ed è ancora uccel di bosco, mentre i banditi che riuscirono a dirottare quel convoglio postale su un binario morto e portare via 2,6 milioni di sterline vennero tutti arrestati. Compreso il cervello della banda, Ronnie Biggs, che riuscì a evadere ma fu riacciuffato in Brasile dopo trentasei anni, nel 2001.
Però qui, senza che mai i colpevoli siano stati individuati, adesso abbiamo almeno una certezza: sappiamo chi pagherà. La Corte dei conti ha condannato la Sicilcassa in liquidazione, ovvero ciò che rimane della banca pubblica travolta a metà degli anni Novanta da un crac da tremila miliardi di vecchie lire (per il quale i vecchi amministratori rischiano ora un secolo e mezzo di carcere), a rimborsare la Regione Siciliana dei francobolli e delle carte da bollo svanite nel nulla quel 12 maggio 1989.
Tenetevi forte: 12 milioni 643.783 euro e 17 centesimi più gli interessi legali. Il che fa salire il totale a più di 27 milioni di euro. Non è uno scherzo. E poco importa che siano passati ventitré anni: mentre la Sicilcassa veniva svaligiata, a Pechino i giovani cinesi protestavano in piazza Tienanmen e a Berlino i Vopos di Erich Honecker sorvegliavano il Muro, ancora perfettamente intatto.
Che cosa c’entra la Regione Siciliana? C’entra perché i valori bollati scomparsi erano suoi. Nella banca si trovavano semplicemente in deposito, nell’attesa di essere distribuiti ai tabaccai. Quando il furto venne scoperto, ci andarono di mezzo il funzionario responsabile del caveau, la guardia giurata che era in servizio di vigilanza quella notte e un dipendente della banca.
Gli inquirenti avevano sospettato subito l’esistenza di un basista interno che aveva favorito il colpo. Per prima cosa non furono riscontrati segni di effrazione: segno che i rapinatori erano entrati con la chiave. La Corte dei conti riferisce che tutti gli accertamenti giudiziari effettuati «avrebbero chiaramente evidenziato le gravi carenze derivanti dalla scarsa funzionalità dei sistemi elettronici di sorveglianza, dalla mancanza di sistemi complementari o alternativi, dalle chiavi delle vie di accesso al magazzino lasciate alla portata di tutti e dalla mappa delle chiavi stesse, riproducibile facilmente da un artigiano di medie capacità, per di più non modificate da molto tempo quantunque nelle disponibilità di molte persone».
Non bastasse, ricordano ancora i giudici contabili, l’orologio digitale del sistema d’allarme era stato resettato, rendendo impossibile individuare l’ora in cui lo stesso allarme sarebbe scattato. Mentre la guardia incaricata della sorveglianza, appena avvertita che qualcuno aveva aperto il cancello del corridoio che portava alla camera blindata, avrebbe telefonato al 113, anziché recarsi immediatamente sul posto. Per tutti, il tribunale escluse la colpevolezza, assolvendoli per non aver commesso il fatto.
Il conto di quella rapina organizzata da Cosa nostra adesso finirà inevitabilmente sulle spalle dei creditori che dovrebbero incassare le somme recuperate dalla liquidazione della Sicilcassa. Cioè le banche. Vogliamo scommettere che alla fine pagheranno i correntisti?
Sergio Rizzo