Enzo Bettiza, La Stampa 17/11/2012, 17 novembre 2012
IL REBUS CINESE CHE ASPETTA UNA SOLUZIONE
Sono essenzialmente due i risultati emersi con notevole e già storica incisività politica dalle porte socchiuse, ma non dischiuse, del Diciottesimo Congresso, attraverso cui sono sgusciati i sette nuovi esponenti della quinta generazione del potere comunista cinese. Sembravano camminare a tentoni, come pinguini su vulnerabili uova d’anatra, a prima vista quasi tutti eguali negli abiti scuri, le camicie bianche, i capelli tinti di nero, la scriminatura a sinistra. Eguali perfino nel sorriso fisso, cauto e incoraggiante che esibivano, dopo mesi e settimane di feroci risse intestine, davanti ai 2268 delegati accorsi da ogni angolo dello sterminato Paese nella grandiosa Sala del Popolo di Pechino.
Primo dato da segnalare. L’organigramma ridotto da nove a sette membri del Comitato permanente del Politburo, che costituisce la misteriosa quanto tempestosa capsula di comando di una ristrettissima oligarchia su un partito unico di ottanta milioni di iscritti e un subcontinente, ormai seconda potenza mondiale, di quasi un miliardo e mezzo d’abitanti. Il secondo dato è più individuale, direi anzi individualissimo. Il personaggio, il cinquantanovenne Xi Jinping con cui Cina, America, Europa e il resto del mondo avranno a che fare per una diecina d’anni, è riuscito ad afferrare i quattro poteri che nessun altro capo postmaoista e postdenghista aveva mai concentrato in un colpo solo nelle proprie mani: segretario generale del partito, primus inter pares nel supercomitato dei sette, presidente della potente commissione militare, infine designato presidente per il marzo 2013 della Repubblica popolare.
E’ apparsa così totale la sconfitta della fazione dell’uscente segretario e capo di Stato Hu Jintao, che sperava di mantenere almeno per altri due anni la guida della commissione militare. Tale sconfitta, per ora morbidamente confinata al solo piano gerarchico, si staglia comunque su uno sfondo di implacabili lotte per il potere che hanno portato alla cacciata dal partito, con infamanti implicazioni giudiziarie, del potentissimo Bo Xilai ras «neomaoista» di Chongqing. Non solo. Un grave crollo d’immagine, per corruttela e arricchimenti illeciti, denunciati da autorevoli giornali occidentali, sta mettendo in difficoltà perfino l’uscente primo ministro Wen Jiabao: dopo un decennio, apparentemente incensurabile, verrà sostituito nell’incarico dall’avvocato ed economista Li Keqiang destinato ad affiancare ai vertici il quasi coetaneo Xi Jinping. Dietro le quinte del cambio insieme istituzionale e generazionale si sarebbe insomma svolta, secondo l’opinione di tanti osservatori anche cinesi, una delle più spietate rese dei conti che la Cina abbia subito dai tempi della rivoluzione culturale maoista. Non a caso si attribuisce a un personaggio intramontabile, l’ex presidente Jiang Zemin, grande esperto di interventi censori e repressivi, il ruolo del burattinaio che opponendosi alla fazione di Hu e compagni avrebbe favorito la promozione e l’ascesa dei cinquantenni e sessantenni: quasi dei «giovani» nell’ottica gerontocratica della «vecchia guardia» di cui l’ottantaseienne Jiang è un tipico e vitale rappresentante.
A questo punto sono in molti a chiedersi cosa vorrà o potrà fare la nuova nomenclatura, ipnotizzata dal mito della «stabilità», e consapevole tuttavia che senza una serie di riforme politiche la Cina rischia il peggio: la rivolta civile dei derelitti, l’aumento dei suicidi incendiari nel Tibet, l’irrequietudine delle etnie islamiche nei territori del Nordovest confinanti con la Russia e la Mongolia. Sono in molti a domandarsi chi sia davvero il misterioso uomo che si chiama Xi Jinping, marito di una fascinosa cantante d’opera, nonché figlio di un dirigente comunista perseguitato da Mao, riabilitato da Deng Xiaoping, impegnato a suo tempo nelle prime sperimentazioni capitaliste nelle «zone speciali» istituite dallo spregiudicato Deng nella Cina costiera e meridionale. Xi sarà soltanto una sorridente marionetta fra le mani della vecchia guardia conservatrice? Oppure diventerà poco per volta un riformatore, una specie di Gorbaciov alla cinese, un guastatore liberaleggiante in fuga dal mito della coriacea «stabilità»? Darà corda ai falchi del socialcapitalismo autoritario, ostili allo spirito riformatore, o presterà invece ascolto alle idee del più flessibile membro del comitato permanente dei sette, Wang Qishan, attuale vice primo ministro, che col suo fluido inglese rappresenta degnamente la Cina nei colloqui economici con l’America e l’Europa?
La prudenza, la retorica, l’ovvietà demagogica hanno purtroppo caratterizzato il discorso inaugurale di Xi. Ha ripetuto le frasi ormai consuete sul bisogno di «avvicinarsi al popolo», di combattere la corruzione sempre più diffusa, di sanare le profonde diseguaglianze economiche; ma non ha detto nulla di preciso e di efficace sulle possibilità di uno slancio riformatore a breve termine. Silenzio assoluto sulle autoimmolazioni di protesta nel Tibet, nient’altro che le solite tirate convenzionali sul «successo cinese nel creare una nazione multietnica». Il tutto condito da un inquietante tocco nazionalistico, con reiterate allusioni alla «rinascita cinese», espressione destinata a intimorire i vicini del gigante che da qualche tempo si mostra sempre più minaccioso nei confronti del Giappone, delle Filippine, e diversi altri Paesi del Sudest asiatico.
Ma qui, proprio qui, nelle ambigue acque del Pacifico, si erge, al di là delle reciproche relazioni economiche, l’ombra dello scontro politico con gli Stati Uniti di Obama. In quell’oceano tormentato, spaventato dall’espansionismo geopolitico di una Cina irritabile, il Presidente americano desidera non solo rafforzare il sostegno agli alleati storici come Giappone, Taiwan, Corea del Sud; desidera anche incoraggiare, con gesti concreti e parole nuove, uno spirito d’apertura verso Paesi meno calorosi come Vietnam, Cambogia, Birmania. Non a caso Barack Obama ha scelto il Sudest asiatico come primo itinerario diplomatico del suo secondo mandato presidenziale. Dicono alla Casa Bianca che questo viaggio, a soli dieci giorni dopo la rielezione, «è qualcosa di più di un semplice tour celebrativo: andiamo a rafforzare i legami con una parte del mondo sulla quale il Presidente ha investito massicciamente». Washington ha già tolto le sanzioni e riallacciato i rapporti con Rangoon, dove Obama incontrerà, quale segnale di libertà per l’Asia intera, il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ma ignorare la Cina, più che mai irritata, non sarà certo possibile: nell’agenda degli incontri è infatti previsto un vertice particolare, in margine ai lavori dell’East Asia Summit, tra Obama e il primo ministro di Pechino tuttora in carica Wen Jiabao. Sarà da vedere se il precario Wen, criticato con moglie compresa dal New York Times per il patrimonio miliardario accumulato all’ombra del potere, accetterà o meno di stringere la mano al Presidente tanto caro al libero e sferzante quotidiano americano.