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 2012  novembre 18 Domenica calendario

IL SOTTILE PIACERE DELLA SERIALITA’

Una sera qualsiasi, a casa. «Senti, perché non iniziamo a vedere Downton Abbey?», mi chiede a tradimento il mio compagno mentre ceniamo. Panico. Perché le prime due stagioni di Downton Abbey, insieme allo speciale di Natale, sono lì tra i dvd, sono state comprate mesi fa e ci stanno aspettando. Sono in tutto sedici episodi da sessanta minuti che non vedo l’ora di far partire. Dov’è il motivo del panico? Il fatto è che ho ancora del lavoro da fare, devo scrivere delle scene, leggere un progetto di un amico, terminare un articolo. Se mi intrappolo in quella serie — che sono sicuro mi scatenerà una forma di dipendenza — salta il lavoro e buona parte dei prossimi due giorni. Sorrido e facendo finta di niente, contropropongo la visione di Tiny Furniture, meno di cento minuti, primo film di Lena Dunham, grazie al quale questa bravissima autrice/scrittrice/regista ha poi avuto la possibilità di realizzare la serie televisiva Girls. Il depistaggio funziona, sono salvo e con me è salvo il mio lavoro dei prossimi giorni.
È vero, sono compulsivo e incline alla dipendenza, soprattutto quando si tratta di serie televisive. Non credo sia un problema solo mio. Da tempo ho un laboratorio di sceneggiatura al Dams di Roma e, mentre dieci anni fa i miei studenti volevano parlare quasi esclusivamente di sceneggiature cinematografiche, ora vogliono sapere come si scrive una serie televisiva, cos’è un concept, come si fa a inventare dei personaggi e una storia capaci di andare avanti per un numero di puntate potenzialmente illimitato. Cos’è cambiato in questi anni? In mezzo ci sono state per i miei studenti (e per me) notti insonni passate con Six feet under, I Soprano e 24, ci sono state le donne sorprendenti di Desperate Housewives e le audacie di Nip & Tuck, ci sono stati gli interrogativi filosofici di Lost e i continui colpi di scena di Homeland. Attori di fama, produttori e registi come Spielberg, Scorsese, Todd Haynes e Alexander Payne si sono dedicati alla televisione. Ci hanno fatto avvicinare al piacere, e alla piacevole condanna, della serialità. Il che ci ha permesso di conoscerci nelle nostre debolezze psicologiche. Io, personalmente, ho capito di non riuscire a guardare le puntate a scadenza settimanale senza innervosirmi; ho bisogno di avere tutti gli episodi a disposizione, possibilmente in dvd, in modo da poterli guardare in fila senza sofferenza, se resto (e ci resto matematicamente) intrappolato nella macchina dei cliffhanger, quei micidiali finali di puntata che ti impongono di vedere subito come diavolo va avanti la storia.
Certo, siamo tornati al romanzo di appendice. Ma è un romanzo di appendice sofisticato, moderno, spesso libero, che si impone con la forza del racconto visivo, e che è sufficientemente elaborato da risultare spesso imprevedibile. Già all’inizio degli anni 90, a Roma, il cinema Nuovo Sacher decise di dare in sala Heimat II di Edgar Reitz. Un filmone da 13 serate, inizialmente concepito per la televisione, che, in regime di totale dipendenza, noi spettatori andammo a vedere al ritmo di un film a settimana. Il giorno della nuova uscita era il giovedì. E il giovedì appunto ci presentavamo al primo spettacolo alla cassa del cinema di Nanni Moretti per sapere cosa sarebbe successo ai giovani protagonisti della storia, se era proprio vero come faceva sospettare il titolo del quinto episodio (Ansgar ist tot) che per uno dei protagonisti che amavamo sarebbe stata la fine. Ci mettevamo seduti lì in poltrona con l’idea di ritrovare persone che credevamo di conoscere.
Da spettatore ho un’attrazione irresistibile per il racconto seriale, specialmente da quando, e questa è una novità degli ultimi anni, il racconto televisivo si è molto più dedicato allo sviluppo della trama relativa ai personaggi e alle loro vicende personali, la cosiddetta «linea orizzontale». Anni fa, le serie più viste avevano quella che in gergo si chiama una «struttura verticale»: un caso, un problema, un dramma, da sviluppare obbligatoriamente (e quindi obbligatoriamente risolvere) nello spazio di cinquanta minuti, con una meccanicità e una prevedibilità imposta dalla costruzione e francamente irreale (nelle nostre vite, i problemi ci mettono sempre un bel po’ più di un’ora a risolversi, se pure si risolvono). Da un po’ di tempo a questa parte, invece, le serie privilegiano il racconto «orizzontale», ossia quello che si occupa dello sviluppo dei personaggi, delle loro storie e delle loro vite, lungo tutto l’arco della serie, senza arrivare a una definizione nella singola puntata. Il motivo è ovvio: una serata, un caso legale, un’emergenza medica, possono essere più o meno buoni, ma ciò che tiene avvinto lo spettatore è sapere cosa succederà sul lungo termine a quel personaggio, a quel mondo, a quella storia.

Quindi: sono molto più importanti i personaggi di quanto lo siano le vicende e le svolte narrative. Il dottor House è più interessante di tutti i suoi pazienti messi insieme. Friends ha conosciuto un successo veramente globale quando ha spostato il suo punto di interesse narrativo dalle battute da sit-com ai destini dei personaggi (Rachel e Ross si metteranno insieme prima o poi, nonostante cambino fidanzati a ritmo forsennato e lui si sia già plurisposato?), Julianna Margulies in The good Wife ci appassiona non perché risolverà il legal drama della puntata, ma perché vogliamo sapere da un episodio all’altro se la sua famiglia ce la farà, e se lei troverà un modo per ricominciare a vivere nonostante quel bastardo, infame e traditore del marito.
Giocare con questo modello di narrazione è il sogno di qualsiasi scrittore. Creare dei personaggi e un mondo che tengano incatenati lo spettatore ora dopo ora, anno dopo anno. Concedersi libertà, variazioni, esplorazioni impossibili se non si avesse un tempo narrativo così lungo. Si scrive per raccontare storie a qualcuno (o almeno io scrivo per questo). E creare una lunga serie televisiva significa fare entrare lo spettatore in un mondo di cui vuole conoscere le sorti progressive, che siano magnifiche o meno. Significa creare un universo che ha precise e originali caratteristiche: Tutti pazzi per amore, una commedia sentimentale in cui ci sono immaginazioni di vario tipo, si canta, si balla, e c’è spazio anche per un commento metatestuale a quello che succede; Una grande famiglia, un dramma familiare borghese in cui un elemento thriller vagamente soprannaturale fa da sfondo a una serie di rivelazioni, tradimenti, amori e rinascite, il tutto nell’Italia della crisi. Ma soprattutto scrivere una serie significa lavorare su personaggi ai quali hai voglia di offrire una vita potenzialmente interminabile, un numero di ore che permettano loro di raccontarsi per quello che sono o credono di essere, ma anche di smentirsi, sorprendersi via via, rivelarsi in aspetti nuovi, svelare anse sconosciute del loro passato. Personaggi che rimangono in qualche modo fedeli a loro stessi anche quando cambiano e cambiano e cambiano ancora, come il Don Draper di Mad men.
È il tempo, lo spazio, la dilatazione a costituire oggi il vero specifico del racconto televisivo. Superati finalmente i tempi in cui a un racconto televisivo si chiedeva soprattutto linearità e semplicità, nell’assurda convinzione che il pubblico della tv fosse più distratto di quello cinematografico (serie come Lost o Damages, che richiedono un livello di attenzione più alto di una narrazione cinematografica media, hanno spazzato via questa presunzione), adesso la caratteristica del racconto televisivo è la possibilità di concedere un legame lungo e duraturo con i personaggi (io di recente ho trascorso molto più tempo con i protagonisti di Smash che con alcuni miei parenti di primo grado). Il racconto televisivo non è né migliore né peggiore di un racconto cinematografico, che è usualmente costretto in un tempo più breve. È solo totalmente e profondamente diverso.
Il racconto serializzato, grazie alla sua diffusione, ti permette anche di toccare argomenti sulla carta difficili per un pubblico ampio (la nuova famiglia di The new normal) o di fare entrare nel racconto libertà stilistiche che puntata dopo puntata diventano la regola (i protagonisti di Modern Family che parlano allo spettatore guardando in macchina). Ma è un racconto che sa essere esigente e autoritario: ti chiede fedeltà e passione, ti chiede di stare lì non solo per i minuti dell’episodio, ma ben oltre. È la versione moderna dell’antichissimo gioco di raccontare storie, storie di cui aspetti il finale, e che nello stesso tempo desideri non finiscano mai.
Quando è andata in onda l’ultima puntata di Una grande famiglia, che terminava con un rilancio (il ritorno a casa nell’ultimo minuto di racconto di Edoardo Rengoni, il figlio creduto morto) e quindi per dirla con altre parole non terminava, sono stato investito da un sentimento generale di disappunto partecipato, da telefonate di zie lontane che mi chiedevano spiegazioni, e perfino dallo sconcerto del mio edicolante che mi ha intimato: «Non ci potete lasciare così». E infatti, gli ho risposto, non vi lasciamo. La serie continua, il racconto va avanti proprio perché non è finito. In questa linea emotiva, forse inconsapevolmente, si è inserita anche la denuncia del Codacons, l’associazione per la difesa dei diritti dei consumatori, che ha accusato gli autori (e cioè io, Stefano Bises e Monica Rametta) di avere condotto il gioco del racconto «non in buona fede». Si legge nel loro comunicato che il non avere dato spiegazioni nel finale «obbligherà i telespettatori di Una grande famiglia a seguire la seconda serie della fiction nella speranza di comprendere i misteri della prima».
Questa accusa, confesso, mi ha fatto molto piacere, perché dà conto del nostro lavoro. Mi sembra infatti che il nostro intento debba essere proprio questo: fare in modo che gli spettatori si affezionino alla storia e ai personaggi in modo da volere andare avanti, da volere continuare a stare con loro. Sarà che penso così per traumi pregressi. Quando una ventina di anni fa ho scoperto, dopo mille depistaggi e falsi indizi, che a fare fuori Laura Palmer era stato il padre, io mi sono sentito abbandonato e sono andato via da Twin Peaks un po’ deluso.
In tutt’altro senso, sebbene non avesse una struttura mistery, ma anzi fosse una commedia il cui interesse seriale stava tutto nei destini sentimentali dei personaggi (si metteranno insieme? supereranno il tradimento? avranno un figlio? continueranno a cantare e ballare?) anche Tutti pazzi per amore, con le sue tre serie ha suscitato negli spettatori sentimenti di affezione e dipendenza. Adesso, a un anno dall’ultima messa in onda e grazie alle continue repliche sui canali satellitari, noi autori (ma anche gli attori) veniamo interrogati da spettatori che ci chiedono non solo se ci sarà una nuova serie, ma anche cosa succederà ai personaggi, se Laura e Paolo staranno ancora insieme, se Cristina sarà una brava madre, se Monica Liverani, campionessa delle sfighe sentimentali, ha davvero trovato il suo uomo. Ecco, questo è veramente il punto. Si raccontano storie non perché le storie sono belle da raccontare al vuoto in una stanza chiusa, ma perché è magico il modo in cui incontrano il loro pubblico, il modo in cui i personaggi chiedono di essere trattati come fossero persone vere, con vite che apparentemente continuano oltre la messa in onda. È un rapporto di scambio fra chi racconta e chi riceve il racconto, dove chi riceve il racconto è più forte perché lo fa suo, lo rende emotivamente, se non oggettivamente, vero.
La serialità ci avvince perché ci fa compagnia, perché non ci lascia per poche ore in balia delle gesta di uno o più eroi straordinari, ma ci fa vivere per lungo tempo insieme a persone che ci assomigliano, che nella lunga durata, a ben conoscerle, si smentiscono, si sorprendono, mettono in discussione le loro idee sul mondo e su se stesse.
E insomma in una parola vivono quasi come noi.
Ivan Cotroneo