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 2012  novembre 18 Domenica calendario

L’APOCALISSE? C’E’ GIA’ STATA

«Il terzo angelo suonò la tromba, e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. Il suo nome era Assenzio». Così l’Apocalisse di Giovanni. Ed ecco quella maya (nella reinterpretazione di Tullio Bologna in uno dei ventiquattro racconti di Apocalissi 2012, curato da Gianfranco de Turris per Bietti, pp. 440, 21): «Una mano enorme e dalle dita affusolate s’era all’improvviso materializzata in cielo e, afferrato il Sole tra il pollice e l’indice, l’aveva spento come la fiammella d’una candela, portando l’oscurità ovunque».
Che cosa accomuna queste Storie della Fine? Paradossalmente, che il mondo non finisce: per l’apostolo cristiano (o chi per lui) a un’umanità rigenerata si dispiegano «un nuovo cielo e una nuova terra»; quanto ai Maya, tormentati da «un ambiente reso ostile dal clima e dalla scarsità di risorse, il Tempo era un Dio e si ripeteva ciclicamente per l’eternità». Lo scrive Mario Tozzi (Pianeta Terra ultimo atto, Rizzoli), il quale aggiunge che l’ultimo ciclo, relativizzato al nostro calendario, «era iniziato l’11 dicembre del 3114 a.C. e sarebbe terminato il 21 dicembre del 2012, dopo 5125 e passa anni astronomici».
I Maya si limitavano ad applicare un modello numerico, immaginando che in passato gli altri cicli fossero tutti terminati in modo catastrofico. A rigore «non esistono profezie maya: le congetture le abbiamo fatte noi».
Anche la nostra civiltà potrebbe, se non finire, essere drasticamente sconvolta da qualche enorme disastro, dovuto magari agli effetti perversi dello stesso successo tecnologico e amplificato dalle caratteristiche fisiche del nostro globo. Come ha scritto il vulcanologo Bill McGuire (Guida alla fine del mondo, Raffaello Cortina, pp. 168, 17,50), noi che viviamo «su uno dei più attivi corpi del sistema solare, dobbiamo sempre ricordare che esistiamo e prosperiamo solo per un fortuito caso geologico. Studi recenti sul Dna umano hanno rivelato che la nostra specie è arrivata a un pelo dell’estinzione a causa dell’ultima supereruzione 73.500 anni fa, e se fossimo stati in circolazione già 65 milioni di anni fa, quando un asteroide di 10 chilometri di diametro colpì la Terra, saremmo scomparsi insieme con i dinosauri».
Tozzi, da buon geologo, sottolinea che il destino dei dinosauri potrebbe toccare proprio a noi e in tempi più brevi di quanto usualmente non ci si aspetti. In questo suo nuovo libro immagina che l’ultimo uomo, rintanatosi in un rifugio sotterraneo, descriva le fasi che hanno fatto sì che la radioattività — poco importa se dovuta a un conflitto nucleare o a semplici incidenti nelle centrali — abbia reso invivibile il pianeta. Il mito della caduta dei cieli copre semplicemente la superbia dell’uomo che crede di incarnare il senso ultimo dell’Universo. Un orgoglio patetico: «Conosciamo le conseguenze del nostro assurdo stile di vita, ma perseveriamo ottusamente a replicarlo. Nel frattempo, continuiamo a lasciarci suggestionare da scenari di rovina roboanti e poco probabili». Dopo l’apologo Tozzi elenca varie di queste «bufale», di cui la pretesa profezia maya è solo l’ultimo esempio: ci lasciamo abbindolare da tutto nell’età dell’informazione e del Terzo Millennio, non molto diversamente da come capitava nell’«oscuro Medioevo dell’anno Mille», all’epoca di Brancaleone di Norcia e della sua armata. Ma allora ci si aspettava il segno dello «scatenarsi di Satana» con qualche scusante, mentre gli attuali fanatici dell’Apocalisse approfittano delle reti editoriali e telematiche per sostituire la credulità alla fede.
Chissà se finiremo all’inferno, si chiede a sua volta Telmo Pievani, storico e filosofo delle scienze della vita, e lo troveremo popolato dei tanti profeti di sventura a buon mercato. Sorte terribile, perché costoro, in fondo, non sono che tipi «incredibilmente noiosi», nel riproporre invariabilmente i soliti raggiri senza alcuna possibilità di controllo scientifico: «Esiti imprevisti di esperimenti alle alte energie; presunti effetti moltiplicativi improvvisi nella biosfera intesa come "sistema complesso"; virus informatici; nanomacchine che si autoriproducono; bolle di universi paralleli in espansione; annichilazione da parte di extraterrestri; e persino l’eccesso di relativismo etico».
Da buon lettore di Darwin, Pievani ricorda l’insegnamento del grande naturalista per cui «l’estinzione di una specie non deve sorprenderci più di quella del singolo», anche se si tratta di un lentissimo processo di degenerazione graduale nel tempo geologico. Da ammiratore e collaboratore di darwiniani eterodossi come Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, Pievani mette però l’enfasi soprattutto sulle estinzioni di massa, magari innescate da bruschi cambiamenti ambientali, come sarebbe stato appunto per i dinosauri, vittime di una violenta modificazione del clima, dovuta all’impatto di un asteroide caduto nella penisola messicana dello Yucatán (guarda caso «la terra dei Maya!»), almeno se hanno ragione Luis e Walter Alvarez.
Se queste sono davvero «Apocalissi», la ragione è che la fine di tante specie indica un nuovo inizio per altre forme di vita. Ma prima che gridi facilmente vittoria il mammifero «più prepotente di tutti», come lo chiama Luigi Luca Cavalli-Sforza, cioè l’uomo, non bisogna dimenticare che oggi è proprio la presenza dell’Homo sapiens a minacciare una nuova, vastissima estinzione di massa, e che forse gli esseri umani stanno segando un ramo dell’albero dell’evoluzione su cui sono metaforicamente seduti. Qui il filosofo Pievani e il geologo Tozzi concordano.
E poi siamo proprio sicuri che questa o quella Apocalisse riguardi il futuro? «La fine del mondo c’è già stata, e molte volte», scrive ancora Pievani. E conclude, da buon illuminista, che è «grazie a queste deviazioni della storia che noi siamo qui, ora, a scriverne». Le grandi catastrofi che marcano le ere geologiche «sono state come incendi nella foresta che spazzano via il sottobosco vecchio, e liberano spazio per future diversificazioni». E se l’intero genere umano finisce «bruciato» per colpa di qualche asteroide o si scoprirà addirittura — come Tozzi teme — che il vero «asteroide killer» siamo noi stessi, non ci sarà probabilmente nessun rifugio da cui contemplare la vita nuova che sgorgherà dal disastro.
Come diceva un vecchio filosofo, tutto quel che esiste è degno, prima o poi, di perire. E se anche l’umanità scampasse alle trappole che essa stessa si fabbrica violentando l’ambiente in cui prospera, facendo invece un uso accorto delle grandi risorse messe a disposizione dall’impresa tecnico-scientifica, sappiamo comunque dall’astrofisica che il nostro sistema solare collasserà più o meno tra cinque miliardi di anni, e forse resterà in questa «piccola» porzione di Universo nient’altro che quella «profondissima quiete» di cui trattava il più disincantato dei poeti, Giacomo Leopardi.
Giulio Giorello