Giuseppe Videtti, la Repubblica 18/11/2012, 18 novembre 2012
MILANO
La signora ha i capelli in disordine, niente trucco. Il moccioso che ha in braccio piagnucola, quello che tiene per mano cerca di trascinarla via. I bimbi si annoiano quando le attese diventano interminabili, e lei è lì da stamattina. «Può aiutarmi a farmelo incontrare? », supplica la mamma. «Io sono una di quelle che entrò in crisi quando lasciò i Take That». Lui non scenderà a consolare lei né le altre, tutte sopra i trenta, assiepate all’esterno dell’albergo. In relax nella suite milanese, Robbie Williams ricorda: «Era puro isterismo, come ai tempi della beatlemania. Le fan ci seguivano ovunque. Per noi era tutto nuovo, la realizzazione di un sogno. Volevamo essere adorati, volevamo diventare famosi e volevamo che fosse per sempre. Abbiamo avuto fortuna, siamo rimasti sulla cresta dell’onda, anche con quest’industria musicale che cambia vorticosamente e da cui molti vengono travolti».
È coperto di tatuaggi. Sulle falangi delle dita ha scritto L.O.V.E. L’inchiostro si è sgranato ora che sta ingrassando, una pinguedine che ricorda quella di Elton John. Si accarezza la pancia con aria soddisfatta. «Da quando mi sono sposato sto mettendo su chili. Ho quarant’anni (in realtà ne ha trentotto,
ndr),
è difficile smaltire. Ma ancora riesco a entrare in una cinquanta, niente taglie forti». Mostra fiero l’abito che indossa,
pezzo forte della collezione per uomo che ha firmato. «L’ho chiamata Farrell, il nome di mio nonno, Jack “The Giant Killer” Farrell. Glielo dovevo, è stato il primo eroe della mia vita, uno che tirava di boxe, che ha combattuto la Seconda guerra mondiale, che si è spezzato le ossa in una miniera di carbone. Un grand’uomo. E un bell’uomo: elegante, sempre in giacca. Erano i tempi in cui i proletari avevano gusto nel vestire. Da lui ho imparato che è il carattere della persona a dare personalità all’abito, non viceversa». Racconta che fu Jack a insegnargli come si diventa uomini. Lui aveva quattro anni ed era incantato da tanta spavalderia. Gli trasmise l’amore per i suoi idoli: «Gene Kelly, Fred Astaire, Bing Crosby, Bob Hope, Tom Jones. Solo più tardi avrei scoperto i miei: Freddie Mercury, Tim Curry, Public Enemy, Eric B. and Rakim». Si vergognava quando, già all’epoca dei Take That, i tabloid cominciarono a scriverne di tutti i colori. Drogato, alcolista, gay. «Non avevo nulla di cui vergognarmi», spiega, «non ho mai fatto del male a nessuno. Non ero il vecchio bavoso a caccia di lolite, solo un adolescente che si portava a letto le coetanee. Ma quando leggevo quel che scrivevano, la prima cosa a cui pensavo era la reazione di mio nonno. Mi faceva star male l’idea che si vergognasse di me».
Quando nel 1995 abbandonò i Take That senza preavviso, il regno del gossip esultò. E non era solo polvere di stelle. «La fuga a Los Angeles fu necessaria. Obbligata direi. Non solo perché ero perseguitato dai tabloid; negli ultimi tempi con i Take That la vita aveva preso una piega orribile. Trascorrevo i weekend a farmi di ecstasy e di cocaina, a ubriacarmi e a portarmi a letto l’ennesima ragazza che poi mi avrebbe messo nei guai. A Los Angeles non avevo paparazzi alle calcagna, un sollievo enorme. Finalmente potevo essere una popstar con tutti i privilegi della mia condizione e nessuna controindicazione. Conducevo, in perfetto anonimato, la stessa vita di Londra. All’epoca collezionavo ragazze; in patria non avrei potuto farlo. L’amarezza della separazione dai Take That fu la spinta di cui avevo bisogno per ricominciare. Un personaggio pubblico è esposto a ogni sorta di giudizio. C’erano quelli che mi condannavano per essermene andato e quelli che benedicevano il mio gesto. Sono stati i primi a
darmi più energia. Pretendevo di essere un artista maturo, non lo ero. Amarezza, rabbia, rancore: questi erano i miei sentimenti».
Seminò i paparazzi ma non disperse le cattive abitudini. Esaltato dal trionfo a Glastonbury, dove aveva suonato per 250mila paganti, s’illudeva che le sue capacità di
entertainer
prima o poi avrebbero sedotto gli Usa. Tentò la carta del
crooner,
un album ispirato al Rat Pack, persino un duetto con Nicole Kidman; il pubblico americano è sempre rimasto insensibile. Sono in molti a raccontare che per troppi anni il maniero di Hollywood in cui viveva segregato era diventato un tempio di solitudine e delusione. «Non esattamente», riflette. «Cominciai a tirarmi fuori dalle droghe, ci provai almeno. Ovvio, non fu facile né piacevole. Tirando le somme: vivo a Los Angeles da dodici anni, e devo ammettere che almeno nove sono stati piacevoli,
mi sono divertito. Ho vissuto come un re senza mai essere importunato. Era quel che volevo».
Sembra incredibile, ora che è marito e padre, vederlo sereno e con l’aria pantofolaia di chi non ha mai voglia di uscire.
Take the Crown,
nono album dal titolo spavaldo appena pubblicato, è una dichiarazione d’ottimismo. «In passato, molte delle cose che ho scritto ruotavano intorno alla depressione, alle paranoie, alle delusioni sentimentali», dice. «Ora, confrontandomi col nuovo repertorio, mi sono reso conto che quei sentimenti si sono dissolti. Anche Gary Barlow, col quale ho scritto due brani, mi ha detto: “Che ti succede? Hai sempre scritto di varie infelicità e ora te ne vieni fuori con una canzone allegra!”. Sono fuori dal buio, penso positivo, sono felice, realizzato, illuminato. E certamente questo è il risultato del mio incontro con Ayda (Field), del matrimonio, della nascita di mia figlia (Theodora Rose). È qualcosa che voglio coltivare, far crescere e conservare per tutta la vita; arrivare a sessanta-settant’anni ed essere ancora accanto alla stessa persona, invecchiare insieme. Che mi è successo? Sono maturato? O sto semplicemente invecchiando? Un figlio diventa lo scopo della tua vita, ti fa concentrare su cose più importanti, t’impedisce di deragliare. Nel momento stesso in cui è venuta al mondo, tutto è fottutamente cambiato, ogni piccola cosa. Ero lì quando è uscita dal grembo materno. Stordito, con la mascherina. Ayda urlava dal dolore, io felice come una Pasqua».
In un attacco acuto di saggezza arriva ad ammettere che la delusione è madre della creatività. «È il mio mantra. La delusione mi ha portato dove mi trovo ora. È la vitamina che stimola il talento. Penso a quante delusioni e frustrazioni possa aver accumulato Bono prima di inventarsi gli U2; oppure quanta delusione possa provare il secondo classificato a X-Factor. Io sono deluso di non aver fatto grossi numeri con l’album precedente (
Reality Killed the Video Star).
Non era male, ma l’ho trascurato. Credo che il pubblico intuisca la disaffezione dell’artista e lo ripaghi con uguale moneta. Ma in quel momento non avevo l’entusiasmo che l’industria del pop pretende per promuovere un prodotto. Mi sentivo letargico, depresso, sofferente, non avevo voglia neanche di far sapere
alla gente che avevo inciso nuove canzoni. Ora ho superato tutto questo, ho rimesso insieme le energie, ho preso coscienza di quel che sono, una popstar sui quaranta che si appresta a entrare in una nuova fase della vita e della carriera. Combattendo come un leone. Con questo disco voglio dimostrare che adesso ho una ragione per cui vivere».
Dice che la rabbia di un tempo ha lasciato il posto ad amore e accettazione. Come prova esibisce la fulminea e inaspettata reunion dei Take That, due anni fa, nel momento in cui la sua vita sterzava verso la positività. «Li detestavo. Ci sono voluti quindici anni di silenzio per smaltire tutto quell’odio. Quando ci siamo rivisti non è stato facile, c’erano tante cose che dovevamo perdonarci. Ascoltai
The Circus,
il loro album del 2008. Mi piacque moltissimo. Pensai: “Cazzo, grande musica, questi si divertono ancora a stare insieme! E io? Io a Los Angeles, in isolamento, a inseguire fantasmi. Lo dico sinceramente, la carriera solistica ha prodotto molti successi ma ha portato poca allegria. Ho pensato che mi avrebbe fatto bene tornare a giocare con loro, che mi avrebbe curato. E avevo ragione. In un momento difficile della mia vita, i Take That mi hanno riportato indietro di vent’anni». Tutto merito della reunion e, soprattutto, di Ayda e Theodora Rose se è riuscito anche a esorcizzare la paura della morte che lo ossessionava. «Non hai paura di morire quando sei in pace con tutti».