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 2012  novembre 19 Lunedì calendario

IL RITO CONFORMISTA DELLE OCCUPAZIONI

Col cadere delle foglie torna, come (quasi) ogni anno il rito delle occupazioni delle scuole superiori e le cronache di molte città si riempiono dei riferimenti ai nomi — nella capitale il Socrate, l’Archimede, il Tasso, il Righi, il Newton e così via — che indicano gli istituti occupati. È appunto un rito, del quale nessuno si stupisce più. Si è osservato molte volte che l’occupazione della propria scuola rappresenterebbe quello che gli antropologi chiamano un rito di passaggio, la cerimonia che segna il trapasso da un’età della vita all’altra; qualcosa di simile insomma a ciò che sono stati per tanto tempo la cresima per i cattolici e il Bar Mitzvah per gli ebrei. In una società come la nostra, passata attraverso un processo di forte secolarizzazione, occupare la scuola sarebbe un sostituto di riti religiosi che hanno perso ormai d’importanza. Può darsi.
Ma se è così, è anche vero che si tratta di un rito che torna a riproporsi ogni anno in modo più stanco, con la diffusione di slogan e obiettivi che riprendono, appena aggiornati, quelli dell’anno precedente: no ai tagli, no ai privati nella scuola, difendiamo la scuola pubblica. Gli insegnanti non sempre aiutano i ragazzi ad andare oltre queste diagnosi un po’ (un po’ troppo) superficiali. Basta affacciarsi a un corteo o a un’assemblea di docenti per sentire riecheggiare i soliti, stereotipati attacchi contro i tagli alla scuola «per semplici motivi di cassa», come mi è capitato di udire con qualche stupore (come se non esistesse lo spread e prima ancora il debito pubblico giunto al 126 % del pil); o contro il pericolo di privatizzare il sistema di istruzione (come se il nostro Paese non soffrisse semmai del problema opposto, dell’assenza di privati disposti a investire davvero nella scuola e nell’università). Le occupazioni rischiano insomma di apparire — e forse, ormai, anche di essere — un grande rito conformista, dove oltretutto si mette in scena una pessima lezione di (anti)democrazia. Da sempre, nella quasi totalità dei casi, le occupazioni vengono infatti decise da una minoranza di studenti: questo però non sembra suscitare troppi problemi in un Paese che, evidentemente, pensa che sono le minoranze a fare la storia, dalle camicie rosse di Garibaldi alle camicie nere di Mussolini.
Ma l’aspetto forse più sconcertante, più vacuamente conformista, resta ancora da dire. A stare alle cronache che si son potute leggere, in qualche liceo romano una parte degli stessi genitori ha approvato che gli studenti occupassero la scuola. Come ha riportato venerdì scorso l’edizione romana del Corriere, in uno dei licei storici della capitale — il Tasso — è avvenuta la seguente scena: la preside ha avvertito d’urgenza i genitori perché cercassero di dissuadere i loro figli dall’occupare, ma molti hanno fatto esattamente il contrario. In fondo, che dei ragazzi e delle ragazze, fosse pure per provare il brivido della trasgressione, occupino la scuola, si può capire. Che i genitori approvino, che forse approvi anche qualche insegnante nella speranza che ciò possa fare da cassa di risonanza alle agitazioni sindacali di questi giorni, appare invece come un esempio di fuga dalle proprie — diverse ma egualmente importanti — responsabilità educative.
Qualche settimana fa l’ex deputato Fabio Mussi giustificò in un’intervista il proprio ritiro dalla politica (anche) in riferimento a ciò che definiva il complessivo fallimento della sua generazione. Ecco, nell’immagine di genitori che non si curano di spiegare ai figli che non si occupa una scuola solo perché lo fanno tutti, temo ci sia una conferma di quel fallimento di cui Mussi parlava.
Giovanni Belardelli