Roberto Di Caro, l’Espresso 16/11/2012, 16 novembre 2012
OSCAR DELLE MIE BRAME
I sondaggi continuano a piazzarlo tra gli "altri", subito prima dei "non so". I giornali se ne occupano poco o nulla, specie quelli che penseresti amici. Poi però vai agli incontri di Oscar Giannino e del suo neonato movimento Fermare il declino e, ohibò, a Savona il cinema da 500 posti è zeppo da scoppiare come alle kermesse di Matteo Renzi, per giunta nell’ora in cui non lontano parlano sia Vendola sia Squinzi presidente Confindustria. A Salò, sala ricevimenti di un resort e una folla di piccoli e medi imprenditori, avvocati, ingegneri, commercialisti, professionisti e signore da tutto il bresciano, l’estroso Oscar li tiene inchiodati alle sedie nell’infame orario dalle 7 alle 9 di sera facendo ballare cifre di Pil, avanzo primario, pressione fiscale, produzione industriale («meno 30 punti dal 2007, il bilancio di una guerra persa») e decrescita demografica («più del debito pubblico mostra un Paese senza futuro perché non ha più fiducia in se stesso»): tra un affondo al centrodestra che ha «aumentato la spesa corrente, le tasse, il peso dello Stato» e uno alla casta dei burocrati ministeriali, «teste di legno che decidono la politica economica senza aver mai visto un’impresa in vita loro».
Persino a Verona, la sera che Giannino non c’è ma i suoi si ritrovano in un impianto sportivo per parlare di organizzazione, stanno lì in cento. Sfilano sul palco, uno a dire che «bisogna aggregare quante più persone possibile sorvolando sulle differenze» e molti, co n i coordinatori Franco Bocchini imprenditore e Nicola Fiorini commercialista, a ribattere che no, «se vogliamo sostituire una classe dirigente che ha fallito non possiamo allearci con un Centro del signor Caltagirone Casini» o con l’Italia futura di Montezemolo che «ci presenta un appello vago, generico, promesse elettorali di stampo dc. Bene abbiamo fatto a non firmare». Ansiosi di raggiungere le 100 mila adesioni dalle attuali 35 mila, esortano alla catena di sant’Antonio, per bocca di Amedeo Armellini imprenditore. Preoccupati che troppe cifre disaffezionino il popolo e un sovrappiù di economia tenga lontane le donne, il 24enne Enrico invoca «messaggi chiari, brevi, diretti, in pillole, una foto di Giannino e una frase accanto» e Manuela Popolizio esperta in comunicazione chiede «un approccio meno maschile, si parli anche al cuore e alla pancia, non solo al cervello». Pare così sensato che forse non lo è per niente, se non altro per ragioni di concorrenza nell’offerta politica: da Silvio a Grillo, di gente che non parla altro che alla pancia c’è la coda, il mercato è saturo. Chi va a sentire Giannino, chi compila il modulo di adesione al Manifesto steso a luglio da lui, Luigi Zingales, Michele Boldrin, Alessandro De Nicola, Sandro Brusco, Andrea Moro, Carlo Stagnaro, chi a fine incontro depone l’obolo nella cassetta (700 euro raccolti la sera di Verona, 600 a Savona ma si sa, i liguri), non è per sentirsi sciorinare battutacce a effetto. E comunque non gli riesce neppure così bene: la volta che dal palco scivola sui vizi privati di Silvio e sulla sua «cultura da caporalato da caserma» si abbozzano commenti tipo «va beh, torniamo alle cose serie».
In sunto, Giannino è torinese, 50 anni, laurea in Legge, politico nel Pri, portavoce di Giorgio La Malfa e direttore della "Voce Repubblicana", al "Foglio" come responsabile economico, al "Riformista", direttore di "Libero Mercato", pure consulente d’impresa. Fa volontariato coi malati terminali, colleziona orsi di pezza, veste stile Marianini di Lascia o raddoppia, s’è sposato un anno fa in redingote a pois blu elettrico. Conduttore di "Batti e ribatti" su RaiUno, racconta che Berlusconi lo cacciò memore del fatto che ai tempi, per conto di Cuccia, era toccato a lui dire al Cavaliere: «Lei, mai». Il suo megafono è da tre anni "La versione di Oscar", ogni mattina alle 9 su Radio24 della Confindustria: è la prima cosa che ti citano i suoi quando chiedi che cosa leggono, vedono o ascoltano.
Chi sono dunque costoro, e che cosa li muove, visto che la stragrande maggioranza di loro non s’è mai sognata in passato di fare politica attiva, a parte qualche mosca bianca che nel ’94 per un nanosecondo si fece intrigare dal Grande Imbonitore di un’immaginaria Rivoluzione liberale? «Le do i numeri della Lombardia est, di cui sono coordinatore: 45 per cento imprenditori, 14 ingegneri, 15 liberi professionisti e partite Iva, pochi medici e insegnanti, dipendenti, quasi nessuno dal pubblico impiego. Ma a Milano avvocati e commercialisti arrivano al 40 per cento. Come vede, sono persone la cui vita si svolge in regime di concorrenza con qualcun altro». Chiarissimo, Flavio Pasotti, 52 anni, aziendina meccanica nel bresciano, nel ’90 fondatore in Api nazionale del Gruppo giovani piccola e media industria: come lui tanti che incontriamo vengono da ambienti confindustriali o affini; a Verona il citato coordinatore Fiorini; nel bresciano un quarto della rete Ewmd di donne manager come Giovanna e Maddalena Novicelli; a Savona la per ora simpatizzante Gianfranca Tempestini che negli anni Ottanta fondò in Unione industriale la sezione Terziario superiore. Borghesia produttiva. Quella che ora si rimprovera (Pasotti e altri) «di aver sempre delegato ad altri l’impegno nella vita politica, per deficit di senso d’appartenenza». Beh, è venuto il momento di metterci la faccia. Se non per sé, tutto sommato qui come altrove gli astanti sono persone professionalmente risolte, piuttosto (è un leit motiv) per l’incertezza e la paura sul futuro dei figli: «Ai miei due voglio poter dire che, quando c’era da fare la cosa giusta, io ho almeno provato», proclama Michele Parodi, a Savona avvocato quarantenne affascinato dall’anarco-capitalismo di David Friedman figlio di Milton ma, dovesse spuntarla alle primarie, disposto al voto disgiunto per Renzi. Non il solo.
L’identikit sociale e professionale degli aderenti a Fermare il declino si tira appresso il dilemma su che cosa sperano di diventare: con quella base puoi parlare a molti, ma non coprire tutte le fasce e i ceti sociali. Dunque? Un movimento ascoltato ogniqualvolta svela che il re è nudo, però fuori dai giochi, pura testimonianza? «No, macché, io sono qua per vincere, non per partecipare, non è con un movimento d’opinione che si salva l’Italia», risponde Corrado Schiesaro, consulente commerciale di Verona. E lo stesso Giannino, tra un vedremo e un «forse è già troppo tardi», risponde che «sì, io sono anche disposto a immolarmi come i 600 di Balaklava, ma non è per questo che mi sono mosso». Allora un partito liberal-liberista se non di massa almeno forte abbastanza da giocarsi alleanze per governare e realizzare i punti in programma? «Certo! Per quelle idee liberali che Berlusconi ha sventolato solo per gettarle nella polvere in nome dei suoi porci comodi», è il sì convinto di Giovanni Battista Baiardo, 35 anni, avvocato savonese. Chiedi al gruppetto: alleandosi con chi? A sorpresa, ma neanche tanto, vien fuori soprattutto il nome di Matteo Renzi. Perché «conduce nel Pd un’analoga e parallela battaglia di svecchiamento». Perché «almeno un programma ce l’ha e ci si può confrontare». Perché i rispettivi headquarters si lanciano ami e attestati. O perché un quasi-endorsement al rottamatore è cosa buona e furba, «se lui vince nel Pd abbiamo un interlocutore, se lui perde i suoi elettori potrebbero votare noi».
E Grillo, che Giannino «comprende» ma dai cui folli programmi mette in guardia con veemenza, che alcuni qua avrebbero votato per disperazione, ira o sberleffo? «Per un istante ci ho pensato, ma come si fa?», risponde Silvia Enrico, 36 anni, avvocato, appena entrata insieme a Paola Bruno nel Comitato dei 7 fondatori per coordinare le reti regionali. Lei pensa a un partito vero, ora a dir poco fluido ma che vuole strutturarsi. E chiamarlo liberale «è riduttivo: lo Stato deve ridimensionarsi, ma continuare (anzi, iniziare seriamente) a fornire servizi. Non sparire». Lontani dal turboliberismo alla tea-party.