Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 18/11/2012, 18 novembre 2012
L’opinione pubblica chiede al criminale: ti sei pentito? Alla vittima: hai perdonato? Al narratore: a quando il seguito? A volte criminale, vittima e narratore coincidono e le tre domande configurano la stessa forma di indulgente recidività
L’opinione pubblica chiede al criminale: ti sei pentito? Alla vittima: hai perdonato? Al narratore: a quando il seguito? A volte criminale, vittima e narratore coincidono e le tre domande configurano la stessa forma di indulgente recidività. Chissà se qualcuno l’ha già chiesto a Julian Barnes: «ha in programma un sequel del suo ultimo romanzo?». Non è detto, infatti, che all’ottimo scrittore basti avere intitolato la sua opera Il senso di una fine per suggerire ai lettori che almeno in questo caso non scatterà l’automatismo che moltiplica, protrae, tendenzialmente eterna le narrazioni. Nel mondo della fiction è come se tutte le ultime pagine, o gli ultimi fotogrammi, frame, tavole al posto di «The End» portassero le parole «To be continued». Siamo al trentesimo (circa) titolo delle avventure di Salvo Montalbano, in meno di vent’anni; al ventitreesimo film di James Bond; non manca troppo alla puntata numero 6500 di Beautiful; Dylan Dog ha compiuto ventisei anni, e solo di albi della serie mensile pubblicata da Bonelli siamo oltre le trecento storie. Nulla deve più davvero finire. Ciò che ci è piaciuto deve ripresentarsi, ancora e ancora (nel senso di again, non in quello di still). Fumetti, film d’azione, letteratura popolare. Dove è la novità? Prima di Montalbano c’era Maigret, prima di Beautifulc’era Sentieri, prima (e durante) Dylan Dog c’è Tex. In quanto a James Bond, il primo film della serie è del 1962, cinquant’anni tondi. Da sempre, insomma, la fiction più popolare non molla l’osso. Se il pubblico si è affezionato a un personaggio, a una data situazione narrativa, alla ricostruzione di un’epoca perché non continuare a riproporgli la medesima pietanza? Fargli conoscere un nuovo personaggio è molto più difficile che fargliene riconoscere uno già noto. L’ovvia legge è stata confermate da tutte le saghe multimediali e di diverso genere, da Harry Potter a Twilight, da- Transformers all’Era glaciale... Si riuniscono rock band e brand, tornano in classifica i Beatles, tornano i Supereroi dei fumetti come Batman e Spiderman, i Vampiri: il pop non seppellisce niente e nessuno, anche perché le sue «icone» sono come zombie sempre pronti a ritornare (ivi compresi gli Zombie in senso proprio). Se in mezzo al tripudio di Mad Men, Dexter, Downton Abbey, Boardwalk Empire si è arrivati al ritorno di Dallas (sia pure non proprio benedetto dal successo) vorrà proprio dire che niente che sia stato di moda una volta non può ritornare a esserlo. «Quale storia laggiù attende la fine?». Dai tempi in cui Italo Calvino se la rivolse nel suo Se una notte d’inverno un viaggiatore la domanda è rimasta del tutto in sospeso. Fine? Cosa vuol dire? Non saremmo troppo sorpresi se venisse annunciato un Aureliano secondo ritorna a Macondo. Anzi, la scorsa settimana molti musi si sono allungati per la sorpresa negativa dell’annunciato ritiro di Philip Roth: niente più Nathan Zuckerman? Possibile? Ma la storia recente dell’artista come revenant ci lascia sperare che Philip Roth ci ripensi, un po’ come Tina Turner, o Michael Schumacher. Non solo la letteratura di genere, infatti, brandisce il brand a colpi di saghe, prequel e sequel o trilogie, tetralogie e oltre, come nelle cinquanta (x 3) «Sfumature », nelle detection scandinave, o nel fantasy del Trono di spade. Da serie di opere accomunate anche solo da rapporti tematici o atmosfere (come nella filmografia di Krzysztof Kieslowski o nella letteratura di Javier Marías) sino a spin off, prequel e sequel, riprese e integrazioni, i narratori in attività sembrano tornare sempre più insistentemente sui propri passi, o moltiplicare i punti di vista e variare la medesima azione narrativa, come fa la moviola calcistica per i fuorigioco controversi. Forse succede perché gli autori stessi sono cresciuti già nell’era della serialità diffusa, forse è per cercare un compromesso con le leggi del marketing (ormai estese anche ai territori della letteratura non di genere), forse è perché gli standard sconsigliano di azzardare volumetrie tolstoiane e durate da Sergio Leone, ma sta di fatto che molti progetti si sviluppano o addirittura nascono direttamente su più volumi, come per i tre dell’ 1Q84 di Haruki Murakami o i cinque del 2666 di Roberto Bolaño. Hilary Mantel ha pubblicato i primi due volumi di una trilogia, con la biografia fittizia del personaggio storico Thomas Cromwell (entrambi hanno vinto il Booker Prize). In Italia lo si è visto con Paolo Sorrentino e i due romanzi con protagonista Tony Pagoda (che già sostanzialmente proveniva da un film dello stesso autore); con Alessandro Baricco e Tre volte all’alba, derivato dal precedente Mr Gwyn; o con l’ultimo Premio Strega, il romanzo Inseparabili, che è il secondo della dilogia Il fuoco amico dei ricordidi Alessandro Piperno. È pure vero che, per quanto riguarda la letteratura universale, se pensiamo a Iliade e Odissea, in principio era il sequel. Per la lingua italiana l’imprinting viene da Inferno, Purgatorio e Paradiso, che è oltretutto parzialmente postumo, come la Rechercheo 2666. Essere postumo è ottimo, per un sequel: segnala che il prolungarsi dell’opera può anche trascendere i limiti umani dell’esistenza dell’autore. Ma è proprio lo stesso tipo di serialità? Ha senso accostare i sette volumi di Proust e quelli di Harry Potter? Forse sì; ma forse sarebbe invece come sostenere che quello fra Antico e Nuovo Testamento è un binomio analogo a Gargantua e Pantagruel o ai salgariani Corsaro Nero e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, perché in tutti questi casi si racconta prima la storia del padre e poi quella di figlio o figlia. La narrazione seriale ha modificato il funzionamento ciclico della catarsi, che ora non si compie più nel momento dello «scioglimento » finale, il dénouement dei narratologi, ma è disseminato in una quantità di scioglimenti parziali e minori. Nelle serie tv, per esempio, si intrecciano vicende limitate alla singola puntata, vicende che si svolgono per due puntate o per l’intera serie stagionale, e anche vicende che oltrepassano le stagioni, con un continuo succedersi di scioglimenti e riannodamenti. È a quelli, oramai, che il pubblico si è affezionato e anzi assuefatto (anche in senso clinico): nessuna Misery osi mai più morire. Nessuno vuole più sapere «che fine fa» Oliver Twist o Jean Valjean; il pubblico vuole convivere con il suo eroe, vedere cosa gli toccherà questa volta, chi è il nuovo cattivo e chi la nuova ragazza di James Bond. Come andrà a finire, lo si sa. La sua vita non si limita incrociare la nostra, ma le scorre parallela. Si deve tenere anche nel giusto conto che rispetto anche solo agli anni Settanta e Ottanta, il mondo della serialità tv non si nutre più dell’estetica Cheap & Kitsch di soap opera e telenovelas. Il lynchiano Chi ha ucciso Laura Pal- mer? sul momento poteva apparire come un’isolata bizzarria, ma dopo qualche anno si è deciso che poteva far scuola e almeno da E. R. in poi l’idea che i serial potessero essere francamente belli non è più apparsa strana. Quando si arriva a Grey’s Anatomy, Lost o Mad Men, o quando Martin Scorsese firma la prima puntata di Boardwalk Empire ci si rende conto che oramai il mediumè diventato egemone. Sarà anche un caso, ma Sam Mendes, il cui American Beauty ha informato l’estetica di Desperate Housewives è il regista dell’ultimo James Bond (i cui libri, in Italia, ora sono editi da Adelphi). Aleggia il mito di Shahrazad: la storia continua a non finire, non incomincia mai a finire e il tempo stesso che perde il suo capo e la sua coda: è notte e non è mai ora di finire, c’è sempre un’altra fiaba da ascoltare, un’altra puntata da vedere, un altro capitolo da leggere. Esaurito il danaro, spendiamo la ricchezza che ci resta in forme di godimento che si possono perpetuare solo tramite la ripetizione. Il Paradiso non è durativo, è iterativo. L’Arte pare infatti aver rinunciato a perseguire l’immortalità del «Per sempre» per accontentarsi della costanza implacabile e un po’ allucinata dell’«Un’altra volta ancora». Lo storytelling dà dipendenza. Ogni narrazione tende a diventare mondo e né un mondo né una narrazione finiscono davvero: a finire sono solo, prima o poi, coloro che li contemplano.