Stefano Livadiotti; Giulia Paravicini, l’Espresso 16/11/2012, 16 novembre 2012
QUANTO CI COSTA NON FARE
Quattrocentosettantaquattro miliardi e 300 milioni di euro. È il costo-monstre che l’Italia dovrà sostenere se non riuscirà, nei prossimi quindici anni, a colmare il suo crescente deficit infrastrutturale. I risultati del settimo rapporto dell’Osservatorio "I costi del non fare", che verrà presentato a Roma giovedì 22 novembre e che "l’Espresso" è in grado di anticipare integralmente, suonano come l’ennesimo campanello d’allarme sul futuro. Quattrocentosettantaquattro miliardi sono esattamente il 30 per cento del Pil, cioè del totale della ricchezza prodotta in un anno dall’intero paese. Una cifra che si avvicina sinistramente alla somma delle venti manovre economiche messe in campo negli ultimi dodici anni dai governi di turno (575,5 miliardi).
Secondo l’equipe di ricercatori guidata da Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione d’impresa alla Bocconi, da oggi al 2027 l’Italia dovrà trasformarsi in un vero e proprio cantiere, pena un’ulteriore perdita di competitività. L’elenco delle cose da fare è lungo: potenziare le reti energetiche e idriche, investire sui termovalorizzatori, sviluppare autostrade e ferrovie e rivedere la logistica, a cominciare dai porti (vedere i grafici in queste pagine).
Realisticamente si tratta di un obiettivo irraggiungibile. L’Italia non è un Paese per imprenditori, nostrani o d’importazione che siano. L’edizione 2012 del rapporto "Doing business" della Banca Mondiale parla chiaro. Nella graduatoria dei Paesi dove è più vantaggioso investire siamo al settantatreesimo posto su 184. Preceduti da Cile, Portorico e Colombia. Vediamo con il binocolo perfino il Ghana, che è avanti di nove posizioni.
Secondo il "Global competitiveness report 2012-2013" del World Economic Forum, la colpa è in primo luogo dell’inefficienza del nostro apparato burocratico. Nell’elenco delle zavorre del sistema economico nazionale seguono la pressione fiscale, la difficoltà di accesso al credito e la rigidità del mercato del lavoro. Il risultato finale l’ha messo nero su bianco la Fondazione Hume del sociologo Luca Ricolfi, che ha costruito l’"Indice H" (dove "h" sta per handicap), in base al quale un’impresa capace di produrre in Italia un utile pari a 100 sarebbe in grado di arrivare, in media, a quota 312 in un altro Paese europeo. Il fatto è che nel momento in cui diminuiscono i differenziali salariali tra le diverse aree geografiche, e comunque cala l’incidenza del costo del lavoro su quelli totali, la produttività di un Paese si gioca tutta sul campo dei cosiddetti consumi intermedi (dalla bolletta energetica ai materiali, fino ai servizi). E quelli italiani sono i più cari d’Europa, dopo i danesi.
Ma non basta. A complicare le cose sono altri due fattori: un federalismo pasticcione che porta alla continua sovrapposizione nelle competenze tra i diversi enti locali e un ecologismo troppo spesso portato all’esasperazione (vedi il box in pagina). I dati dell’ottavo rapporto dell’Osservatorio Nimby (Not in my back yard: Non nel mio cortile), che verrà presentato la prossima primavera e che "l’Espresso" ha potuto consultare in esclusiva, rivelano una crescita dei casi in cui le comunità locali contestano la realizzazione di progetti di rilevanza nazionale. Secondo le stime più aggiornate, saliranno dai 331 del 2011 a quota 366, con un incremento superiore al 10 per cento. Scorrendo la serie storica dei rapporti, due dati balzano agli occhi. Primo: venti delle opere contestate sono presenti fin dalla prima edizione del documento e dunque ferme da almeno sette anni (il record nazionale spetta alla bretella di Sassuolo, irrealizzata dopo un dibattito di oltre un quarto di secolo, per non parlare del ponte sullo Stretto di Messina). Secondo: quasi un terzo dei cantieri monitorati dall’Osservatorio alla fine viene abbandonato. Per capire quanto in Italia sia maledettamente difficile anche ciò che altrove rappresenta solo poco più che ordinaria amministrazione c’è un caso più significativo di tante statistiche. È quello della Alpiq, impegnata nella costruzione di due centrali turbogas gemelle: una in Italia, a San Severo; l’altra in Francia, a Bayet. La prima, il cui progetto risulta depositato nel 2001, è stata oggetto di sei ricorsi alla giustizia amministrativa da parte degli enti locali (tutti vinti dal costruttore) ed è entrata in esercizio nel 2011, dopo dieci anni di carte bollate. Per la seconda sono bastati quarantotto mesi.
Quella di una giustizia inefficiente e spesso chiamata in causa a sproposito da chi decide di opporsi a questa o a quell’opera, è una delle piaghe italiane. Non è un caso se siamo al centotrentatreesimo posto (stime del World Economic Forum) quanto a efficienza del quadro normativo che deve risolvere i contenziosi delle aziende. Prendiamo Vodafone Italia. Ha 850 fascicoli aperti nei tribunali di mezza Italia per l’installazione delle cosiddette stazioni radio base. Al Circeo sta cercando di trascinarla alla sbarra il proprietario di una casa di villeggiatura vicina all’albergo su cui è posizionato l’impianto del colosso delle telecomunicazioni. Cui la presunta vittima imputa perfino il mancato superamento dell’esame di accesso all’università da parte della figlia. Che sarebbe stata danneggiata nei suoi sforzi di concentrazione dal terribile marchingegno e dalle sue letali onde magnetiche.
La casistica sconfina spesso nel grottesco. Basta pensare al termovalorizzatore di Macomer, in Sardegna. La scheda riassuntiva compilata dai ricercatori di Nimby sembra una gag dei migliori Totò & Peppino. La Regione è favorevole. Ma la Provincia ha posto il veto. Il Comune interessato vorrebbe l’opera. Ma quelli limitrofi non ne vogliono sapere. I cittadini fanno il tifo per il cantiere. Ma i comitati ambientalisti sono pronti a salire sulle barricate. Un ginepraio dal quale non sarebbe riuscito a districarsi neanche il mago Houdini. E infatti il termovalorizzatore è rimasto sulla carta. Storia simile per il giacimento petrolifero di Miglianico: il ministero e la Regione Abruzzo hanno concesso l’autorizzazione all’Eni di Paolo Scaroni. La seconda ha però subito cambiato idea, facendo marcia indietro. Insomma: ieri sì, oggi no, domani chissà. Come ha imparato l’amministratore delegato di Terna, Flavio Cattaneo, nel cantiere della linea elettrica realizzata tra Matera e Santa Sofia: l’azienda è rimasta bloccata dieci anni per l’opposizione di tre Comuni (Rapolla: 4.510 abitanti; Melfi: 17.616; Barile: appena 3.012 anime), interessati da appena otto dei 200 chilometri dell’opera. Ma decisi a tutto pur di sabotarla. Missione compiuta. Ecco perché trenta anni fa l’Italia aveva una rete autostradale tre volte più lunga di quella della Spagna, che oggi vanta il 75 per cento di chilometri in più.
Se le aziende italiane finiscono nel pantano, quelle straniere sempre più spesso si tengono alla larga dal nostro Paese. Anche perché l’insieme di leggi e regolamenti cui è sottoposta da noi l’attività di un imprenditore non ha praticamente uguali nel mondo: in questo caso siamo addirittura al centoquarantesimo posto su 142 (stime World Economic Forum). Molto più indietro dell’Iran e prima solo dell’Angola e del Brasile. Sul fronte degli stranieri, l’ultimo ad alzare bandiera bianca è stato Decathlon, il gruppo francese leader nella produzione e vendita di articoli sportivi. Dopo otto anni di estenuante ping-pong con gli enti locali lombardi, ha rinunciato (almeno per ora) a investire 30 milioni di euro per un nuovo punto vendita, con tanto di parco sportivo aperto al pubblico, che avrebbe creato 250 posti di lavoro a Brugherio.
Non si tratta certo di un episodio isolato. Un rapporto elaborato dal Comitato degli investitori esteri iscritti alla Confindustria dice che tra il 2005 e il 2011 la Gran Bretagna ha attratto il 4,8 per cento del totale degli investimenti diretti all’estero (Ide) nel mondo, contro l’uno per cento dell’Italia. Secondo i ricercatori della Columbia University, tra il 2007 e il 2010 gli Ide in Italia sono scesi da 40 a 9 miliardi. I cinesi, per esempio, hanno investito da noi appena il 2,72 per cento del totale delle somme dirottate in Europa.
Il risultato è che in Italia lo stock di investimenti esteri diretti in entrata è pari al 16,4 per cento del prodotto interno lordo, contro il 48,4 per cento del Regno Unito. Non è una questione di provincialismo esterofilo: secondo Confindustria, dieci miliardi che arrivano da oltre frontiera vogliono dire lo 0,23 per cento del Pil. Ma non è tutto. Al di là dell’aspetto quantitativo, c’è, ed è ancora più rilevante, un discorso qualitativo. Basti pensare che le aziende a capitale estero sono solo lo 0,3 per cento del totale di quelle che operano in Italia, ma garantiscono poco meno di un quarto del totale delle spese nel settore Ricerca e sviluppo.
Se questo è il desolante quadro di un Paese bloccato, con il governo di Mario Monti, a parte qualche segnale positivo, non è cambiato granché. Almeno a sentire i trenta testimoni eccellenti (ancorché anonimi) interpellati dall’Osservatorio "I costi del non fare". I giudizi sono taglienti. Il 53 per cento del campione ritiene che i provvedimenti non abbiano neanche inquadrato bene i problemi da risolvere. E addirittura il 57 per cento scommette che alla fine risulteranno poco efficaci.
Anche perché, secondo uno studio del "Sole24Ore", l’83 per cento degli adempimenti previsti dalle sette leggi più importanti varate dal governo (dal cosiddetto cresci-Italia alla semplificazione) sono finora rimasti lettera morta.