Antonio D’Orrico, Corriere della Sera 19/11/2012, 19 novembre 2012
PAROLE, NOTE, DOLORE: AUTOBIOGRAFIA MUSICALE DI GIORGIO FALETTI
Un giorno Giorgio Faletti facendo ordine nel suo studio, dove c’è un intero scaffale pieno di copie di Io uccido in tutte le lingue del mondo, trovò una scatola piena di vecchie foto. Ce ne era una che lo ritraeva su una spiaggia con un amico musicista. Questo nella parte sinistra dell’immagine. Nella parte destra, si intravedeva una bella ragazza in topless che prendeva il sole.
Quella foto era tutto quello che rimaneva di una grande storia d’amore. Con quella ragazza, incontrata in un villaggio in Sardegna, era stata passione al primo sguardo. «Lei aveva gli occhi verdi e i capelli neri e la pelle luminosa anche senza un filo di trucco e lui era sicuro che se l’avesse baciata non sarebbe mai stato più lo stesso uomo. Non aveva guardato le gambe, il seno, il sedere, le mani, i piedi. Il suo sguardo non era andato oltre gli occhi, verdi come il mare sotto la scogliera e nello stesso modo liquidi».
Lei sta con un altro ma riescono a vedersi qui e là per l’Italia. Poi lui le chiede di andare a vivere assieme a Milano. Lei dice che non se la sente, «senza mezzi», di fare quel passo. Questa conversazione si svolge nella camera di un motel a tarda notte. «Nell’aria c’era sospeso l’odore del sesso, che solo l’amore può trasformare in profumo. Altrimenti resta quello che è, sapore di ruggine e di desolazione».
La storia finisce così. Quelle due parole, «senza mezzi», colpiscono a morte l’orgoglio di Faletti che non era ancora lo scrittore di successo che è poi diventato (diciamo che i mezzi ora ce l’ha). «L’aveva lasciata nel letto e se n’era andato. Era tornato alla sua vita con una ferita che sapeva avrebbe impiegato parecchio tempo a rimarginarsi. E forse non lo sarebbe stata mai del tutto».
Quel pomeriggio di grandi pulizie nel suo studio, Faletti prende la foto e, senza più guardarla, «con mani ferme la strappa in due parti». Conserva quella di lui con l’amico musicista. L’altra parte, quella «dove la ragazza avrebbe dovuto abbronzarsi per sempre finisce in un posto dove non c’è mai estate: il cestino della carta straccia». Poi si avvicina al piano. Con un dito, quasi distrattamente, prova una nota. Alla fine scrive una canzone, Nudi, la storia di quell’amore senza mezzi.
Nudi è una delle dodici canzoni inedite scritte da Giorgio Faletti e ora incise in un cd. Poi c’è un altro cd dove lo scrittore-cantautore ha raccolto alcuni dei suoi vecchi pezzi da Signor Tenente (seconda a Sanremo nel 1994 e premio della critica) a Identikit (cantata da Gigliola Cinquetti), a The show must go on (portata sempre a Sanremo da Milva). Assieme ai due cd, c’è un libro in cui Faletti racconta una specie di autobiografia musicale, la sua grandissima passione per la musica, l’unica costante, forse, della sua mutevole esistenza. Ma è un’autobiografia in tutti i sensi della parola. Faletti non lo dice per pudore perché è molto timido. (Lo so, si stenta a crederlo ma è così anche se lui, come tutti i veri timidi, cerca di curarsi con dosi massicce di esibizionismo).
Il titolo del libro e dei cd è Da quando a ora, dal passato al presente (Einaudi Stile libero). Tutto comincia ad Asti nel 1950 in corso Torino che allora era una strada nemmeno asfaltata, quando Faletti nasce in una casa di ringhiera. Suo padre è un commerciante ambulante, la madre fa la sarta. La miseria si taglia a fette ma «c’era nell’aria una voglia di futuro che ora so riconoscere, proprio perché intorno a me ne trovo sempre di meno».
La musica è un vizio di famiglia. Il padre suonicchia una specie di cornetta in una banda. Il padre e la madre amano anche ballare. Ma a un certo punto il fascismo proibisce qualsiasi forma di intrattenimento danzante. Gli amanti del ballo non si arrendono. «In questa sorta di proibizionismo tersicoreo, venivano organizzati dei balli clandestini, una sorta di rave ante litteram». Ed è nel corso di una di queste adunate clandestine che i suoi vengono arrestati. È il 5 giugno del 1943. Il padre ha 19 anni, la mamma 17. Ora Faletti ha buon gioco a dire di essere figlio di due pregiudicati. E confessa di essersi commosso quando all’Archivio di Stato ha ritrovato il verbale di quella retata. I suoi di quell’avventura non gli avevano mai raccontato niente.
Intanto Giorgio cresce. È bravo a scuola. Alle medie i suoi temi vengono letti a voce alta in giro per le classi. Negli anni Settanta diventa un personaggio ad Asti. Porta i capelli lunghissimi. Ha la battuta sempre pronta (ma non con le ragazze che gli piacciono veramente). Sua nonna, vedendo una foto sul giornale, crede di riconoscerlo in uno dei componenti del complesso dei Pooh. Morirà con questa certezza che Giorgio, per non deluderla o impensierirla, alimenterà con mezze ammissioni: «Sai, nonna, domani non ci vediamo, sono in tournée».
Quel periodo Faletti lo racconta in una delle sue nuove (e belle, non l’avevo ancora detto) canzoni. Si intitola Gauloises. È ambientata nella Sala Biliardi Roma ad Asti. Faletti ha 18 anni, porta jeans Roy Rogers, camicia azzurra, Superga bianche. Intorno a lui c’è gente che si chiama il Minaccia, il Conte, Mastino, Zatopeck. C’è anche suo padre che gli ha insegnato a giocare a biliardo. Faletti è diventato anche abbastanza bravo ma suo padre non riuscirà mai a batterlo. «Come stanno i ragazzi / sono quelli di sempre / hanno birra e biliardo / tutti i martedì sera / hanno ancora negli occhi / quello sguardo indecente / verso la cameriera / per la sua scollatura / e fumano ancora Gauloises / adesso che quasi nessuno / fuma più». Dio, come era bella la provincia italiana.
Una vita è fatta di svolte. Nella vita di Faletti una svolta è quando nel 1993 scrive di getto nella macchina parcheggiata al sole Signor Tenente. È una canzone anticonformista, controcorrente, una canzone pasoliniana, nel senso che prende le difese dei poliziotti che venivano ammazzati nell’adempimento del loro dovere (per usare le formule di rito) nella quasi totale indifferenza degli italiani.
La canzone ottiene un grande successo. Faletti che è stanco di fare il comico tv pensa di poter intraprendere la carriera musicale. Ma non è così. Il successo se ne va di colpo come di colpo era venuto. Tanti progetti sfumano. Milva, ad esempio, che vuole incidere una sua nuova canzone gli dice: «Faremo il disco appena torno dalla tournée in Germania». Quella tournée durò quindici anni.
Di che stoffa è fatta una vita si vede nel momento del bisogno, come gli amici (o almeno si spera). Il momento del bisogno per Faletti è quando, alle spalle la tv e Sanremo, si ritrova a dubitare delle sue doti artistiche (è il periodo che poi racconterà nella canzone The show must go on, forse la sua più triste). Ed è proprio nel momento in cui pensa di mollare tutto e aprire un chiringuito su qualche spiaggia dei mari del Sud che succede tutto (ricordarsi sempre che la parola successo è il participio passato del verbo succedere, come diceva Flaiano). Succede Io uccido. Ma succede anche contemporaneamente un’altra cosa. «Poi, senza preavviso, il 4 novembre 2002, sono morto».
Qui finisce la prima parte del libro, scritta in prima persona e al passato, e comincia la seconda, scritta in terza persona e al presente. E così in terza persona Faletti racconta la sua morte, l’ictus che quasi lo stronca mentre le prime copie di Io uccido cominciano a circolare. Faletti è al telefono con una libraia di Torino «quando è arrivata la vertigine. Si è trovato imbambolato a guardare il cellulare, con una ruota panoramica che girava in testa, ad ascoltare la voce che usciva dal piccolo altoparlante come se fosse un richiamo del diavolo. Poi si è trovato a terra, con una metà del corpo paralizzata, a trascinarsi sul pavimento per arrivare alla camera da letto. Ricorda la sponda in alto sopra la sua testa, coperta di nubi minacciose, irraggiungibile come la vetta dell’Everest».
Di quell’episodio Faletti ha parlato sempre poco e controvoglia. E mai ne ha scritto. Si è deciso a farlo «perché consegnare a una pagina quelle confidenze significherà liberarsene una volta per tutte, sarà come appendere una carta moschicida che invece di imprigionare gli insetti blocca i brutti ricordi».
Ho saltato molte cose delle confessioni di Giorgio Faletti. Ma voglio almeno citare tre delle canzoni inedite. La prima è Angelina. «Che mal di denti stanotte Angelina che mal d’amore». Una canzone che nasce in una gelateria dove Faletti ascolta, di straforo, le confidenze di due ragazze. Una, Angelina, racconta all’amica la sua infelice storia d’amore e mentre lo fa le scappa anche qualche lacrima. Faletti, che si sente ormai vecchio per certe cose, ascolta con «quel pizzico di mestizia con cui le scimmie dello zoo guardano gli strani primati che circolano liberi dall’altra parte delle sbarre». Faletti è tornato più volte in quella gelateria, «in crisi d’astinenza da fiordilatte», ma Angelina non l’ha più ritrovata. «Ma gli piace pensare che è felice e che non le passerà mai il gusto per la vita e per il gelato. Che, in fondo, sono la stessa cosa».
La seconda canzone che voglio citare è Lettera a un figlio inventato («e adesso che cammini tranquillo al mio fianco / convinto di non starmi al passo / non vedi quanto sei più alto / non vedi quanto sono più basso»). Aggiungo soltanto che Faletti non ha figli.
La terza è la più scatenata. Si intitola La corriera stravagante e racconta di una band musicale formata da ragazzi del riformatorio che suonano nello stile dei Creedence Clearwater Revival. Ogni tanto i ragazzi vanno in corriera in città per suonare. È una storia vera. Nella canzone Faletti si mette nei panni di uno di loro che guarda fuori dal finestrino: «Bella ragazza bruna dagli occhi d’oro / mio padre non sa nemmeno che faccia ho / vorrei che ci fossi tu ad aspettarmi fuori / perché sei più bella tu della libertà».
L’autobiografia (non autorizzata?) di Faletti è una canzone d’amore alla vita, la sua e quella degli altri.
Antonio D’Orrico