Luciano Gallino, il Venerdì 16/11/2012, 16 novembre 2012
MARCHIONNE CHE COSA PASSA PER LA TESTA DI QUEST’UOMO
[SERGIO MARCHIONNE]
TORINO. In Italia Sergio Marchionne ha detto e fatto di Tutto. Dicendo e facendo qualche tempo dopo l’esatto contrario. Ci si può quindi chiedere che cosa passa nella mente di un manager che sembrerebbe a volte intento a studiare nuove mosse per contraddire quelle che ha appena compiuto. Ricordiamo alcune di queste contraddizioni. Nel 2004, poco dopo aver assunto la carica di ad Fiat, Marchionne dichiarava che il lavoro incide per il 5-6 per cento appena sul costo di un’auto; più che su tale voce marginale, bisogna quindi concentrarsi sul grosso dei costi, dopodiché la sua azione è parsa concentrarsi soprattutto sulla riduzione del costo del lavoro. Che è un impegno arduo nei moderni stabilimenti dell’autoindustria (a meno di procedere a un taglio diretto dei salari). Quattro quinti dei componenti provengono da fornitori esterni. Sulle linee gran parte delle operazioni è svolta da robot. Le linee avanzano a un velocità fissa. Quel che si può fare lo si è visto a Pomigliano: 10 minuti di pausa in meno per operai, e intervallo mensa spostato a fine turno. Riduzione effettiva dei costi per auto assemblata: forse qualche decina di euro.
Nel settore auto, poi, sono stati annunciati da Marchionne, con il piano Fabbrica Italia di tre anni fa, venti miliardi di investimenti. Abbastanza per costruire una dozzina di stabilimenti e altrettanti nuovi modelli. Poi l’ad ha scoperto che c’era la crisi, sebbene le vendite di auto in Europa fossero cadute già dall’anno prima, e lo stesso Marchionne non avesse mancato di rilevare, pure nel ruolo di presidente dell’associazione europea dei costruttori, che nella Ue c’e un eccesso di capacita produttiva del 20-30 per cento. Con la scoperta della crisi i venti miliardi sono diventati uno. E le anticipazioni dei modelli da produrre a Mirafiori ricordano una serie di slides fatte passare troppo in fretta sullo schermo. Prima si è parlato di un suv, forse una jeep della Chrysler; poi di un suv Alfa Romeo; poco dopo di una 500 lunga, che però è stata subito dirottata in Serbia; adesso l’ad parla di tornare alle auto di gamma alta. Dopo che Fiat ha abbandonato per anni questo mercato alla concorrenza, pur avendo prodotto un tempo ammiraglie di eccezionale qualità, tipo la Lancia Thema.
Per quanto riguarda le relazioni industriali le contraddizioni dell’ad sono meno repentine, ma certo non mancano. Nei suoi primi anni in Fiat anche sindacalisti non teneri con il Lingotto riconoscevano che finalmente avevano di fronte un manager con cui si poteva discutere.
Che capiva le ragioni delle vertenze. Che assicurava avrebbe fatto il possibile per migliorare le condizioni di lavoro. Poi sono arrivate le decisioni che contraddicevano tutto quanto il nuovo ad aveva lasciato sperare. Il contratto-ukase di Pomigliano. Il licenziamento dei tre a Melfi accusati di intralcio alla produzione, versione cui il giudice non ha creduto. Infine la recente rappresaglia di tipo militare: il tribunale mi ordina di riassumere 19 operai che sarebbero stati discriminati nelle assunzioni, e io ne licenzio altri 19. Che cosa passa nella mente di un manager di sicuro talento e competenza, che però, nuova Penelope, pare intento a disfare di notte quello che ha fatto di giorno? Sulle prime si potrebbe azzardare l’ipotesi di una doppia personalità. Stando ad essa ci sarebbe il Marchionne americano e il Marchionne italico. L’ad-Jekill e l’ad-Hyde. Il dirigente che vorrebbe produrre due milioni di auto in Italia e l’alter ego che nello specchio scuote la testa e gli dice che deve contentarsi di un quinto o meno di quella cifra. L’imprenditore progressista che ama gli operai e vuol dare ad essi tanto lavoro e alti salari (pensando magari a Henry Ford che li pagava bene perché così compravano le sue auto) e il grande capo reazionario che li considera inaffidabili e pagati fin troppo. Quel che non quadra nell’ipotesi della doppia personalità è che in tale sindrome uno non può scegliere quale personalità assumere. Capita che all’improvviso una subentri all’altra, magari nel momento meno propizio.
Invece Marchionne sembra sapere bene quale veste indossare, in quale luogo e momento, e con quali interlocutori. Un’altra ipotesi è che a Marchionne succeda di utilizzare abbastanza spesso uno schema interpretativo sbagliato o inadatto, credendo sia il migliore per convincere gli interlocutori. Uno schema interpretativo è un attrezzo mentale, un quadro prefabbricato depositato in memoria, più o meno standard, che sopperisce alla necessità di conferire rapidamente un senso a una situazione imprevista. Una persona usa sovente certi schemi che ha in mente in modo automatico, ma quando può li sceglie in funzione del bisogno, oppure ne fabbrica appositamente qualcuno. Affermare che la crisi europea è la causa del fatto che in Italia la Fiat produce sempre meno auto deve essere sembrato a Marchionne lo schema più adatto per convincere governo, sindacati, consumatori che il Lingotto non ha alcuna responsabilità.
E lo schema che rappresenta gli operai, soprattutto quelli iscritti alla Fiom, come inaffidabili o assenteisti o incapaci è un ferrovecchio nella cassetta degli attrezzi mentali di Marchionne (presente anche in quella di molti politici e opinionisti), ma se l’ad se lo trova sotto mano quando un giudice gli dà torto gli viene naturale usarlo. I nuovi modelli non arrivano? Dalla cassetta dell’ad ecco venir fuori l’interpretazione per cui un manager esperto lancia le novità quando il mercato tira, non quando è in crisi; che è il contrario di quanto hanno fatto tutti gli altri costruttori europei, forse perché i loro schemi sono stati essi medesimi rinnovati. Il problema è appunto che al pari di quelli veri utilizzati dagli idraulici o dai meccanici, con il tempo anche gli attrezzi mentali invecchiano. Qualche anno fa gli schemi con cui l’ad Fiat spiegava il mondo, l’industria, la fabbrica, il comportamento operaio convincevano per la loro novità. Oggi convincono meno perché sono stati utilizzati un po’ troppo spesso. È possibile che, oltre che sulle linee, anche nella mente di un top manager ci sia bisogno di sviluppare nuovi modelli.
Luciano Gallino