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 2012  novembre 18 Domenica calendario

COSI’ LE NUOVE SERIE ONLINE (ISPIRATE DAL MARKETING) IMMAGINANO IL DISASTRO HI-TECH

Immaginate un futuro, non molto lontano, in cui Internet sarà nel nostro cervello. Grazie alle nanotecnologie basterà innestare nella nuca un impianto, detto H+, per collegare mente e web. E se il sistema andasse in blackout, per una fatalità o forse per un attacco terroristico, causando la morte di migliaia di persone e costringendo i sopravvissuti alla ricostruzione? È l’ipotesi fantascientifica di H+, la serie online su YouTube prodotta da Bryan Singer (I soliti sospetti, XMen), e creata da John Cabrera e Cosimo De Tommaso, il cui slogan recita: «Humanity goes offline. Survival goes on». I diritti del prodotto non sono ancora disponibili in Italia, e questo vale anche per la web series Cybergeddon di Anthony E. Zuiker, il creatore di Csi, che ha debuttato su yahoo.com il 25 settembre. Il titolo dice tutto: Cybergeddon è la terrorizzante apocalisse digitale. Anche qui il pericolo viene dalla Rete, ma la minaccia — più concreta — è ambientata nel nostro presente: l’agente speciale dell’Fbi Chloe Jocelyn tenta di sventare un attacco di cyberterrorismo globale prima che sia troppo tardi. «There is no Esc», ammonisce lo slogan della serie, con un gioco di parole sul tasto del pc che serve a uscire dalle applicazioni.
È un’evoluzione del classico poliziesco: non si indaga più sui serial killer, ma su virus informatici, altrettanto letali. Le web series sfruttano temi noti ai propri spettatori, utenti esperti di tecnologia, aggiornando paure ancestrali all’epoca del 2.0. Così l’apocalisse non è più solo disastro naturale, guerra totale, virus letale. È collasso tecnologico, meno tangibile eppure altrettanto devastante. Talvolta non è la Rete intesa come web a crollare. Talvolta la distruzione c’è già stata, ed è un’altra rete, quella elettrica, a determinare la forma repressiva della società post-apocalittica. Chi controlla l’elettricità controlla la vita di una città e dei suoi abitanti, e — soprattutto — l’informazione. È il futuro distopico immaginato per il web da Tom Hanks nella serie animata Electric City (visibile in Italia su it.cinema.yahoo.com/electric-city).
L’apocalisse da blackout elettrico, con conseguente ritorno a una civiltà preindustriale dominata dal più forte, è anche il centro del telefilm Revolution, in onda negli Stati Uniti dal 17 settembre sulla Nbc, prodotto da J.J. Abrams (Lost) e creato da Eric Kripke (Supernatural). «Questi show sono come un sogno collettivo», spiega il sociologo esperto di media Derrick De Kerckhove. «Stiamo assistendo a un’accelerazione del potere dell’elettricità sulla nostra vita. Il virtuale e il digitale sono sempre più presenti e invasivi. All’inizio c’è la gioia dell’adozione, ma quando diventa troppo forte l’impatto sulla nostra sensibilità e sul nostro modo di vivere, ecco emergere l’ansia». Sempre connessi alle reti, iniziamo a diffidare di questa dipendenza, e forse desideriamo tornare a un passato più semplice. Allo stesso tempo, temiamo di ritrovarci di nuovo isolati, snodi senza reticolo. «Ogni volta che vado in Puglia sperimento il ritorno a una realtà meno connessa, quella della mia adolescenza», spiega Cosimo De Tommaso, il co-creatore di H+, emigrato da Oria, esordiente di lusso in America. «La serie parte da un’ipotesi narrativa più che da una critica alla tecnologia. Al di là della catastrofe, ci interessava mettere alla prova i nostri personaggi, e capire se fosse possibile tornare a essere solo umani». Riuscire a non perdersi nella Rete è al centro di una nota web series tutta italiana, Lost in Google, creata da Francesco Capaldo, Simone Russo, Alfredo Felaco (conosciuti come The Jackal). Cosa succede se si cerca Google su Google? Si viene risucchiati dalla Rete, come scopre il protagonista. Il web non è una creazione dell’uomo, bensì un mondo altro, precedente e parallelo al nostro. Quando gli amici di Simone, nel tentativo di salvarlo, aprono il portale fra i due mondi, gli abitanti del web (i meme) invadono la nostra realtà con effetti catastrofici. È come se il mondo di Alice passasse attraverso lo specchio: un’apocalisse dell’immaginario. «Sta già accadendo», spiega l’autore e regista Francesco Capaldo. «Ormai ci sono perfino le magliette con i personaggi del web. Nei nostri show non critichiamo Internet, ma le ossessioni: bisogna separare reale e virtuale, distaccarsi, non perdersi».
Per il teorico di media e science fiction Alan N. Shapiro, «le attuali narrazioni apocalittiche sono spesso poco interessanti, perché troppo vicine al modo in cui funziona l’ideologia della società politica dominante. Siamo in uno stato di emergenza permanente che non permette una discussione utopistica su come migliorare la nostra qualità di vita. Siamo sempre spaventati, complici i politici e Hollywood». Una paura magari utile a far vendere più antivirus: il logo che appare prima di ogni episodio di Cybergeddon è quello di Norton Symatec, celebre prodotto della multinazionale di security software, consulente per lo show e più volte citata al suo interno. Una sinergia tra contenuto e sponsor mai vista prima — con l’antivirus «salvatore», protagonista insieme agli altri personaggi — che apre una nuova frontiera per il marketing: il prodotto non si limita a comparire nella serie, ma la ispira.
E se certe narrazioni apocalittiche fossero solo una fase di passaggio? «Vi sono ansie latenti e inconsce nei confronti della tecnologia, che un bravo sceneggiatore recepisce. C’è così un movimento di interazione tra pubblico e prodotto, che crea l’emozione», continua De Kerckhove. «L’ansia è la parte negativa del nostro rapporto con la tecnologia, ma è essenziale porsi domande. Queste serie sono importanti proprio perché permettono l’espressione di tali sentimenti». Un segno dei tempi, dunque. Aggiunge De Tommaso: «I giapponesi mettevano in scena negli anni 70 e 80 possibili scenari postbomba atomica. Noi, figli della nuove tecnologie, della crisi economica, del cyberterrorismo, mettiamo in scena le nostre paure».
Stefania Carini