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 2012  novembre 17 Sabato calendario

S arebbe istruttivo per tutti ripassare la storia del nostro tormentato ingresso nell’euro. Leggendola nell’ultimo libro di Bruno Vespa, Il Palazzo e la piazza, tornano alla mente alcune piccole verità facilmente dimenticate

S arebbe istruttivo per tutti ripassare la storia del nostro tormentato ingresso nell’euro. Leggendola nell’ultimo libro di Bruno Vespa, Il Palazzo e la piazza, tornano alla mente alcune piccole verità facilmente dimenticate. La prima è che lo spread esisteva anche prima dell’euro. Non è una misurazione impostaci dalla Germania per verificare giorno per giorno come procedono i nostri compiti a casa, né un voto quotidiano dei mercati per sostituirsi al voto democratico degli italiani. Se fossimo rimasti fuori dall’euro, non ce ne saremmo certo liberati. Anzi. Finché fu incerto il nostro ingresso nella moneta unica, lo spread era a 600; scese rapidissimamente a 100 e perfino a 20 quando il governo di Prodi e di Ciampi convinse tutti che ce l’avremmo fatta. Si può dire insomma che restando fuori dall’euro oggi saremmo reduci non da un anno ma da un decennio di interessi altissimi: per il debito dello Stato ma anche per il credito alle imprese e alle famiglie (i tassi dei mutui prima dell’euro erano al 13%). Dal che si deduce che chi non capisce che questa è la madre di tutte le battaglie per la nostra economia o è sciocco o è in malafede. La seconda verità è che molto peggio per noi sarebbe stata «una unificazione fatta dai mercati, senza regole, sulla base dell’egemonia del più forte, vale a dire il marco», per usare le parole di Guido Carli, ministro del Tesoro nel 1991. Infatti prima dell’euro non c’era l’Eden della libertà monetaria: il marco dettava legge, e la lira doveva ubbidire. Nel 1992, a difesa della stabilità della sua moneta, la Bundesbank portò il tasso di interesse fino all’8,75%, il livello più alto dal 1931. La conseguenza fu che Amato dovette svalutare del 7% la lira, presentandolo eufemisticamente come un «riallineamento sul marco», dovuto proprio al fatto che la Germania si era rifiutata di abbassare i suoi tassi. Uscita dal Sistema monetario europeo, la nostra moneta volteggiò come una foglia d’autunno fino a sfiorare una perdita di valore reale del 20%. Mario Monti scrisse sul Corriere: «Per la politica economica italiana questa svalutazione è una sconfitta grave». Bruciammo la metà delle nostre riserve valutarie in quella battaglia. Quando fummo riammessi nello Sme, nel ’96, la nostra valuta valeva un terzo di meno e il nostro debito detenuto all’estero un terzo di più. Un’altra verità è che noi entrammo nell’euro a dispetto della maggioranza dei tedeschi e dei loro alleati. Il ministro dell’economia olandese, Gerrit Zalm, il più falco dei falchi, disse all’Economist: se i governi non sono stati capaci di escludere l’Italia, lo faranno i mercati. I mercati non lo fecero allora, e se hanno tentato di farlo adesso è solo perché abbiamo sprecato questi quindici anni, che avremmo dovuto invece usare per rendere la nostra economia forte come la moneta che abbiamo adottato. Chi oggi accusa Monti di servire gli interessi della Germania dovrebbe ricordare che allora era Bossi a fare il tifo per i falchi bavaresi, nella speranza che l’Italia restasse fuori e si spezzasse in un Nord germanico e un Sud africano. Infine andrebbe ricordato, a scopo propedeutico, che anche il governo di centrosinistra che vinse le elezioni nel ’96 e che riuscì nell’obiettivo storico di portarci nell’euro, all’inizio titubò. È nota la polemica annosa sul vertice italo-spagnolo di Valencia del settembre 1996: a detta del Financial Times e dello stesso Aznar, Prodi in quell’occasione avrebbe proposto al governo di Madrid un asse mediterraneo per chiedere un alleggerimento dei parametri o un rallentamento dei tempi di adesione all’euro. Anche nel libro di Vespa, Prodi torna a smentire con decisione, e non c’è ragione di non credergli. E però appena venti giorni prima di quel fatidico summit il vicepremier Veltroni aveva anticipato questa idea in un’intervista a Massimo Gaggi sul Corriere così titolata: «Veltroni: Maastricht va rivista. Sediamoci a un tavolo per ridiscutere i parametri o i tempi dell’unione monetaria». Che sia stato Aznar a rifiutare quella proposta, o che sia stato Prodi a non formularla, fatto sta che dopo quel vertice il governo italiano cambiò passo, e raddoppiò la manovra finanziaria (da 32.500 a 62.500 miliardi di lire), e di poche cose gli italiani dovrebbero essere grati a un governo della Seconda Repubblica più di questa. È bene però che queste analogie siano ben studiate dagli aspiranti governanti di domani, perché quell’ingenua aspirazione di Veltroni a «rinegoziare» Maastricht ricorda molto da vicino le bellicose promesse dei Fassina e dei Vendola odierni di «rinegoziare» il Fiscal Compact.