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 2012  novembre 18 Domenica calendario

IL VOTO A MARZO E L’INCARICO AL NUOVO GOVERNO. L’IPOTESI DI «COABITAZIONE» AL QUIRINALE

Da venerdì sera gli analisti di Montecitorio stanno con il calendario in mano per studiare il percorso verso le elezioni anticipate, incrociandolo con l’agenda dei lavori parlamentari e con la giurisprudenza costituzionale, e almanaccare sulle possibili scelte del presidente della Repubblica a ridosso del voto. Insomma, il comunicato diffuso dal Quirinale al termine dell’incontro fra Napolitano, Schifani, Fini e Monti non ha sgombrato — non del tutto — alcune incertezze destinate a condizionare le mosse dei partiti e ad avere un impatto forse decisivo su un’efficace sopravvivenza per il governo, in questa fine legislatura.
Alcuni interrogativi pesano. E rimbalzano da un palazzo all’altro, in quest’ordine: 1) perché non si può dire già adesso che le consultazioni politiche sono fissate per il 10 e 11 marzo, nello stesso election day in cui saranno accorpate le regionali di Lazio, Lombardia e Molise? 2) davvero il capo dello Stato ha pronto un messaggio alle Camere da usare come arma per vincolare i partiti a fare la riforma elettorale? 3) posto che si voti anche per le politiche a marzo, Napolitano si dimetterà prima della fine del suo mandato, che scade il 15 maggio? 4) vale ancora, e come è motivato, il suo impegno a lasciare al proprio successore la responsabilità di gestire la formazione del nuovo esecutivo?
Sul primo punto la risposta è semplice: il presidente non ha voluto compromettersi più di tanto, sul voto anticipato, perché — procedure a parte, che venerdì non erano quelle canoniche richieste dalla Carta — ciò avrebbe potuto essere inteso alla stregua di un «liberi tutti» al Parlamento. Parlamento che invece, ha ricordato quasi in una sorta di sfida, deve prima mettere in sicurezza i conti pubblici con la legge di Stabilità e nel contempo varare una riforma elettorale adeguata agli standard di costituzionalità che la Consulta nel 2008 ha segnalato come mancanti nell’attuale Porcellum (per inciso: un sistema simile oggi è in vigore solo in Grecia e dunque non sembra un modello appropriato se si mira alla stabilità). Ecco le «condizioni oggettive e le motivazioni plausibili» al suo via libera. Che è implicito e chiarissimo.
Ora, quella disponibilità all’election day del 10 marzo per le regionali (con, in prospettiva, l’inclusione delle politiche, appunto) ha dato luogo a recriminazioni di «scempio politico» e all’accusa di aver «subìto un ricatto» del centrodestra. Polemiche irritanti, per il Colle. Dove si è lavorato a questa soluzione tenendo conto, oltre che delle nuove disposizioni di legge intervenute sul Titolo V della Costituzione, di alcuni precedenti. Su tutti, tra il 2009 e il 2010, la successione di Marrazzo alla guida del Lazio. Una vicenda nella quale — tra l’autosospensione del governatore travolto dallo scandalo, le successive deleghe al vicepresidente Esterino Montino, l’abbandono ufficiale e altri passaggi — furono necessari addirittura cinque mesi dallo scioglimento del Consiglio prima che si tornasse alle urne.
Sul secondo punto, la questione è articolata e complessa. Napolitano sa perfettamente che i messaggi alle Camere rischiano di essere armi spuntate. Quelli lanciati dai suoi predecessori hanno raccolto consensi platonici, ma sono quasi sempre caduti nel vuoto. E sulla riforma elettorale, ha incalzato la politica così tante volte che ripetersi con quella formula solenne sarebbe in un certo senso uno spreco. Certo non si rassegna. Si augura un accordo che magari assicuri un significativo sostegno alla prima lista, attribuendole un potere aggregante. Si augura un’intesa che sia in grado di superare le ultime rigidità (come quelle su cui si è esposto Gasparri) e impuntature (del Pd): sarebbe un modo per garantire una conclusione costruttiva della legislatura ed evitare il «succedersi affannoso» di consultazioni citato nella sua nota. Ma se fosse costretto a congedare il Parlamento senza una nuova legge, si sentirebbe semmai in dovere di ricorrere a un duro appello ai cittadini. Che si tradurrebbe in una messa in mora dei partiti e della loro inerzia.
Restano gli ultimi due interrogativi, intrecciati, sui quali le scelte di Napolitano dipenderanno da fattori oggi non prevedibili. Mentre non ci sono dubbi sul fatto che intenda lasciare a chi salirà al Quirinale dopo di lui il compito di avviare la nuova fase politica (e questo per non lasciargli in eredità delle soluzioni precostituite), dubbi ci sono sulla ventilata ipotesi di sue dimissioni anticipate. Nel groviglio di adempimenti tra il timing di scadenze parlamentari e presidenziali e gli obblighi costituzionali, non va esclusa una possibilità piuttosto curiosa. Se ad esempio le elezioni avverranno il 10 marzo, come tutto lascia prevedere, sappiamo che a termini di legge le nuove Camere dovranno insediarsi entro 20 giorni: il primo di aprile. E sappiamo anche che (lo impone il secondo comma dell’articolo 85 della Costituzione) per scegliere il nuovo capo dello Stato, il rinnovato Parlamento dovrà riunirsi in seduta comune entro 30 giorni prima della scadenza di quello in carica, Napolitano, il cui mandato si chiude il 15 maggio.
Già dal primo scrutinio dello stesso 15 aprile, quindi, si potrebbe avere un presidente eletto, ma diciamo «parcheggiato» in attesa che si concluda il mandato del predecessore uscente. Il quale, se non decidesse di ritirarsi prima (scenario mai verificatosi ma da non escludere a priori), rimarrebbe in carica in una situazione di convivenza istituzionale con il collega. E tutto questo, anche se la Carta non dice espressamente che cosa può o deve succedere, avverrebbe per via ordinaria. Come un evento naturale, senza andare a scapito di un diritto soggettivo di Napolitano (pertanto senza incidenti sul suo jus ad officium), che in un’eventualità simile sarebbe logicamente tenuto a valutazioni di opportunità, ma comunque non tenuto ad abbandonare anticipatamente.
Un caso del genere, anzi l’unico, si verificò nell’85, durante l’avvicendamento tra Pertini e Cossiga. Il futuro picconatore era presidente del Senato e, in tale veste, anche presidente supplente di Pertini, in quei giorni in viaggio all’estero. Bene, da supplente fu eletto al Colle e, per un po’ di giorni, «coabitò» con il vecchio antifascista ai vertici della Repubblica. Non va dimenticato in ogni caso che Cossiga, quando finì il proprio settennato, nel ’92, si dimise un paio di mesi prima del termine per evitare l’ingorgo istituzionale.
Marzio Breda