VARIE 17/11/2012, 17 novembre 2012
APPUNTI PER GAZZETTA - I RAID DI ISRAELE
CORRIERE.IT
Tornano a suonare le sirene di allarme antimissile a Tel Aviv, dove si è udita una forte esplosione. Lo riferisce il sito di Haaretz. E intanto continuano gli attacchi di Israele sulla Striscia di Gaza per il quarto giorno. Il numero totale dei morti è salito a 45. Rimangono tre i morti in Israele, mentre salgono a 42 quelli nella Striscia, tra cui 13 civili. Almeno sei i bambini sotto i sei anni. Ma i feriti palestinesi sono centinaia, inclusi quelli causati da un missile che nella notte ha colpito una abitazione di proprietà di Hamas, che ha anche intrappolato alcune persone sotto le macerie, e una casa nel campo profughi di Jebalyia.
OPERAZIONE DI TERRA - L’esercito israeliano si appresterebbe ad entrare a Gaza nel fine settimana. Lo riporta il Times, citando alti ufficiali delle forze armate. Uno di questi - secondo il giornale - ha confermato l’ordine alle truppe di prepararsi «con il più alto grado di speditezza». Secondo la Cnn, poi, migliaia di soldati israeliani si stanno ammassando al confine con la Striscia di Gaza. Intanto nella notte sono proseguiti i bombardamenti al confine con la striscia di Gaza. Secondo l’ufficio del premier israeliano, scrive il portavoce su Twitter, solo il 4% dei razzi è però atterrato nello Stato ebraico. Almeno 60, afferma, hanno colpito civili palestinesi nella stessa Striscia di Gaza.
Israele mobilita 75mila riservisti
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RAID ISRAELIANI - Nel corso dei raid colpita anche l’abitazione di un responsabile di Hamas nel campo profughi di Jabalya, nel nord della Striscia di Gaza, causando almeno 35 feriti. Lo rendono noto fonti mediche locali. Secondo il portavoce dei servizi di sicurezza Adham Abu Selmiya, ad essere presa di mira è stata la casa del ministro dell’Interno palestinese Ibrahim Salah e i soccorritori sono ancora alla ricerca di eventuali vittime sotto le macerie.
Sirene a Tel Aviv, intercettato razzo
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RAZZI PALESTINESI -E proseguono anche le repliche da parte palestinese. Sedici i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza verso Israele, senza fare feriti, mentre altri 5 sono stati intercettati dal sistema israeliano Iron Dome. Lo riferisce la portavoce della polizia, Louba Samri. Secondo fonti militari, tuttavia il numero dei tiri di razzi da Gaza «sono sensibilmente diminuiti».
MINISTRO TUNISINO A GAZA - Il ministro degli Esteri tunisino Rafik Abdessalem ha fatto visita a Gaza al palazzo del governo di Hamas distrutto da un attacco aereo israeliano. Durante la sua visita i raid dello Stato ebraico non si sono fermati. Nella prima visita di un alto rappresentante della Tunisia dal 2007, Abdessalem ha chiesto «la fine dell’assalto e aggressione» contro i territori palestinesi. «Siamo irremovibili nel sostenere e fornire assistenza ai nostri concittadini di Gaza», ha detto. Da Ankara arriva invece un monito ben preciso: «Israele dovrà rendere conto per il massacro di bambini innocenti a Gaza», ha detto il premier turco Recep Tayyp Erdogan nel corso di un intervento all’Università del Cairo.
«CRIMINI CONTRO L’UMANITA’»- Al Cairo, per cercare di dare una soluzione alla crisi a Gaza, c’è anche il leader di Hamas, l’elusivo capo del politburo, Khaled Meshaal. Secondo una fonte islamista, Meshaal è riluttante ad accettare un cessate-il-fuoco senza la garanzia che anche Israele la rispetterà. Intanto il segretario generale della Lega araba Nabil el Araby, aprendo la riunione straordinaria dei ministri degli esteri arabi, ha detto «L’aggressione» israeliana a Gaza è un «crimine contro l’umanità». Il segretario della Lega Araba domani sarà a Gaza. Mentre Angela Merkel e il premier israeliano Benjamin Netanjahu hanno convenuto in una telefonata la necessità di «arrivare il più presto possibile al cessate il fuoco».
SCONTRI IN WEST BANK - Per tutto il giorno nei Territori si sono verificati violenti scontri tra l’esercito israeliano e la popolazione palestinese che protesta per l’operazione militare Pilastro della difesa. Circa trecento manifestanti si sono radunati nella centralissima piazza di al-Manara a Ramallah. Moltissime le bandiere verdi di Hamas e i canti inneggianti a colpire nuovamente Tel Aviv con razzi. Circa un centinaio di manifestanti si sono radunati per un’altra manifestazione nei pressi del check-point di Huwara, punto di ingresso alla città di Nablus e situato nelle vicinanze degli insediamenti israeliani di Itamar, Esh Qedesh e Yitzhar. L’esercito israeliano ha reagito con il lancio di lacrimogeni e il fermo di alcuni manifestanti. Scontri anche tra esercito israeliano e manifestanti presso la prigione di Ofer a Ramallah.
CORTEI IN TUTTO IL MONDO - A Roma il sit-in dei palestinesi in corso davanti a Montecitorio si è trasformato in un corteo nelle vie del centro storico di Roma. I manifestanti, chiamati in piazza dalla comunità palestinese di Roma e Lazio, hanno sfilato dietro lo striscione «Fermiamo il massacro a Gaza». Cortei di protesta davanti alle ambasciate e ai consolati israeliani si sono tenuti anche a Londra, al Cairo, in Spagna, ad Amsterdam, a Santiago del Cile.
I MISSILI DI HAMAS DI GUIDO OLIMPIO
Sono sufficienti uno o due missili sul centro di Israele - Tel Aviv e dintorni - per tenere sotto pressione l’avversario. Chiaro il messaggio: Gerusalemme usa tutta la sua macchina bellica ma noi siamo in grado di continuare a colpire in profondità. E non importa dove arrivano o quale sia il bersaglio. L’effetto lo ottengono lo stesso.
PIATTAFORME MOBILI - Dall’altra parte è impossibile bloccare del tutto i lanciatori. Mobili, sono piazzati in nascondigli nei centri abitati. Israele ha cercato di premunirsi colpendo un deposito in Sudan che alimentava Hamas, quindi ha sferrato blitz contro quelli a Gaza. Blitz mirati per neutralizzare specialmente i Fajr 5, i missili iraniani che possono arrivare fino a Tel Aviv. I palestinesi probabilmente ne hanno ancora e li usano in modo oculato: sono «pezzi» strategici. Per le operazioni normali bastano mortai e katyuscia che «battono» le zone sud di Israele (dai 12 ai 45 km di raggio d’azione). In totale le formazioni palestinesi avrebbero a disposizione circa 10 mila ordigni. Hamas e Hezbollah applicano la strategia adottata dai mullah durante otto anni di conflitto con l’Iraq. Allora ci fu la guerra della città, centrate dai missili Scud lanciati dai due regimi nemici, quelli guidati dall’ayatollah Khomeini e da Saddam Hussein. Risultato militare uguale allo zero, però grande sacrificio per le popolazioni.
RITORSIONE - Se alla base c’è una buona organizzazione militare si può andare avanti per settimane. Lo dicono i precedenti conflitti a Gaza o in Libano sud. Il missile non è più solo un’arma ma una moneta di scambio in un eventuale negoziato. La prova l’abbiamo nella storia di questi ultimi dieci anni segnati da un ciclo tragico: lancio di razzi, ritorsione di Israele, tregua, poi di nuovo guerra. All’infinito.
Guido Olimpio
GLI ATTACCHI AI SITI
La guerra continua anche in rete. Così mentre sia da parte israeliana che palestinese si contano i morti, il gruppo di hacktivist Anonymous scende in campo al fianco dei palestinesi. E sferra un attacco senza precedenti contro numerosi siti web israeliani in segno di protesta per l’operazione Pilastro di Difesa contro la Striscia di Gaza. Dopo poche ore l’annuncio: «Abbiamo attaccato novemila siti israeliani».
I MESSAGGI E I COMUNICATI - Secondo la stampa israeliana, nel mirino dell’attacco, rilanciato via Twitter (sotto l’hastag#Oplsrael), sono finiti vari siti istituzionali come quello del governo, del Ministero degli Esteri, del partito Kadima, della Banca di Gerusalemme e del comune di Tel Aviv (che è quello che da, tra le altre cose, le indicazioni alla popolazione sui rifugi). Su uno degli account Twitter del gruppo, si legge che il sito web del governo è rimasto bloccato per vari minuti, mentre Anonymous sostiene di aver cancellato il database del ministero degli Esteri; in alcuni casi, sui siti web hackerati sono apparsi slogan e immagini filo-palestinesi. L’attacco segue l’annuncio fatto mercoledì dal gruppo: «Per troppo tempo siamo rimasti a guardare nella disperazione i comportamenti barbari, brutali e spregevoli delle forze di difesa israeliane sugli abitanti palestinesi dei cosiddetti territori occupati». Gli hacktivist hanno anche pubblicato una serie di indirizzi email provenienti dal sito di real estate in Israele dirotmodiin.co.il.
DALLA PRIMAVERA ARABA ALL’OPERAZIONE PILASTRO - Da sempre Anonymous sostiene le popolazioni del Medio oriente, e durante la primavera araba si è schierato più volte aiutando i dissidenti a comunicare con il resto del mondo, evitando i blocchi della censura. Così non c’è da stupirsi che oggi siano numerosi i giovani palestinesi della West Bank con una maschera di Guy Fawkes, simbolo del movimento, sul volto. Ma è la prima volta che Anonymous mette in piedi un’operazione su larga scala durante un conflitto.
Marta Serafini
PIERLUIGI BATTISTA SUL CORRIERE DI STAMATTINA
L e bombe sono tutte sporche, come la guerra. E ogni civile che perde la vita per un missile o un raid aereo è un prezzo troppo elevato e su cui sarebbe indecente stilare una contabilità competitiva tra le parti in causa. Una bomba su Gaza non è meno grave di un missile su Tel Aviv, ma le ragioni e i torti esistono, non sono cancellabili, hanno una storia. E antefatti.
Perché da Gaza hanno cominciato a colpire il Sud di Israele? Non c’è bisogno di risalire troppo indietro nella storia, al ’67, e prima ancora al ’48 con la costituzione dello Stato di Israele, e ancora prima alla presenza ebraica sotto il mandato britannico, giù giù fino ai tempi remoti dei testi sacri. Stiamo alla cronaca, e agli ultimi anni. Da anni non c’è più a Gaza un solo soldato israeliano, e nemmeno un abitante degli insediamenti ebraici smantellati per impulso del vituperato Sharon. Fu uno psicodramma: gli ebrei che si ribellavano ai soldati israeliani, le lacrime, le urla, addirittura il fantasma di una nuova persecuzione attuata dai fratelli in divisa. Ma se ne andarono. E da quel momento cessò l’occupazione israeliana, svanì ogni presenza israeliana, fu allontanata qualunque presenza umana israeliana. A Gaza, anche senza la costituzione formale di uno Stato palestinese, c’è una leadership palestinese, un’autonomia amministrativa palestinese. Ci sono state elezioni e ha vinto Hamas, che non voleva e non vuole solo uno Stato palestinese, ma vuole la cancellazione dello Stato di Israele, l’annichilimento dell’«entità sionista».
Da Gaza partono i missili che vogliono colpire la popolazione civile israeliana al di là del confine, in una striscia di terra quantitativamente minuscola, se confrontata all’ampiezza di altri Stati del Medio Oriente. A Gaza i bambini vengono indottrinati dall’odio anti-ebraico, imparano la «santità» del terrorismo suicida. Non c’è distinzione, nell’universo mentale di Hamas, tra un soldato e un civile israeliano: sono considerati ugualmente usurpatori per il solo fatto di essere lì, e devono sparire tutti, senza differenza, per ripulire la terra santa da ogni contaminazione ebraica. Ecco l’humus politico, culturale e religioso che c’è in chi lancia incessantemente missili per colpire civili israeliani, e prima in chi si faceva saltare su un autobus a Gerusalemme per uccidere quanti più bambini ebrei, donne ebree, vecchi ebrei.
Non è una rappresentazione manichea della realtà di Gaza e di Israele. È la radice di una guerra che rischia di incendiare tutto il Medio Oriente, di nuovo. I governi israeliani, e l’ultimo di Netanyahu, non sono esenti da colpe, soprattutto nella chiusura nei confronti di ogni trattativa con la parte moderata dei palestinesi di Abu Mazen, anche senza farsi illusioni sulla volontà di pace di un interlocutore ondivago e spesso inaffidabile. Ma attorno a Israele ruggisce il nuovo Egitto dei Fratelli Musulmani che lascia libero il passaggio per Gaza. La stessa Hamas viene scavalcata dagli estremisti che la considerano troppo moderata e arrendevole. C’è la minaccia atomica iraniana, uno dei dossier più controversi e, letteralmente, esplosivi del secondo mandato di Obama. C’è il Libano in fiamme con Hezbollah. E dalla Siria la guerra tra il dittatore Assad e la rivolta guidata da Al Qaeda non determinerà, comunque dovesse finire, l’allentamento della morsa.
Questo non significa assolvere lo Stato di Israele da qualunque colpa, né giustificare preventivamente ogni sua offensiva militare su Gaza. Significa però comprendere che quella dello Stato di Israele è la difesa a una sfida finalizzata a mettere in discussione la sua stessa sopravvivenza. E anche comprendere che nell’opinione pubblica internazionale, i ripetuti, martellanti attacchi dei missili di Hamas sulle città a pochi passi dal confine, e ora su Tel Aviv e persino su Gerusalemme, non possono essere ignorati. E non è accettabile che sia divulgata una rappresentazione degli eventi drammatici di questi giorni come il frutto della solita smania militarista di Israele. Continua la minaccia «esistenziale» allo Stato di Israele. Ed è esplicita la volontà di Hamas di far sentire i cittadini israeliani costantemente sotto attacco. Il mondo spera che la guerra finisca, o che almeno l’escalation non raggiunga punte drammatiche e cruente. Ma non può permettersi di sottovalutare o trascurare la sequenza degli eventi, l’«asimmetria» di una guerra voluta e provocata da Hamas fino a che l’«entità sionista» non venga annientata. La tragedia di Gaza non è senza responsabili.
INTERVISTA DI BATTISTINI AD AMOS OZ SUL CORRIERE DI STAMATTINA
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — Amos Oz, stanno osando l’inaudito: razzi su Gerusalemme… È il gps di Hamas che funziona male o c’è una strategia?
«Mi piacerebbe che fosse il gps… Ma temo che sia una cosa intenzionale. Sono in macchina, sto ascoltando la radio militare e dicono che l’obbiettivo era quello di colpire la Knesset».
Ma se poi colpiscono la moschea Al Aqsa? In ogni caso, il venerdì, alla Knesset non c’è nessuno…
«Non possono sapere tutto».
Possiamo già chiamarla la Seconda guerra di Gaza?
«Consiglierei prudenza. È lo scorrere dei giorni a dare la forma a una guerra».
Con la calma di chi ha visto di peggio, chiuso in un carro armato nei Sei giorni del 1967 e sulle alture del Golan. Con la leggera sapienza di chi sa che da queste parti «la vita fa rima con la morte», titolo d’un suo libro. Con l’autorevolezza tranquilla di chi ha fondato Peace Now israeliano, e per lo Stato palestinese si batteva già quarant’anni fa. All’ora dei missili e delle bombe, con tutte queste cose caricate in auto, il più grande scrittore israeliano se ne va verso Sud. Destinazione Arad, casa sua, deserto del Negev: «Ero a Tel Aviv giovedì pomeriggio, quand’è caduto il primo razzo. Me ne vado, ma non per paura. Perché è il weekend…».
Curioso, però: fra tanto sparare, il mondo s’impressiona se un Fajr solca il cielo di Tel Aviv…
«Finora a Gaza sono morte più di venti di persone, per la maggior parte erano tutti miliziani di Hamas. Gli aerei israeliani stanno facendo di tutto per colpire il meno possibile obbiettivi civili. Hamas, no: il suo scopo è fare morti fra la gente comune, perché sa che l’effetto è maggiore. Ecco perché un missile su Tel Aviv non è solo un missile su Tel Aviv».
Il coinvolgimento delle grandi città può cambiare le strategie?
«Un morto a Tel Aviv non è più importante d’un morto a Sderot. La differenza sta nella densità dei centri colpiti, nel numero di vittime. Per questo sparano al bersaglio grosso».
La chiamano dall’estero per sapere che succede?
«Sì. E io spiego che Israele si trova sotto l’attacco continuo di questi razzi almeno dal 2006. Quale Paese sopporterebbe dodicimila missili in sei anni? Bisognava reagire, non c’era alternativa se non con un attacco aereo che è sproporzionato solo per chi non ha provato a stare qui in questi anni. Però adesso sono contrario all’ingresso via terra coi carri armati: a Gaza è facile entrare, ma non è facile uscirne».
Anche nel 2008, Piombo Fuso doveva essere un’operazione risolutiva…
«E infatti allora si fece l’attacco via terra, un errore. Penso che Netanyahu farà di tutto per evitare di ripeterlo: quattro anni fa, le ferite furono molto profonde, anche psicologiche».
Il caso Shalit, la mediazione egiziana dimostrano però che, al di là della retorica, con Hamas si può parlare…
«Si può parlare con Hamas, ma dipende da come e su che cosa. Hamas non ci vuole vivi, continua a ripetere che non dobbiamo stare qui. Non c’è dialogo con chi mette in discussione la tua presenza».
L’Egitto dei Fratelli musulmani ci crede.
«L’Egitto s’è posto come intermediario. Ma è difficile lo possa fare un governo che dà tutte le ragioni a Hamas e tutti i torti a Israele. È meglio se si leva: serve un altro mediatore, più neutrale. Nemmeno la Turchia può avere questo ruolo».
Quanto dura questa Colonna di fumo?
«La risposta è solo nella testa di Hamas. L’operazione militare terminerà quando finiranno i missili. Non ci sono molti retroscena, non c’entrano niente il voto alla Casa Bianca o quello israeliano in gennaio, di cui sento parlare: sono bombe legate a un’emergenza da risolvere».
C’è un dato politico, però. In quattro anni, Netanyahu è riuscito a rompere con Obama, con la Turchia, con l’Egitto, ha congelato il dialogo coi palestinesi… È il leader adatto?
«Lei sa quanto io sia un oppositore di Netanyahu. A gennaio voterò contro di lui. Sul piano politico, non ha mai tentato un accordo coi palestinesi. E sul piano sociale, s’è rivelato un primo ministro al servizio dei ricchi. Ma questo non m’impedisce di dargli ragione sul problema di Gaza».
Ma è lecito sigillare in quel modo un milione e mezzo di persone e pretendere che non reagiscano?
«Gl’israeliani stanno rifornendo la Striscia di cibo e di benzina anche in questi giorni, il valico egiziano di Rafah è aperto: non accetto che si dica che quella è una prigione a cielo aperto per colpa d’Israele. Vedo molta ipocrisia su questo tema: da quando a un povero, per quanto povero, è riconosciuto il diritto d’uccidere gente innocente?».
L’Obama II sarà una sorpresa per il Medio Oriente?
«Non ci sono soluzioni a sorpresa, qui. Quello che Obama può fare, è aiutare Abu Mazen e Netanyahu a negoziare fra di loro. Con pazienza. E lasciando perdere Hamas».
Francesco Battistini
ANTONIO FERRARI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
La guerra di Gaza ha un terzo protagonista politico, influente, e soprattutto esterno: il nuovo Egitto. Nuovo perché il presidente Mohammed Morsi si è affrettato a spiegare che il suo Paese «non è più quello di ieri» e che anche «gli arabi di oggi non sono più quelli di ieri». Un messaggio sibillino che ne ha accompagnato uno esplicito: «L’Egitto non lascerà sola Gaza», che è vittima «di un’eclatante aggressione contro l’umanità».
Linguaggio inusuale per il capo del più importante Paese arabo, che per decenni aveva accuratamente evitato ogni eccesso pur di proteggere il trattato di pace di Camp David. Ma allora Hosni Mubarak, ergendosi a bastione della stabilità, faceva quel che voleva e non doveva rispondere a nessuno. Adesso il presidente Morsi, eletto democraticamente, deve rispondere a chi gli ha dato il voto, e rendere conto di ogni passo compiuto.
C’è però una seria complicazione, Mohammed Morsi non è un capo di Stato neutrale. Avrà di sicuro carisma e volontà da statista, come sostengono i suoi collaboratori, ma appartiene alla Fratellanza musulmana. E se da una parte può essere più spregiudicato del suo predecessore Mubarak, dall’altra deve tener conto che la base dei suoi elettori è sicuramente più vicina ad Hamas che ai gruppi palestinesi laici, come il Fatah. Infatti, Hamas è sicura espressione della Fratellanza, e oggi si trova nell’ambigua posizione d’essere blandito sia dagli sciiti sia dai sunniti. I legami dei padroni della Striscia con l’Iran sono noti e hanno una lunga storia. Ma ora, oltre alle interessate carezze (e promesse) egiziane vi sono i soldi, tanti, 400 milioni di dollari, portati a Gaza dall’emiro del piccolo e multimiliardario Qatar, alleato di ferro dei sauditi. Un solido sostegno sunnita quindi, cui potrebbe accostarsi anche la Turchia di Erdogan.
Ecco perché questa guerra di Gaza è molto più insidiosa delle precedenti. Per i popoli coinvolti (israeliani e palestinesi) e per gli influenti attori esterni. Fa impressione che il presidente egiziano Morsi abbia deciso di richiamare immediatamente il suo ambasciatore a Tel Aviv, e di inviare subito il primo ministro per offrire concreta solidarietà agli abitanti della Striscia e ai loro leader. Pensare al Cairo come mediatore, a questo punto, è davvero arduo, anche se il premier israeliano Netanyahu finge di crederci e l’Amministrazione Obama fa capire di volerlo credere.
UN PASSAGGIO DI GAD LERNER
Le Brigate Al Qassam twittano da Gaza messaggi finalizzati a spargere fra gli israeliani la medesima
paura che opprime in questi giorni la popolazione palestinese vittima dei bombardamenti di Tsahal. La guerra del terrore si combatte su un fazzoletto di terra, e così il
zeva adom
(letteralmente “colore rosso”) contrassegnato dal frastuono delle sirene sospinge nei rifugi anche gli abitanti della mondana e godereccia Tel Aviv. Ma il tentativo di coinvolgere nell’allarme il sabato di Gerusalemme ha un significato inequivocabile: l’assolutizzazione del conflitto, elevato da controversia territoriale a guerra di religione.
«Gerusalemme è un bacile d’oro pieno di scorpioni», disse il geografo gerosolimitano al-Muqaddasi già oltre mille anni fa. Lo ricorda Franco Cardini nel bel libro («Gerusalemme. Una storia») appena pubblicato da
il Mulino.
«Tra i profeti di Gerusalemme ho visto cose nefande», aveva già ben prima preconizzato Geremia. Mentre
l’evangelista Marco lamentava: «Oh Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati »
GUOLO SU REPUBBLICA
SOTTO tiro ma non isolata. Quattro anni dopo “Piombo fuso” Hamas vive con diverso stato d’animo la prospettiva di un nuovo conflitto con Israele. Allora aveva a fianco Iran, Siria e Hezbollah, alleati del movimento islamista sunnita in funzione antisraeliana. Oggi Hamas trova sponda non tanto nel frantumato “Asse della Resistenza” – i rapporti con la Siria di Assad nemica della Fratellanza locale sono chiusi – ma con storici alleati degli Stati Uniti come l’Egitto e Qatar. Mentre Israele ha perso l’appoggio della Turchia.
Il mutamento geopolitico indotto dalle primavere arabe rappresenta un ovvio vantaggio per Hamas. Dopo che la Fratellanza egiziana è andata al potere al Cairo, Gaza non è più la prigione a cielo aperto dell’era Mubarak. Anche se la gabbia si è spezzata solo ora, con l’apertura di Refah ai palestinesi che fuggono dai bombardamenti di Tsahal. Non era andata così in estate, quando il nuovo governo egiziano aveva chiuso i tunnel usati per aggirare il blocco imposto da Israele. L’apertura del confine è segno evidente che la Striscia ha ormai un retroterra politico, non solo geografico.
Sebbene il governo del Cairo abbia la necessità di non tagliare i ponti con la comunità internazionale per garantirsi i crediti decisivi per uscire dalla difficile situazione economica, la Fratellanza egiziana non poteva mostrarsi tiepida nei confratelli palestinesi. La comunanza ideologica e religiosa e il valore simbolico del conflitto impediscono all’Egitto, come ha ricordato Morsi, di lasciare da sola Gaza. Sulla scelta ha inciso anche la pressione dei salafiti che invocano la denuncia del trattato di Camp David.
Per far fronte a questi diversi imperativi, il premier Qandil è andato a Gaza per esplorare la possibilità di un cessate il fuoco; mentre il presidente Morsi ha denunciato “l’aggressione israeliana” come crimine contro l’umanità. Hamas gradisce, tanto che il suo leader politico esterno, Meshaal, ha ricordato che il nuovo corso egiziano mette fine al tempo in cui Israele poteva fare ciò che voleva con i palestinesi.
Hamas sa che in caso di conflitto non può pensare a una vittoria militare: nonostante i razzi forniti dagli iraniani giungano alle porte di Tel Aviv, e per la prima volta colpiscano Gerusalemme, paradossalmente cristallizzata da quel lancio nel suo
status
di capitale del Nemico, il divario nei rapporti di forza è evidente. Ma punta alla vittoria diplomatica. Resistendo fino a quando la pressione internazionale imponga a Israele, come nel 2008, di fermarsi prima di decapitare il suo potere.
Hamas conta sul fatto che l’attacco mette a rischio le già critiche relazioni israeliane con l’Egitto. Specularmente, Netanyahu vuole far capire a Morsi che l’atteggiamento verso Hamas è la cartina tornasole nei rapporti tra i due paesi. Un doppio test teso a verificare sin dove si può spingere, e a che prezzo, l’appoggio egiziano al movimento palestinese. Un tassello decisivo per gli israeliani, anche in previsione della deflagrazione di un conflitto regionale a effetto domino, che prenda il via dalla vicenda del nucleare iraniano, dalla crisi siriana o da un incidente libanese. Il tutto mentre si decompone ulteriormente la leadership dell’Anp, incapace di uscire dal ridotto della West Bank, se non seguendo Hamas sul terreno dell’unità nazionale contro la “guerra di aggressione”.
La radicalizzazione del conflitto semplifica il campo: in quello palestinese gioca solo Hamas. Con grande soddisfazione della destra israeliana che non ha mai creduto alla soluzione dei “due Stati”.
INTERVISTA DI MOLINARI A SCHANZER
L’ Egitto ha tentato di risolvere la crisi ma non c’è riuscito ed a rafforzarsi è stato l’Iran»: così Jonathan Schanzer, l’ex analista di Intelligence sul Medio Oriente del ministero del Tesoro oggi direttore politico della Fondazione per la difesa della democrazia a Washington, legge quanto sta avvenendo a Gaza.
Perché Morsi ha inviato il proprio premier nella Striscia?
«Lo ha fatto cedendo alle forti pressioni americane. Il presidente Obama vuole che sia l’Egitto a risolvere la crisi di Gaza e Morsi ha compiuto un gesto per riuscirci».
Ma la missione sembra fallita, ora quali scenari si aprono?
«Obama ha chiamato il leader turco Ergodan sperando che abbia maggior successo con Hamas ma più a lungo dura la crisi più a rafforzarsi è l’Iran».
Qual è il motivo?
«I razzi lanciati da Hamas contro Tel Aviv e Gerusalemme sono di produzione iraniana. Dimostrano che Teheran sta rifornendo Hamas con armi simili a quelle che ha fatto arrivare, in maggior numero, agli Hezbollah in Libano. Se Morsi non riesce a porre termine agli attacchi, la crisi spingerà sempre più Hamas nelle braccia degli iraniani».
Ciò significa che vi sarà un’invasione israeliana?
«Non credo. L’intenzione di Israele è stata sin dall’inizio di distruggere tutti i depositi di razzi iraniani consegnati a Hamas. Hanno pressoché terminato l’opera. Fra 48 ore tutti i loro obiettivi saranno raggiunti. Ciò significa che se Hamas cesserà di lanciare razzi tutto rientrerà in fretta».
Gli accordi di pace di Camp David fra Egitto e Israele ne escono indeboliti?
«Sin dall’elezione di Morsi alla presidenza l’Egitto discute sulla revisione degli accordi di pace con Israele. C’è una evidente volontà di arrivarci da parte dei Fratelli Musulmani ma gli israeliani hanno fatto capire con chiarezza che non è disposta ad addentrarsi su questo terreno. E gli Stati Uniti sono decisamente contrari. Morsi non può far a meno degli ingenti aiuti economici americani e internazionali. Dunque ritengo che, a dispetto di una retorica molto aggressiva nei confronti di Israele, non arriverà a denunciare gli accordi di pace del 1979».
«In questo momento gli Stati Uniti vogliono soprattutto che Hamas cessi il lancio dei razzi e dunque questo è ciò che chiedono a Morsi ma quando tutto sarà finito vorranno appurare se l’Egitto era o meno a conoscenza dell’inizio dell’offensiva dei razzi. Se ciò fosse vero le relazioni bilaterali sarebbero messe a dura prova e il Congresso di Washington potrebbe decidere di intervenire sugli aiuti economici annuali che sostengono tutt’ora l’economia egiziana».