Jenner Meletti, la Repubblica 18/11/2012, 18 novembre 2012
GRAN SAN BERNARDO ADDIO
Ama le parole schiette, padre Francis Darbellay, settantasette anni, canonico del Gran San Bernardo. «L’altro giorno, quando abbiamo lasciato per sempre la Casa ospitaliera ChateauVerdun,c’èstataunafesta. C’erano il vescovo di Aosta, il presidente della giunta regionale, il nostro prevosto. A me non sembrava di essere a una festa ma a un funerale. Dopo mille anni noi preti della Congregazione dei canonici regolari del Gran San Bernardo lasciamo la Valle d’Aosta e l’Italia. Per noi è stata la morte nell’anima. Lasciamo la terra dove siamo nati, perché San Bernardo da Mentone, il nostro fondatore, era arcidiacono ad Aosta quando lassù sul Mont-Joix costruì l’ospizio che poi ha preso il suo nome. Avevamo quattro parrocchie, il collegio Gervasone, l’Ecole pratique d’agricolture d’Aoste, che ha insegnato a produrre formaggio e vino a migliaia di giovani della valle. La casa ospitaliera Chateau Verdun era il nostro ultimo presidio. Siamo come l’esercito di Napoleone, che è arrivato fino a Mosca e poi è stato costretto a tornare indietro».
Non ha speranze, l’anziano canonico. «Il nostro prevosto, monsignor Jean Marie Lovey, capo della congregazione, ha detto “se Dio lo vorrà, torneremo
nella Vallée e in Italia”. Io non ci credo. Non ci sono più vocazioni. Quando sono entrato io, i canonici erano cento. Ora siamo una trentina, e tanti sono a riposo nella casa madre di Martigny, in Svizzera». Anche padre Francis Darbellay è a riposo. È stato l’ultimo priore di Chateau Verdun. «Dovevo partire per la casa madre di Martigny, ma ho chiesto di restare in Italia. Sono nato in Svizzera ma sono valdostano da cinquant’anni. Vivo nella Prevostura di St. Pierre, assieme ad altri sette preti diocesani a riposo, ma mi sento a casa. Anche questa, che era una casa fortezza, è stata costruita dai canonici di San Bernardo».
Finisce così la storia dei canonici di San Bernardo in Italia, e anche l’ospizio costruito a 2473 metri d’altezza — duecento passi dopo il confine con la Svizzera — rischia di essere abbandonato nei prossimi anni. «Quando sono diventato novizio», racconta Francis Darbellay, «con me c’erano altri cinque ragazzi che si erano innamorati di Cristo e della montagna. Fra novizi e canonici lassù al San Bernardo eravamo una trentina. Due anni di noviziato senza mai scendere a valle. Era bellissimo. Sveglia alla 5,30, preghiere, colazione… Si faceva anche sport, ovviamente lo sci. Ho vissuto gli ultimi anni in cui l’Hospice era ancora quello voluto da San Bernardo. “
Hic Christus adoratur et pascitur” (Qui Cristo è adorato e nutrito), questo il motto inciso sulle nostre pietre. Si imparava a sciare per poter soccorrere i pellegrini nella tormenta, portarli al convento e rifocillarli. Lo sci non era quello di adesso. Per farci le ossa, si saliva per un’ora e mezza con le pelli di foca e poi in dieci minuti si tornava alla base. Sempre sulla neve fresca, mai su una pista. Dopo ogni bufera, si scendeva sia verso l’Italia che verso la Svizzera per trovare pellegrini o viaggiatori dispersi nella tormenta. C’erano anche i contrabbandieri, e in gran parte erano brave persone. Dalla Svizzera portavano scarpe, caffè, zucchero, sigarette e cioccolato. Erano padri di famiglia che con quel lavoro hanno allevato figli e costruito case. Questo fino alla metà degli anni Settanta, poi tutto è cambiato. Sono arrivati i nuovi contrabbandieri che non pensavano a tirare su una famiglia ma soltanto a fare soldi in fretta». Fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ospitalità era totalmente gratuita. «Nella casa di Chateau Verdun avevamo una vera e propria fattoria. Mucche, galline, maiali… Così potevamo rifornire l’ospizio del Gran San Bernardo e dare da mangiare a canonici e pellegrini. Nella fattoria si faceva anche il bucato, perché lassù lenzuola, abiti e coperte non si potevano asciugare: il gelo e il vento le avrebbero spezzate».
Molte cose sono cambiate, sul colle del Gran San Bernardo. Da quando, nel 1964 è stato aperto il tunnel che unisce l’Italia alla Svizzera non è più necessario salire fino ai quasi 2500 metri del passo. «Chi arriva qui», racconta il canonico Raffaele Duchoud, cinquanta-
due anni, «non lo fa più per necessità. Viaggiatori e pellegrini si fermano per cercare un letto o un brodo caldo ma soprattutto per vivere dentro a un luogo dello spirito». Le giornate sono scandite dai momenti di preghiera. Mattutino e Lodi alle 7,15, Ora media alle 11,50, Messa e Vespro alle 18,15, Compieta alle 21. «Non so quanto tempo riusciremo a resistere. L’ultimo novizio è entrato tre anni fa, da allora il noviziato è deserto. Noi religiosi siamo cinque in tutto: due canonici, un diacono permanente, un’oblata e un’aspirante oblata. Poi ci sono i dipendenti, che curano cucina e ospitalità, che arriva a 140 persone».
Il passo chiude il 15 ottobre di ogni anno e riapre a giugno. «Si sale soltanto », racconta il canonico Duchoud, «a forza di polpaccio», con le ciaspole. «In inverno cadono anche venti metri di neve, e nel convento si entra solo dal primo piano. Sul versante italiano cadono molte valanghe ma il pericolo arriva anche dalla nebbia. Bianca la neve sotto i piedi, bianco tutto intorno, non vedi nulla e sei preso dal panico. Questa è la “morte bianca” che ha colpito tanti viaggiatori. Una ventina di anni fa due di loro sono stati trovati qui vicino. Erano a ottanta metri dal convento e dalla salvezza, e non se ne sono accorti».
C’è anche la morgue, dietro il grande ospizio. «Quassù non si potevano seppellire i morti, perché sotto trenta centimetri di terra c’è la roccia. Allora si faceva il funerale in chiesa, usando un’unica bara, e poi la salma veniva tolta dal feretro, legata a un asse e messa in piedi, appoggiata al muro dentro la morgue. I corpi quassù non si decompongono ma vengono mummificati. Così qualche parente, mesi o anni dopo, poteva riconoscerli. C’era una finestrella che permetteva di vedere questi corpi in attesa dell’eternità, che dopo decenni diventavano polvere e cadevano a terra. Adesso l’abbiamo murata».
Anche i cani San Bernardo — ce ne sono ancora undici — sono finiti in un museo. Con 8 euro si entra nelle stanze che raccontano la storia millenaria dell’ospizio e poi si passa nel canile. «Ne faccio uscire uno dalla cuccia, così lo può accarezzare». Stambecchi, aquile, lepri bianche e marmotte imbalsamate, quadri e stampe che raccontano i secoli eroici, con i canonici con la tunica nera che affrontano le bufere per salvare i dispersi e i cani che trovano donne, uomini e bambini sotto le valanghe.
È passata la Storia, su questo valico. Brenno con i suoi barbari nel 390 avanti Cristo, poi Annibale con gli elefanti nel 218 a. C.. Napoleone — così raccontano i pannelli del museo — attraversò il passo nel maggio del 1800 con 40mila soldati. I canonici gli fornirono 21.724
bottiglie di vino, 3.498 libbre di formaggio, 749 di sale, 400 di pane, 1.758 di carne, 500 lenzuola… Tutto per un valore di 40mila franchi. Ne ricevettero solo 18mila e solo cinque anni dopo. «Un tempo», racconta il canonico Raffaele Duchoud, «anche quassù c’era una piccola stalla, con maiali e mucche. Se l’inverno era troppo lungo, il nostro macellaio si metteva al lavoro». Ora ci sono i congelatori e, soprattutto, il refettorio dei religiosi deve servire solo cinque persone. Anche i cani San Bernardo vengono mandati a svernare a Martigny. «L’inverno non ci spaventa più. Abbiamo legna ed energia elettrica. A farci soffrire è soltanto l’assoluta mancanza di vocazioni».