Enrico Franceschini, la Repubblica 18/11/2012, 18 novembre 2012
LONDRA
Ingmar Bergman lo definiva «il più grande, colui che ha inventato un nuovo linguaggio cinematografico ». I festival più prestigiosi, da Cannes a Venezia, hanno ricoperto di premi i suoi film. E dire che ne ha girati poco più di mezza dozzina, da
Andrej Rubliov
a
Lo specchio,
da
Stalker
a
Nostalghia,
lasciando tuttavia un segno indelebile sulla settima arte, influenzando generazioni di cineasti. È durata troppo poco la vita terrena e artistica di Andrej Tarkovskij, il più importante regista russo, scomparso nel 1986 per un tumore ai polmoni, ad appena 54 anni, in esilio a Parigi, mentre in Unione Sovietica stava appena sbocciando la perestrojka di Gorbaciov, senza che lui avesse fatto in tempo a coglierne i frutti. Per questo ogni fotogramma, ogni riga di testo, ogni parola che ci ha lasciato, hanno il sapore di
una reliquia, da conservare e studiare con febbrile eccitazione, perlomeno se uno ama il cinema.
Di testimonianze del genere ne esistevano già: svariati documentari, tra cui uno prodotto in Italia, dove Tarkovskij visse parte dei suoi ultimi anni; un libro di teoria cinematografica,
Scolpire il tempo,
in cui definisce la sua idea estetica; i diari che iniziò a tenere dal 1970 fino alla morte, pubblicati in edizione integrale solo nel 2002 da una piccola casa editrice di Firenze, la città che lo aveva praticamente adottato. Ora a questi frammenti si aggiunge un piccolo tesoro: l’archivio personale del regista, centinaia di lettere, appunti, bozze di sceneggiature, fotografie, audiocassette.
Sarà venduto il 28 novembre a Londra da Sotheby’s: «In blocco, perché non sarebbe ammissibile disperdere un simile patrimonio culturale», dice Stephen Roe, capo del dipartimento manoscritti della celebre casa d’aste. Il prezzo di partenza è 80-100 mila sterline, circa 100-120 mila euro. «Sono probabilmente le uniche carte inedite di Tarkovskij rimaste in circolazione », afferma Roe. «Il nostro augurio è che siano acquistate da qualche museo o università, o da un generoso finanziatore privato che poi le doni a un’istituzione pubblica». Gli oligarchi russi che amano fare i mecenati nella capitale britannica non mancano.
L’archivio di Tarkovskij era in possesso di Olga Surkova, allieva, collaboratrice
e amica del regista per lunghi anni. «Il fatto che Tarkovskij abbia avuto un impatto così profondo, pur avendo diretto soltanto sette film, è la prova del suo genio », commenta uno dei suoi fan, il regista americano Steven Soderbergh, che ha girato una nuova versione di
Solaris
con George Clooney nel ruolo del protagonista. Da dove venisse, tale genialità, non si è mai saputo con certezza: forse dal vento della taiga o da sotto la pesante coltre di neve che la ricopre d’inverno. Andrej Tarkovskij era nato in un piccolo villaggio sulle rive del fiume Volga, nel 1932, mentre l’Urss era sotto il tallone di ferro di Stalin. Veniva da una famiglia semplice: la madre, tipografa, religiosissima, fu forse lei a imprimere nel figlio lo
spiritualismo visionario destinato a emergere nelle sue pellicole; il padre scappato via quando lui aveva appena tre anni, poi tornato brevemente alla fine della Seconda guerra mondiale, quindi di nuovo svanito. Da lì il giovane provinciale sovietico finisce a Mosca. Dapprima per studiare lingue orientali, ma non fa per lui. Accetta un lavoro con una spedizione di geologi nella taiga siberiana e il contatto con la natura selvaggia lo aiuta a ritrovare uno stimolo. Nel 1956, quando torna nella capitale, dove nel frattempo Krusciov ha sostituito Stalin e spira un’atmosfera di riforme, Andrej si iscrive alla Scuola superiore di cinematografia: il suo insegnante, esponente del realismo socialista fino ad allora imperante,
riconosce le sue qualità e la sua originalità, incoraggiandolo a sperimentare. E il resto è storia (del cinema).
Ma è una storia sofferta.
L’infanzia di Ivan,
suo primo film, vince il Leone d’oro a Venezia nel 1962, scatenando però tali polemiche che per difenderlo deve intervenire Jean-Paul Sartre con un articolo sulle colonne dell’Unità. Con il secondo,
Andrej Rubliov,
che attraverso le gesta di un pittore di icone ricrea con pennellate
oniriche il mito della Santa Madre Russia, della terra e della fede, scoppia un caso a Mosca, dove la pellicola sarà proiettata solo nel 1971, dopo severe restrizioni, nonostante i riconoscimenti ottenuti al festival di Cannes e gli elogi in tutto il mondo. È in quella occasione che Tarkovskij, disperato, invia un’accorata lettera personale a Leonid Breznev, il segretario generale del Pcus, leader supremo del Cremlino,invocandonel’intervento:edè
uno dei reperti più interessanti dell’asta londinese (qui ne pubblichiamo un estratto,
ndr).
«Egregio Leonid Ilich!», gli scrive, «questo non è un film antisovietico, la prego, mi lasci lavorare». Non serve. Tarkovskij passa gli anni successivi tra l’Italia, dove gira
Nostalghia,
nella campagna senese, intorno al borgo di Bagno Vignoni, dove lavora con Tonino Guerra diventandone grande amico, la Francia e gli Stati Uniti. Infine sceglie la via dell’esilio. È il dissidente russo più famoso, insieme al premio Nobel per la letteratura Solgenitzin e al violoncellista Rostropovich. Proprio quest’ultimo suonerà la
Suite per violoncello n. 2
di Bach al suo funerale, in una chiesetta ortodossa di Parigi. Michail Gorbaciov, su pressioni del presidente francese Mitterand, avrebbe voluto dargli una degna sepoltura in patria, ma la vedova si oppose e il più grande regista russo giace tuttora nel piccolo cimitero ortodosso di Sainte-Genevieve-de-Bois.