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 2012  novembre 18 Domenica calendario

INFERMIERA SI’. PERCHE’ MINISTRA NO?

Può apparire fin troppo banale ricordare che la lingua italiana, a differenza di altre lingue, possiede due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Non è però inutile, se si pensa che questa possibilità di distinguere tra i sessi non viene sfruttata come potrebbe (e dovrebbe). Ci sono eccezioni che però, come scrive Cecilia Robustelli, una linguista che studia la discriminazione linguistica di genere, rimangono «del tutto ininfluenti sul piano del sistema»: per esempio, la parola guardia che pur essendo femminile si riferisce per lo più a persone di sesso maschile. Un gruppo compatto di altre eccezioni riguarda i termini che definiscono professioni o ruoli istituzionali di prestigio declinati al maschile anche quando hanno un referente femminile. I casi sono innumerevoli, ma basti cominciare a segnalare esempi come «l’architetto Gae Aulenti», «il ministro Elsa Fornero» o «il segretario generale della Cgil Susanna Camusso».
Per quali ragioni viene infranta la regola grammaticale che imporrebbe le forme femminili architetta, ministra, segretaria, perfettamente compatibili con i meccanismi morfologici di formazione delle parole? Evidentemente la risposta non rientra più nella sfera grammaticale, ma in quella socioculturale. Fatichiamo, sul piano linguistico, ad attribuire funzioni importanti alle donne, visto che siamo abituati per tradizione a collocarle su piani inferiori rispetto ai maschi: tant’è vero che, mentre evitiamo di dire ingegnera, non abbiamo nessuna difficoltà a parlare di ragioniera, lavandaia, portiera, sarta o infermiera. Eppure l’italiano è cambiato moltissimo e continua a cambiare rapidamente sotto gli influssi dei mutamenti sociali: basti pensare alla straordinaria permeabilità della nostra lingua rispetto al lessico tecnologico inglese o ai gerghi televisivi. Capita poi che la resistenza conservativa metta a dura prova la coerenza grammaticale di certe frasi, quando per esempio si tratti di scegliere la concordanza di articoli, aggettivi, pronomi e participi. Non di rado, infatti, nel linguaggio giornalistico, ci troviamo di fronte a costruzioni contraddittorie del tipo: «la ministro Carfagna...», «il presidente Marcegaglia è stato accolto...», o «l’architetto Aulenti è morta».
«Sembra che l’italiano — scrive Cecilia Robustelli in un saggio su L’uso del genere femminile nell’italiano contemporaneo — mostri ancora esitazioni a riflettere nel suo lessico il percorso di emancipazione femminile che si è snodato in tutta Europa a partire dalla fine dell’Ottocento per quanto riguarda la conquista di nuovi ruoli e professioni da parte delle donne». E ciò avviene nonostante il linguaggio si configuri ormai come uno strumento essenziale nella costruzione della parità tra uomo e donna. La questione della rappresentazione della donna attraverso il linguaggio, specialmente nelle sue conseguenze in ambito amministrativo, non è nuova. Già nel 1987, quando il dibattito sulla parità era alla ribalta politica, l’anglista Alma Sabatini produsse un lavoro fondamentale, intitolato Il sessismo nella lingua italiana, che denunciava il «principio androcentrico» della lingua italiana, secondo cui «l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico». E proponeva una serie di «raccomandazioni» per ovviare alle dissimmetrie grammaticali e semantiche che, nella generale inconsapevolezza del parlante, finiscono per rendere il linguaggio, appunto, «sessista». È passato, da allora, un quarto di secolo e quasi nulla è stato recepito sul piano istituzionale, per non dire dell’uso comune. È pur vero che una legge del 1977 sulla parità tra uomini e donne in materia di lavoro recitava testualmente: «È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività a tutti i livelli della gerarchia professionale anche (...) in modo indiretto (...) a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso». Ma il risultato fu la coniazione di un’improbabile etichetta come quella del cosiddetto «maschile neutro» (il neutro è inesistente nella nostra grammatica) usato indifferentemente per uomo e donna.
Va detto, a questo proposito, che fino ai primi anni Novanta l’idea di parità, anche negli ambienti del femminismo ortodosso, sembrava orientata verso un’omologazione della donna al modello maschile, al punto che essere chiamate chirurgo, consigliere, direttore, architetto era per le donne il segno di una equità finalmente raggiunta. Gae Aulenti, cresciuta in un contesto professionale particolarmente maschilista, ha sempre bandito il femminile «architetta» e molte «avvocate», maturate politicamente nel clima del ’68, ci tengono tuttora a rimanere «avvocati». La prova della sospirata parità era (e rimane per molte) l’assimilazione al mondo maschile. Dunque: chirurgo e mai chirurga, consigliere e mai consigliera, direttore di un giornale e non direttrice. In realtà, la sociolinguistica tende oggi a sottolineare come queste forme finiscano per rafforzare la tradizione «androcentrica». Ma non si può negare che forme come ingegnera, sindaca, prefetta, chirurga, pur essendo ineccepibili sul piano morfologico, rimangono ancora rarissime. È recente il caso di don Maurizio Patriciello, il prete di Caivano pesantemente redarguito dal prefetto di Napoli per essersi rivolto alla sua collega di Caserta con un semplice «signora», forse per evitare l’inusuale «prefetta». Non era, per la verità, il segno di un maschilismo consapevole, ma un uso conservativo e molto usuale della lingua, di fronte alla quale il prefetto ha reagito con arroganza (di casta) degna di miglior causa.
Dagli anni Ottanta, l’importazione in Italia del concetto americano di gender, come insieme delle caratteristiche socioculturali che si accompagnano alla appartenenza all’uno o all’altro sesso, ha cambiato la prospettiva: si tratta ora di riconoscere le differenze di genere per far valere la propria identità. Riequilibrare un lunghissimo periodo di discriminazione significa dunque, anche sul piano linguistico, rendere «visibili» le donne. Alcune amministrazioni locali (Firenze) o regionali (il Veneto) paiono più sensibili di altre a questa esigenza di pari opportunità. Pazienza se rimane inevitabile il maschile cosiddetto «inclusivo» nei participi plurali («Marco e Paola sono andati), ma pure nell’uso quotidiano, se volete essere corretti (non solo politicamente, ma anche grammaticalmente), dovreste usare: sindaca, architetta, avvocata, chirurga, commissaria, deputata, impiegata, ministra, prefetta, notaia, primaria, segretaria (generale); e nulla impedisce consigliera, sul modello di infermiera, oppure assessora, revisora, ambasciatrice, amministratrice, ispettrice, senatrice. Per non cadere nell’eccesso opposto e quindi nel ridicolo, sarebbe bene continuare a usare professoressa, dottoressa e direttrice, ampiamente consolidate dall’uso, piuttosto che le irragionevoli dottora, professora, direttora. Tra le strategie di «visibilità» non peserebbe troppo contemplare la formula doppia almeno nei contesti istituzionali: «tutti i consiglieri e tutte le consigliere prendano posto nell’aula». Infine, «lavoratori e lavoratrici» dovrebbe entrare nell’uso, anche quando non venga detto da politici e politiche in cerca di voti.
Paolo Di Stefano