Lucio Caracciolo, la Repubblica 18/11/2012, 18 novembre 2012
Le elezioni in Israele sono vicine, per questo Netanyahu gioca la carta militare
Chiedete a un arabo palestinese di disegnare la Palestina. Poi chiedete a un ebreo israeliano di disegnare Israele. Confrontate i due schizzi: quasi sicuramente avranno la stessa forma. Perché nelle carte mentali dei due popoli le rispettive patrie occupano il medesimo spazio, tra Fiume (Giordano, ormai un rigagnolo) e Mare (Mediterraneo).
Solo, quel territorio cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Per il diritto di nominare il “proprio” spazio, da oltre sessant’anni in Terra Santa si vive e si muore, si uccide e ci si uccide. Il conflitto israelo-palestinese appartiene dunque alla vasta categoria dei problemi senza soluzione.
In termini logici, un problema senza soluzione non è un problema. Ma in politica, specie in geopolitica – ossia nelle dispute territoriali – non vige la logica formale. Se poi lo scontro investe la dimensione simbolico- identitaria, financo religiosa, come nel caso israelo-palestinese, la ricerca del compromesso diventa chimera. È su questo sfondo che conviene leggere l’ennesima crisi di Gaza. In apparenza, è lo stesso copione del dicembre 2008 (Operazione Piombo Fuso). Dopo che Hamas, filiale palestinese della Fratellanza musulmana, ha preso in mano la Striscia di Gaza, da quel territorio (365 chilometri quadrati, oltre un milione e mezzo di anime) partono a intervalli irregolari salve di razzi che colpiscono Sderot, Ashkelon, Ashdod e altri insediamenti israeliani, seminandovi il panico. Gerusalemme reagisce con raid aerei mirati. Finché, di fronte all’intensificarsi degli attacchi missilistici, il governo non decide che è il caso di dare una severa lezione a Hamas, in genere in vista di un’elezione alla Knesset. La deterrenza strategica sposa la tattica politica.
In questo caso, l’appuntamento elettorale di fine gennaio 2013 ha spinto Netanyahu a giocare la carta militare per compattare il fronte interno e cogliere alle urne una vittoria schiacciante. L’assassinio del capo militare (dunque il capo dei capi) di Hamas, Ahmad Jabari, ha inaugurato mercoledì scorso l’Operazione Pilastro di Difesa. Per ora aerea, forse presto terrestre. Come Piombo Fuso. Scadute le poche settimane che le Forze armate israeliane possono dedicare a un conflitto su terra, ognuno tornerebbe alle basi di partenza. In attesa delle prossime (e) lezioni.
Tuttavia l’apparenza inganna. Il copione delle provocazioni palestinesi e delle rappresaglie israeliane sarà pure lo stesso, ma nei quattro anni che separano Piombo Fuso da Pilastro di Difesa il mondo e il Medio Oriente sono cambiati. E continuano a mutare, a ritmo convulsivo.
Anzitutto, gli Stati Uniti hanno perso il Grande Medio Oriente. Dopo undici anni di guerra al terrorismo e due disastrose campagne in Afghanistan e in Iraq, l’influenza di Washington in quella che ci ostiniamo a definire una regione, mentre è uno spazio in rapida frammentazione, è ai minimi storici. Sorpreso dalle “primavere arabe”, Obama si è adattato a cavalcare un’onda rivoluzionaria che prometteva di aprire una stagione di libertà, progresso e democrazia, scoprendo di doversi accomodare, in Egitto e non solo, con i Fratelli musulmani, storica espressione dell’islam politico.
Allo stesso tempo, Obama si è costruito la fama di avversario di Netanyahu, irritando il premier israeliano ma poi finendo per accettarne l’intransigenza sul dossier palestinese e non solo pur di evitarne (ritardarne?) l’attacco all’Iran. Tanti equilibrismi si traducono in schizofrenia
a stelle e strisce: i Fratelli musulmani che comandano al Cairo sono okay per assenza di alternative, i loro affiliati a Gaza sono terroristi perché così ha stabilito Gerusalemme. Ancora, dopo aver benedetto la rivoluzione contro Gheddafi, Obama scopre che gli arcinemici del Colonnello uccidono il suo ambasciatore in Libia e così contribuiscono a scatenare la faida fra le agenzie di intelligence americane.
In secondo luogo, attorno a Gerusalemme non vi sono quasi più Stati, solo territori in ebollizione, sui quali jihadisti e altri nemici di Israele si muovono con agilità. La Siria non esiste più, è un campo di mattanza in cui gli islamisti radicali guadagnano spazio e legittimazione. Il Libano è scosso dall’onda d’urto della guerra civile siriana e Hezbollah continua a minacciare con i suoi missili il Nord d’Israele. In Giordania il regime amico trema. L’Egitto, governato dalla casa madre di Hamas, cerca di destreggiarsi fra solidarietà ideologica ai fratelli di Gaza e interesse nazionale, che sconsiglia lo scontro con Israele. Intanto il Sinai, penisola teoricamente egiziana dove passa il confine con lo Stato ebraico e da cui si accede a Gaza, è più che mai terra di nessuno – ossia di beduini e jihadisti.
Infine, l’Iran. Il nemico numero uno dello Stato ebraico. Per Netanyahu, l’Operazione Pilastro di Difesa è un capitolo nel confronto decisivo con Teheran. Hamas è considerato da Gerusalemme il braccio armato dell’Iran in campo palestinese (definizione spicciativa, ma che continua a orientare l’élite strategica e soprattutto il pubblico israeliano). I razzi che hanno sfiorato Tel Aviv e le colonie ebraiche presso Gerusalemme sono Fajr-5 di produzione persiana. Se Israele attaccasse l’Iran, sarebbero usati per martellare lo Stato ebraico da sud, mentre i missili di Hezbollah colpirebbero da nord.
Di qui l’obiettivo dichiarato dell’attacco a Gaza: annientare il potenziale missilistico annidato nella Striscia, peraltro in buona parte affidato a milizie più radicali e assai più filo-iraniane dello stesso Hamas. Queste ultime, in particolare la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sono responsabili dell’intensificarsi degli attacchi anti-israeliani ai primi di novembre, che hanno offerto a Netanyahu l’occasione per scatenare la sua aviazione contro Gaza. Quasi Teheran avesse deciso di provocare Gerusalemme, in vista di una guerra che alcuni dirigenti della Repubblica Islamica considerano vantaggiosa per la sopravvivenza del regime.
Per ora, la guerra a Gaza è limitata. Israele non intende rioccupare la Striscia e Hamas non vuole suicidarsi nello scontro frontale con l’entità
sionista.
Ma troppi focolai sono accesi attorno a Gerusalemme. Basta poco per incendiare l’intero Vicino Oriente e il Golfo. Nessuno potrebbe prevedere l’esito di una guerra totale. L’unica certezza è che non risolverebbe il dilemma arabo-israeliano, o peggio islamico-ebraico. In Terra Santa resta vero il postulato dell’antropologo americano Clifford Geertz: “Qui la sconfitta non è mai totale, la vittoria sempre incompleta, la tensione infinita. Tutte le conquiste e le perdite sono solo marginali e temporanee, mentre i vincitori cadono e gli sconfitti si rialzano”.