Rick Stengel, l’Espresso 16/11/2012, 16 novembre 2012
LINCOLN IL GIGANTE
[Colloquio Con Steven Spielberg]
La sanguinosa guerra di secessione. La decisione rivoluzionaria di abolire la schiavitù. E la morte per mano di un fanatico sudista. Questo e molto altro racconta il film che Steven Spielberg ha dedicato ad Abraham Lincoln, leggendario presidente degli Stati Uniti. "Lincoln", che schiera attori del calibro di Sally Field, David Strathairn e Tommy Lee Jones accanto al protagonista Daniel Day-Lewis (vedi intervista nella pagina seguente) esce negli Usa in questi giorni e sarà sui nostri schermi a febbraio. E qui il regista ne racconta l’origine.
Sotto molteplici punti di vista, Lincoln è il personaggio più avvincente della storia degli Stati Uniti. Eppure il cinema e la cultura popolare non gli hanno dedicato grande attenzione. Come lo spiega?
«È un grande mistero. Ogni anno si lanciano molti palloni aerostatici che riproducono il volto di Lincoln, per motivi pubblicitari o caricaturali, per parodie e sketch del "Saturday Night Live" o per promuovere la giornata del Presidente. Il personaggio Lincoln è diventato una sorta di caricatura. Uno degli ultimi film su di lui - "Young Mr. Lincoln" (in italiano "Alba di gloria", ndr), che non vedo da una quindicina d’anni - risale agli anni Trenta e vi recitava Henry Fonda. Non capisco per quale motivo ci sia voluto così tanto tempo prima che qualcuno, a parte noi, portasse Lincoln ancora una volta sul grande schermo».
Lei incentra la vicenda del suo film su un tema affascinante, l’approvazione del Tredicesimo Emendamento della Costituzione col quale si abolì la schiavitù.
«Il Tredicesimo Emendamento era di importanza fondamentale per Lincoln, perché il presidente sapeva che se la guerra si fosse conclusa la legge non sarebbe mai stata approvata. Il Sud non poteva vivere senza schiavi. Le ostilità potevano anche cessare, ma Lincoln è sempre stato consapevole che, a meno di abolire la schiavitù prima che quella guerra terminasse, la fine del conflitto sarebbe stata soltanto una parentesi di breve durata prima della guerra successiva. Sapeva di dover riuscire nel suo intento, ma non disponeva dei voti necessari. Al centro della vicenda narrata nel nostro film c’è proprio questo, la sua battaglia per ottenere i voti necessari, per fare la cosa giusta».
Un proverbio inglese dice "Cometh the moment, cometh the man" (nell’ora decisiva, chi ha la responsabilità si rivelerà all’altezza della situazione). Crede che Lincoln sia stato decisivo in quella situazione o fu la situazione a renderlo tale?
«Lincoln aveva ambizione. Aveva una concezione magnifica del futuro dell’America. Ma non so che tipo di progressi avrebbe effettivamente compiuto senza la crisi che gli cadde addosso. Del resto, non so nemmeno che tipo di presidente sarebbe diventato Roosevelt senza la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale, né per che cosa sarebbe ricordato Kennedy se non ci fossimo trovati sull’orlo di uno sterminio nucleare durante la crisi dei missili di Cuba».
Parliamo del carattere. Lo stile della leadership di Lincoln per vari aspetti è molto lontano ed estraneo rispetto a quello che oggi apprezziamo.
«In effetti non sono sicuro che per le caratteristiche specifiche del suo carattere - le sue lunghe e profonde riflessioni, il suo sguardo puntato sul futuro, i suoi vasti orizzonti, il suo rispetto del passato, la profonda e lucida analisi interiore mentre l’intero gabinetto restava in silenzio attorno a lui, in attesa che prendesse una decisione su qualcosa - Lincoln sarebbe adatto a ricoprire una posizione di comando in questa nostra epoca adrenalinica. Già allora i quotidiani lo criticavano per questo».
Tra le altre cose, dal film veniamo a saperne di più del rapporto che Lincoln ebbe con la moglie e con il figlio minore. Era quasi sempre abbattuto e depresso. Dalla pellicola, insomma, emerge come non fosse una roccia d’uomo alta sei metri, simile alla statua di Mount Rushmore…
«Di sicuro fece tutto ciò che serviva per tenere unita la propria famiglia, non soltanto questo Paese. Due anni prima aveva perso il figlioletto Willie di undici anni, a causa della febbre tifoidea. La moglie Mary trascorse anni interi in lutto per la perdita di Willie. Nel libro di Dori Kearn Goodwin, "Team of Rivals", si narrano i due anni antecedenti a quelli narrati nel film, periodo in cui Mary si sottrasse completamente alle proprie responsabilità famigliari. Trascorreva il tempo in sedute spiritiche, cercando di entrare in contatto con Willie nell’aldilà. Lincoln portò questo peso per molto tempo».
La performance di Daniel Day-Lewis rende conto in maniera egregia di tutti questi aspetti diversi della personalità di Lincoln e lo interpreta in modo straordinario. Come è stato dirigerlo?
«Daniel ha fatto una cosa che sul momento mi è dispiaciuta: ha procrastinato di un anno l’inizio delle riprese. In realtà il suo si è rivelato un colpo da maestro, perché durante quel periodo si è preparato, svolgendo ricerche. Ha avuto un anno intero per conoscere il personaggio che doveva interpretare, per scoprire come parlava dopo averne rintracciata la voce. È entrato così bene nella parte di Lincoln, nel suo modo di fare, nella sua anima, che quando al mattino arrivavo al lavoro, trovavo Lincoln già seduto alla scrivania, e iniziavamo subito a girare le scene».
È vero che si rivolgeva a lui chiamandolo "Signor presidente"?
«Per tutta la durata delle riprese l’ho chiamato "Signor presidente", ma è stata una mia idea. Inoltre tutti i giorni ho indossato un completo, abitudine che non ho quando dirigo. Tutti indossavano abiti tipici dell’epoca: io non ho indossato abiti del Diciannovesimo secolo, ma abiti contemporanei, in ogni caso di ottima fattura, per sentirmi tutt’uno con il set. Naturalmente, eravamo perfettamente consapevoli di essere nel Ventunesimo secolo, ma una volta saliti sul set della Casa Bianca tutti quanti sentivamo di dare il nostro piccolo contributo per far rivivere quel momento così determinante della nostra storia comune».