Federico Fubini, la Lettura (Corriere della Sera) 18/11/2012, 18 novembre 2012
LA RECESSIONE AIUTA I RICCHI
Di recente una lettrice ha mandato alla redazione un rapido quadro della sua contabilità domestica. «Cerco di spendere una media di 75 euro alla settimana e, per stare in questa cifra, rinuncio alla carne. Come proteine vivo con le uova delle mie galline e acquisto una confezione di pesce alla settimana. Non compro verdure, se non il minimo necessario». Racconti non molto diversi arrivano da varie parti d’Italia. In provincia di Frosinone, aumenta il ricorso all’assistenza comunale con lo scadere degli assegni di mobilità degli ex addetti del distretto della chimica. E nell’ultimo anno, in vari capoluoghi del Sud più di un abitante su cinque si è rivolto almeno una volta al sostegno del Banco alimentare.
Anche all’altra estremità della scala dei redditi certe volte sembra di vivere nel mondo del Grande Gatsby, un’età di diseguaglianze, non nel dominio del ceto medio in cui credevamo di essere nati. Improvvisamente per esempio dai porti turistici sono spariti gli yacht. I loro proprietari non li hanno venduti a causa dell’austerità, per lo più li hanno trasferiti a Capodistria, o ad Ajaccio, per pagare meno tasse. E quando si faranno i conti, è possibile che l’Italia di oggi non risulti molto diversa dall’America obamiana degli ultimi quattro anni: lì l’uno per cento più ricco della popolazione ha catturato il novanta per cento dell’aumento del reddito, qui il reddito è diminuito ma la sua distribuzione dev’essere piuttosto simile.
Diseguaglianze su questa scala sono (anche) il prodotto della peggiore recessione dagli anni Trenta e adesso rischiano di ossificarsi come una frattura non ricomposta. In questo l’Italia sta diventando davvero americana. Patrizio Piraino, dottorato a Siena e oggi cattedra di economia all’Università di Cape Town, mostra su dati Bankitalia che prima della crisi la mobilità sociale dell’Italia era già fra le più basse in Occidente, su livelli simili agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna: se un padre viaggia al doppio del reddito medio della sua generazione, il figlio italiano guadagnerà circa una volta e mezzo (in Danimarca o in Germania, la seconda generazione tende invece a riallinearsi al reddito medio). E quando l’offerta di lavoro si restringe, le aderenze e i rapporti di un padre semmai contano di più. Miles Corak dell’Università di Ottawa sostiene che un figlio di ricchi parte relativamente ancora più avvantaggiato quando c’è una recessione. Cinque anni di crisi possono lasciare dietro di sé decenni di opportunità diseguali.
Ma davvero è solo colpa di padri troppo premurosi? Forse perché negli Stati Uniti l’erosione del ceto medio è partita prima ed è a uno stadio più avanzato, gli studiosi iniziano a pensare che ci sia anche qualcosa di più complesso. Certi fenomeni affondano le radici nell’infanzia dei figli, non solo nell’agenda del telefono dei padri o nella loro capacità di pagare la retta di una di quelle università che i banchieri di Wall Street setacciano in cerca di «talenti».
James Heckman dell’Università di Chicago, premio Nobel dell’Economia nel 2000, ha condotto per due decenni un esperimento in cerca dei canali attraverso cui la ricchezza e la povertà si ereditano. Heckman è partito notando l’evidenza: più si studia, più si guadagna e questo effetto è sempre maggiore negli anni. Daniele Checchi della Statale di Milano nota che ciò è vero anche per l’Italia, dove ogni anno in più di studi conferisce in media tra il 4% e il 6% di reddito supplementare, dunque una laurea produce un 25% o 30% di guadagno in più all’anno rispetto a un diploma di maturità. Heckman osserva anche che meno anni si passano sui banchi di scuola, più diventa probabile finire poi in prigione, o diventare padri e (soprattutto) madri single, o avere problemi di salute, oppure non votare alle elezioni; anche in Italia le tendenze sono simili, su livelli molto meno acuti.
Quello che in Italia non è ancora stato rilevato, ma può fare un’enorme differenza, è il passaggio successivo. Heckman ha condotto test su un campione di bambini di tre anni, la prima età in cui si riescono a misurare la capacità di prestare attenzione, di esprimersi e capire, o di apprendere dall’esperienza. Il risultato è da Grande Gatsby dell’asilo d’infanzia: a tre anni i figli dei laureati hanno un punteggio pari a 100 sui test di Heckman, i figli di chi ha iniziato ma non finito l’università sono a 50, quelli di chi ha fatto solo le superiori sono a 30 e quelli di chi non ha finito o neanche iniziato le superiori sono tra dieci e venti. Il discendente di genitori che vivono di sussidi sociali ascolta poco più di seicento parole all’ora, quello di genitori professionisti oltre duemila; quando arriva all’età di 26 mesi, il primo bambino sa esprimersi con un vocabolario di meno di duecento parole mentre il secondo è già a ottocento. Heckman ha seguito gli stessi bambini fino alla maggiore età e si è accorto che le distanze già presenti a tre anni restano o, semmai, crescono. Nei giovani adulti quegli scarti produrranno diverse facoltà di concentrazione e di motivazione, scarti nelle capacità di interagire e convincere, più tenacia, più salute, più produttività. Alla lunga, più ricchezza.
È per questo che Heckman propone ai governi di investire il più possibile nella cura e istruzione dei bambini nei primissimi anni: il premio Nobel parla di «pre-distribuzione» delle risorse pubbliche, a suo avviso più efficace della «re-distribuzione» fatta quando le distanze si sono già allargate e rimediare diventa difficile e più costoso.
E l’Italia? Probabilmente l’infanzia a molte velocità diverse esiste anche qui. Daniele Checchi ed Elena Meschi, quest’ultima di Ca’ Foscari, mostrano un dato che lo fa pensare: nei test sulle competenze cognitive alla Heckman, i figli laureati di padri con la licenza media mostrano lo stesso punteggio dei figli con la licenza media di padri laureati. In altri termini, l’intero corso di studi serve a chi ha origini più umili solo per colmare il ritardo con cui sono usciti dall’infanzia.
Forse non è una ragione per ridurre il welfare a favore gli adulti. Certo lo è per rafforzarlo, e mirarlo meglio, a vantaggio dei bambini.
Federico Fubini