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 2012  novembre 18 Domenica calendario

“NON CI LASCERANNO SENZA PAROLE”

Sapessi come è strano per David e Salman incontrarsi e parlarsi davanti ad un cappuccino a Milano. Lo scrittore ebreo e quello musulmano per la prima volta faccia a faccia. Amici nonostante la lontananza geografica e religiosa. E con lo stesso nemico: il fanatismo. Grossman nato a Gerusalemme nel ’54 e Rushdie nato a Bombay nel ’47. David che vive su un fronte di guerra presente («È terribile stare lontano dal proprio paese in un momento così drammatico») e Salman che non aveva un fronte, perché sotto la fatwa, qualsiasi strada poteva esserlo. L’israeliano e l’indiano, due padri, uniti dall’aver pagato anche in famiglia un alto prezzo per quel fronte. Sliding doors nelle loro vite: Rushdie al festival di Hay sostituì all’ultimo momento Grossman, che non poteva partecipare, e una delle guardie del corpo che per nove anni ha protetto Salman era un fan dei libri di Grossman. Due scrittori che hanno parole e lingue per dirlo ma che nel loro ultimo lavoro hanno concesso la loro intimità ai lettori: Grossman in Caduto fuori dal tempo a metà tra poesia e prosa scrive di genitori che hanno perso il figlio e Rusdhie in Joseph Anton parla in terza persona di cosa gli capitò da quando il giorno di San Valentino dell’89 l’ayatollah Khomeini lo condannò a morte per i Versi Satanici.
Due libri, editi da Mondadori, disperati e teneri, due diari pubblici di un dolore privato.
Venite da paesi e da infanzie diverse, c’è una parola, un tema che vi accomuna?
Rushdie:
«Credo sia il linguaggio, la flessibilità, le sfumature, il fatto di non dargliela vinta a chi vorrebbe volgarità e violenza. Non ci abbassiamo. Cerchiamo il punto di vista degli altri, il dialogo, non sottovalutiamo né disprezziamo altri pareri e sguardi. Entrambi abbiamo messo la famiglia al centro dei nostri racconti, guardiamo agli individui, a speranze e desideri, tutto e tutti ci sembrano degni di curiosità, bisogna sapere, conoscere, rispettare. Non siamo come i Talebani che odiano il piacere. Infatti cosa vietano? La musica, la danza, il cinema. Qualsiasi cosa dia piacere e gioia. La loro idea è che solo dopo la morte ci sia la vita, dunque tutto quello che emoziona su questa terra non vale la pena».
Grossman:
«Sì, Salman ha ragione. Noi cerchiamo di capire le ragioni e le vite altrui, strizziamo le parole, le valutiamo. Non scriviamo per sfogarci. È spaventoso che in questo momento a Gerusalemme la mia nipotina di quattro mesi sia in un rifugio, che idea si farà dell’esistenza? Ma questo non significa ignorare che anche i palestinesi hanno i loro diritti. Non dobbiamo amarli, ma conoscere le loro privazioni sì, non sono estranei da lasciare fuori, non puoi solo vivere nell’ignoranza e condannare gli altri e guerreggiare. Noi scrittori non abbiamo eserciti e nemmeno possiamo finanziare armamenti. La nostra resistenza deve essere civile, magari con piccoli gesti, con analisi che non siano viscerali. Noi possiamo smontare l’odio dei fanatismi o almeno provarci. Abbiano il potere di ricordare agli altri che c’è un’alternativa, anche contro la realtà, la logica e l’istinto. Quello di uccidere gli arabi non può essere uno slogan».
Si scrive per fare ragionare un mondo impazzito?
Rushdie:
«Io sono stato uno studente appassionato di storia e dico: chi prima dell’89 credeva possibile che il Muro crollasse e che l’Urss si sciogliesse? Non bisogna per forza essere pessimisti. Quando ero piccolo i miei parlavano di Beirut come di una Parigi mediorientale e di Baghdad, Teheran e Damasco, come di città libere e splendide, mio padre pregava cinque volte al giorno verso la Mecca eppure andò da mio nonno a dubitare: e se Dio non esiste? Parliamone, fu la risposta. Nessuno lo scomunicò. Mezzo secolo dopo tutto è cambiato e si è inacidito».
Come ci si racconta quando l’io diventa noi: e gli altri si ritrovano nella nostra stessa orma? E si è attendibili sulla proprio intimità?
Grossman:
«Quando ho scritto Il Libro della grammatica interioreci tenevo a farlo leggere subito ai miei genitori. Mio padre aveva dei dubbi: è bello, ma come faranno a capirlo fuori dalla nostra famiglia? A lui sembrava impossibile che altri si potessero ritrovare nelle mie parole. Quando il libro è stato tradotto è stata la mia vittoria. Sono andato da lui e gli ho detto: l’hanno capito benissimo anche all’estero. Se si è sinceri si è universali».
Rushdie:
«Concordo, la natura umana è costante. Spesso se si è onesti un’emozione privata diventa l’esperienza di tutti, mentre un fatto pubblico, noto e importante, si perde nella sua insensatezza. Voglio dire questo: quando sono stato condannato dalla fatwa, a mia madre che viveva sola a Karachi, in Pakistan, una città difficile e violenta, gli amici hanno consigliato di togliere il nome dal campanello per sicurezza. Lei ha rifiutato: no e poi no. Non ha ricevuto una minaccia o un’offesa, anzi ogni mattina al mercato c’è chi le chiedeva: come sta suo figlio?, ce lo saluti molto. C’era un mondo musulmano che aveva capito e non si riteneva offeso dalle mie parole. Certo, non sempre siamo attendibili quando parliamo di noi stessi e delle nostre debolezze, ad esempio, ci tenevo che mia moglie Elizabeth leggesse in anteprima la mia autobiografia e fatti in cui era coinvolta, ma lei li ricordava diversamente. È normale: quattro persone siedono in una stanza e ognuno ha la sua versione».
Come quando e dove scrivete: con musica, in silenzio?
Grossman:
«Io all’alba verso le sei di mattina vado a camminare per un’ora con mia moglie. Mi piace, a quell’ora vedo volpi e gazzelle, poi scrivo in una stanza per quattro-cinque ore. Con sottofondo di musica classica e di jazz, magari non
con tante parole, la musica è magica, mi aiuta ad entrare in un altro mondo ma, ad un certo punto, mi alzo e mi rimetto a camminare su e giù per la stanza, mia moglie dice che calpesto i tappeti e che si vedono i segni di tutti i chilometri che faccio. C’è Agnon, il primo e unico scrittore israeliano che nel ’66 vinse il Nobel, che scriveva in piedi. Davanti aveva un leggìo con il foglio e niente più. Quando finisco, prima di uscire accendo la radio, mi serve come antidoto alla realtà, mi fa capire che è ora di uscire là fuori».
Rushdie:
«Io avevo bisogno del silenzio e del mio studio. Ma nei dieci anni in cui sono stato in fuga e in posti diversi mi sono dovuto adattare a lavorare dove capitava. Resta che nei bar non potrei mai. Scrivo di mattina, anche in pigiama. David Mamet ha pubblicato Writing in Restaurants, J. K. Rowlings ha composto Harry Potterseduta al caffè, beata lei. Ammetto: lì nessuno ti rompe con le telefonate e magari vedere una faccia che ti dà l’ispirazione, ma no, niente musica. Vivo da un po’ di anni a Manhattan che per fortuna è piatta.
Cammino anch’io, ma di sera, per liberarmi la testa e per distrarmi. Niente psicanalisi, stimo Freud, grande scrittore, ma ogni volta che mi hanno proposto un massaggio alla mente di quel tipo mi sono detto: tutto qui?»
Rusdhie è partito: dall’India verso l’Inghilterra e in America, Grossman lascerà mai Israele?
Grossman:
«L’ho pensato in passato per evitare quello che poi è successo, ma non potrei. Io sono fatto di questa materia, è un paese di opposti, ma mi commuove il fatto che qui sono arrivati ebrei da tutto il mondo che cercavano una terra, finalmente un posto loro, dopo fughe e persecuzioni. Qui senti un respiro universale, tante culture, tante origini diverse che si mischiano. Mi capita di criticare Israele, ma capisco l’importanza di avere uno Stato. Qui c’è una grande storia umana, se solo riuscissimo a vivere in pace, a fianco, con rispetto. No, non me ne andrò, io appartengo a questa contraddizione: a questa fragilità che purtroppo spesso si tramuta in violenza».
Rushdie:
«Invidio David e gli scrittori che hanno un luogo preciso, che non sono estranei e stranieri, che appartengono ad una terra. Sono andato in Mississippi a visitare i posti di William Faulkner e la guida mi diceva: questo è il cancello su cui si è appoggiato quel personaggio, questo è il ponte che ha attraversato, questa è la casa descritta. Ero estasiato, Faulkner, la gloria locale, lo scrittore del sud. Ma alla fine ho scoperto che Faulkner per le sue posizioni progressiste e antirazziste era odiato nel suo paese e che se ne voleva andare da lì, solo che è morto prima. Io credo che riuscire a esprimersi in un’altra lingua come Conrad e Nabokov ti dia ricchezza, più scelta, un’altra visuale sul mondo. Mi definisco uno scrittore delle metropoli, New York ha mille storie e mille esistenze. Nascere da una parte, essere trapiantati da un’altra, essere un estratto di più culture, dà valore universale. Prendete Jane Austen: scrive quando ci sono le guerre napoleoniche, ma nei suoi libri non esistono, l’esercito inglese con la divisa di qualche ufficiale compare solo al ballo o al party. Per capire l’11 settembre non serve più stare a New York ma proiettarsi nel mondo arabo, lontano dall’America. Non c’è più un posto solo di osservazione, ma tanti».
Nei libri vi siete quasi posti le stesse domande come padri. Pensate che il racconto di sé serva a sanare la distanza di un genitore dal figlio. Vi siete anche esercitati nelle letteratura per ragazzi: cambiando stile?
Grossman:
«Serve a esplicitare i sentimenti, anche se spesso si è pudici, perché ai figli non piace finire nei libri dei padri. Ho scritto tanti libri per bambini e altri per adolescenti. Non ho mai avuto paura di non essere capito. Forse ho cercato frasi più corte, ma non mi sono mai imposto un altro stile. Quando ero piccolo e incontravo parole che non conoscevo, erano così esotiche ai miei occhi, che andavo a controllarle. Ai giovani oggi non si permette più di essere ingenui, li si descrive come una parodia e invece non lo sono, li si vuole cinici, ma è solo un’apparenza. Ce l’hanno la fantasia, va solo stimolata. Amo anche l’età difficile dell’adolescenza, perché è tormentata e solitaria, mi ricorda di me».
Rushdie:
«Ricordo quando mio padre mi raccontava le favole di Alì Baba, mi manca quel tempo e quello che mi è stato rubato dalla fatwa nei rapporti con i miei due ragazzi, Zafar di 33 anni e Milan di 15. Ho scritto Harun e il Mar delle Storie, perché l’avevo promesso a mio figlio che continuava a chiedermi: papà quando avremo un posto fisso dove vivere? E ho preso lezione da quel grande narratore dell’infanzia che è stato Italo Calvino e che ho avuto il piacere di conoscere. Scrivere per i ragazzi aiuta non a essere più brevi o più poveri di descrizione, ma ad essere più chiari. E volevo anche che Zafar, la cui madre è morta, conoscesse la storia dei suoi genitori, prima che lui venisse al mondo. Sì, i libri aiutano a trovare le parole e a ritrovare anche i figli».
Il dolore ha mai spento la vostra scrittura?
Grossman:
«Ci è andato molto vicino. Nel 2006 è morto mio figlio Uri, soldato. E io ero perso, vuoto, esiliato da tutto e tutti. La mia vita era deformata, non c’era più nulla di garantito, né più nulla da riparare. Stavo seduto senza trovare le parole. Poi ho pensato che io vivo nella letteratura, è un dono, è un privilegio: e le parole hanno una loro magia, sanno essere ironiche, fantasticare anche nei momenti peggiori. Ma tornando a Freud, che anch’io stimo come scrittore, la psicanalisi se vede un uomo annegare corre a salvarlo, io invece voglio affondare con lui. Per me scrivere è questo, è affrontare intensamente le emozioni, non sfuggirle, e così mi sono ributtato nel mio mondo. Le parole non mi riporteranno Uri, ma io ho scelto l’arte di scrivere e devo andare avanti. Non è un caso che Caduto fuori dal tempo abbia una parte in poesia. Non ce la facevo in un altro modo, mia moglie che è psicologa mi ha fatto notare che la poesia è la cosa più vicina al silenzio».
Rushdie:
«Sì ho pensato di smettere. Per disappunto. Due mesi dopo la fatwa. Mi chiedevo: a che serve scrivere 250 mila parole, sprecare cinque anni, se poi qualcuno ti condanna in nome di un estremismo fanatico che vuole sono pugnalarti e ammazzarti e non dialogare. Ma avevo fatto la promessa a mio figlio e questo dico ai padri: cercate di mantenere la parola con i vostri ragazzi. L’ho fatto per lui e alla fine ha salvato anche me».
Poi David con dolcezza gli chiede: quanto è alto tuo figlio Milan e cosa studia? E l’uomo dall’India e quello di Israele si abbracciano.