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 2012  novembre 18 Domenica calendario

UN MANIFESTO (FRAGILE) CONTRO LE FONDAZIONI

Un intervento a otto mani come quello pubblicato da Tito Boeri, Luigi Guiso, Roberto Perotti e Luigi Zingales sul Sole 24 Ore del 14 novembre non è un semplice articolo: esso si propone come un manifesto sulla vexata quaestio delle fondazioni bancarie. E come tale va discusso.
Per i quattro, le fondazioni dovrebbero vendere le azioni bancarie, pena la perdita dei relativi diritti di voto. Perché? Perché le fondazioni avrebbero fin qui danneggiato le «loro» banche e le partecipazioni bancarie avrebbero fatto altrettanto con le fondazioni, che hanno perso il 41% del valore patrimoniale negli ultimi 6 anni. Senza fondazioni verrebbe meno la stabilità degli assetti delle banche? Niente paura: i fondi comuni hanno sette volte i mezzi delle fondazioni. E poi: che senso ha difendere, con le fondazioni, l’italianità delle banche maggiori? Siamo in Europa.
Partiamo dalla coda. Parrà strano, ma i grandi Paesi europei non mollano sulle banche. Molte banche estere del gruppo Unicredit sono assai patrimonializzate e lasciano alla casa madre italiana tutti i costi di holding. Unicredit Spa ha dovuto fare pesanti aumenti di capitale anche perché ogni banca estera risponde alla propria banca centrale. Di più. Benché abbia trasferito in Germania il corporate e investment banking italiano, Unicredit non può usare la raccolta tedesca in Italia. Integrazione a metà. Viva l’Europa, ma senza calare le brache. Nel 2008, Unicredit rischiò di saltare a causa della Lehman, il cui fallimento venne considerato un successo del mercato. Furono le fondazioni e la Libia di Gheddafi a salvarlo. I fondi comuni? Non pervenuti. Nessuno li incolpa per essersela data a gambe. Essere azionisti stabili non è la loro missione. Le fondazioni, si dice, devono far fruttare il patrimonio per avere utili da distribuire nei territori. Ora molte boccheggiano. E tuttavia la Borsa italiana ha perso il 50% di più delle fondazioni. Se questa volta avessero scommesso sui Paesi emergenti, le fondazioni avrebbero guadagnato. Altre volte, invece, avrebbero perso. O ci siamo dimenticati l’Argentina? Ma non è questo il punto. Se tutti gli investitori istituzionali uscissero dalla Borsa italiana e dai titoli di Stato italiani, siamo sicuri che il Paese ne trarrebbe un beneficio? Avere investitori con filosofie diverse, dagli hedge fund alle fondazioni, e tutti regolati, è un vantaggio sul lungo periodo, non un limite. Certo, capita che una grande fondazione abbia fatto male. È il caso della Fondazione Mps. Allora, si provveda. Ma pare strumentale appellarsi a quest’unico caso per delegittimare un’intera categoria di investitori. Come mai non ci si scaglia con analoga veemenza contro le banche di Wall Street e le loro imitazioni europee?
Il leader delle fondazioni, Giuseppe Guzzetti, è vero, ha governato la Lombardia negli anni 80. E con ciò? Ha fatto meglio di Formigoni: vogliono riconoscerlo gli acerrimi critici della Prima Repubblica che nulla dicono della Seconda e della Terza che incombe? E vogliono spiegare in che cosa ha sbagliato in Intesa Sanpaolo in paragone, per dire, con la Royal Bank of Scotland? Poi, naturalmente, tutto è migliorabile. Pure le fondazioni.
Massimo Mucchetti