Vittorio Malagutti; Luca Piana, l’Espresso 16/11/2012, 16 novembre 2012
SPENDING REVIEW IN CASA BERLUSCONI
SPENDING REVIEW IN CASA BERLUSCONI–
Licenziare Allegri? Parliamone, ma con calma. E magari aspettiamo la prossima stagione. Perché è vero che il Milan se la passa male, ma il patron Silvio Berlusconi sta facendo la spending review a casa propria. E allora, con quattro allenatori già a libro paga, è meglio evitare di assumerne un altro, continuando a stipendiare Massimiliano Allegri fino al 2014, quando scadrà il suo contratto. Si viaggia al risparmio, quindi, nella speranza di un colpo d’ala che permetta al Milan di evitare catastrofi (calcistiche).
I tifosi si rassegnino. In casa Berlusconi si sono messi a fare i conti. I conti con la recessione, che ha dato mazzate pesanti al business pubblicitario, quello che alimenta le tv targate Mediaset. E i conti con la politica, dove la Fininvest come partito azienda è giunta ormai al capolinea per effetto del tramonto di re Silvio e del conseguente sfaldamento del Pdl. Addio leggi ad aziendam, allora. Niente più corsa degli inserzionisti pubblicitari per omaggiare a suon di spot le televisioni del politico imprenditore. Nulla sarà più come prima nel regno di Arcore. I fuoriclasse in fuga dal Milan. Villa Certosa in vendita. Resiste, per adesso, il vitalizio alle Olgettine, l’obolo di qualche migliaio di euro al mese destinato alle ragazze gradite ospiti delle ormai celebri «serate eleganti» dell’ex presidente del Consiglio. È tempo di taglia e cuci, ormai.
HOLDING IN PANNE Tra poche settimane, Berlusconi e i cinque figli si riuniranno per il tradizionale via libera ai bilanci delle sette holding di famiglia e dovranno fare a meno, per il secondo anno consecutivo, dei dividendi della Fininvest. Per carità, nessun dramma. In base ai calcoli più aggiornati, le società che stanno in cima alla catena di controllo vantano ben più di un miliardo di liquidità. Come dire che Silvio e i suoi eredi possono attingere a piene mani alle loro casse personali ancora per un bel pezzo. Il problema è un altro. I motori che hanno alimentato la crescita del gruppo si stanno raffreddando sempre di più.
La Mondadori, come gli altri editori del Paese, è alle prese con un doloroso piano di tagli e la prevista chiusura di diverse riviste. Mentre i conti, come annunciato martedì 13 novembre, segnano il passo: gli utili dei primi nove mesi sono calati del 63 per cento a 16 milioni di euro, per effetto soprattutto del crollo della pubblicità nel settore dei periodici. Lo stesso giorno anche Mediaset ha comunicato una perdita nei primi nove mesi dell’anno pari a 45 milioni di euro, un vero e proprio tracollo rispetto ai profitti di 164 milioni realizzati nello stesso periodo del 2011. Non era mai successo che l’azienda di Cologno Monzese chiudesse in rosso i primi tre trimestri dell’anno. Sui risultati dell’intero 2012 c’è grande incertezza ma è l’azienda stessa a prevedere che a fine anno le perdite si assesteranno sullo stello livello dei primi nove mesi dell’anno. Uno choc, se si pensa che per Mediaset è la prima perdita della storia. Così, prima della diffusione dei dati della trimestrale, il titolo del gruppo ha virato al ribasso di quasi il 3 per cento, avvicinando pericolosamente il minimo storico di 1,14 euro toccato lo scorso giugno. Nel giro di un anno Mediaset ha perso quasi la metà del suo valore di Borsa e, rispetto al 2009, la quotazione si è sgonfiata addirittura del 70 per cento. Bastano questi dati per intuire che analisti e investitori non nutrono grande fiducia sulle prospettive di recupero, almeno nel breve termine.
LA TV DELLE VECCHIETTE L’origine dei guai di Silvio è tutto sommato semplice. Le sue televisioni non tirano più come in passato. Stanno soffrendo quella che si potrebbe definire una vendetta del destino. Un tempo il creatore di Canale 5 poteva vantarsi di aver catturato con le sue reti non soltanto il grande pubblico ma anche quello pubblicitariamente più ghiotto: i giovani, i benestanti, le persone che chiedono sempre l’ultima novità. La Rai, è vero, ha mantenuto il primato dell’audience. Ma, come ripetevano i venditori di Publitalia, Mediaset spopolava fra le tribù metropolitane, lasciando alla tivù di Stato le vecchiette dei paesini sperduti dell’Appennino. Poco sotto mamma-Rai in termini di quote di spettatori, Mediaset si ingozzava così di pubblicità, grazie anche ai vincoli imposti alla tivù pubblica, già sovvenzionata dal canone.
Oggi, però, il ricordo di questi successi sbiadisce. I giovani si divertono con Internet e consumano meno tivù. "Striscia la notizia", tuttora uno dei programmi di maggior successo, va in onda ormai da 24 anni. E la concorrente Sky sta facendo strage di diritti nello sport, puntando al pubblico più fedele. La televisione satellitare di Rupert Murdoch ha trasmesso in esclusiva buona parte delle Olimpiadi di Londra, che la Rai è stata costretta a comprimere su una sola rete. Il prossimo anno undici Gran Premi di Formula Uno su venti saranno visibili solo su Sky. La quale, a partire dal 2014, ha strappato a Mediaset il mondiale di motociclismo, un evento capace di surclassare le gare delle monoposto nel gradimento dei giovani. Proprio il pubblico caro a Mediaset.
CERCASI SCEICCO Con Berlusconi fuori da Palazzo Chigi, la raccolta pubblicitaria del suo gruppo ha iniziato a scendere più di quanto avesse fatto nella prima fase della crisi, tra il 2008 e il 2011. Tra gennaio e settembre il calo è stato del 15 per cento rispetto a un anno prima, solo leggermente meglio della Rai, che finora era crollata più rapidamente. La tivù pubblica, ora, si sta riorganizzando: ha chiamato nuovi manager alla Sipra, la propria concessionaria di pubblicità, e annunciato il trasferimento della sede da Roma a Milano, una mossa per stare più vicino agli investitori pubblicitari e lontana dai palazzi della politica. Così, per non subire il contrattacco di un concorrente per troppo tempo azzoppato dal conflitto d’interessi di Berlusconi, Mediaset si trova costretta a reagire.
Un primo fronte è la ricerca di soci con cui condividere i business più problematici. Qui si entra nel campo delle indiscrezioni, più che dei fatti. Circolano voci, riprese anche dai mezzi d’informazione della famiglia Berlusconi, su contatti con investitori del mondo arabo per rilevare una quota del Milan. E più volte sono state pubblicate notizie di incontri per individuare un partner per i canali a pagamento di Mediaset Premium, l’esempio più evidente di come il gruppo fatichi a uscire dall’impasse.
Rispetto a Sky, Mediaset Premium è stata lanciata fin dall’inizio come un’alternativa a basso costo. È riuscita, in effetti, a fermare la crescita della tivù di Murdoch, intercettando parte del suo pubblico e costringendola a nuovi investimenti, dall’alta definizione alla trasmissione sui tablet. Il dilemma che turba gli uomini che Silvio ha messo alla guida di Mediaset, il vecchio amico Fedele Confalonieri e il figlio Pier Silvio, è che l’azienda non può impoverire troppo i propri canali tradizionali, altrimenti rischia il tracollo della pubblicità, che si concentra in gran parte su Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Allo stesso tempo, però, non può spendere più di tanto per arricchire l’offerta a pagamento delle reti Premium, che continuano a perdere un sacco di quattrini e che - se costringessero gli utenti a sottoscrivere abbonamenti più costosi - finirebbero per vanificare il proprio vantaggio competitivo rispetto a Sky. Di qui, come ha scritto a più riprese "Il Sole 24Ore", i contatti prima con Al Jazeera, colosso televisivo arabo con base a Doha, nel Qatar. E poi con i francesi di Canal Plus, i maggiori concorrenti di Murdoch in Europa.
Difficile dire che cosa ci sia di vero dietro queste indiscrezioni. E, soprattutto, se gli acquirenti interpellati abbiano lasciato una porta aperta a un investimento che, visto da fuori, presenta grandi margini d’incertezza. Acquistare una quota di minoranza in un’azienda in perdita, per di più abituata a una gestione strettamente familiare, non è infatti il massimo, anche per i tycoon arabi. Forse per questo fonti interpellate da "l’Espresso" minimizzano: «Ci sono stati incontri mirati per eventuali accordi produttivi e per uno scambio di informazioni sul sistema dei diritti televisivi del calcio», è la versione che viene fatta circolare.
ARRIVANO I PICCONATORI Insomma cavalieri bianchi in vista al momento non se ne vedono. Non ci sono sceicchi, o più semplicemente fondi di private equity internazionali, pronti a sborsare decine di milioni, o magari centinaia, per prendersi una fetta del business della pay tv targato Mediaset. E allora nel gruppo Fininvest devono arraggiarsi con quello che hanno in casa. Provando a fare meglio quello che hanno sempre fatto. Gli uomini, ecco è una questione di uomini. O meglio di manager. Gli osservatori più attenti dell’impero berlusconiano non hanno mancato di notare che nei mesi scorsi sono stati varati un paio di cambi nell’organigramma, tali da far intravedere una nuova rotta rispetto al passato.
Al vertice di Publitalia, quella che una volta era l’invincibile armata degli spot, è arrivato un manager di peso come Stefano Sala, con i gradi di amministratore delegato commerciale. Dal prossimo gennaio affiancherà il numero uno Giuliano Adreani, l’uomo che ormai dal 1994 manovra la corazzata pubblicitaria del gruppo Fininvest. Le fonti ufficiali si sono affrettate a buttare acqua sul fuoco spiegando che in realtà non cambia nulla negli assetti di vertice. Tradotto: la posizione di Adreani, che ha da poco compiuto 70 anni, non è in pericolo. Almeno per il momento.
È chiaro però che per affrontare una crisi che non ha precedenti, in cui vengono a mancare tutti i punti di riferimento, in Fininvest devono aver pensato che era indispensabile un rinforzo al vertice, un manager con l’elmetto pronto a giocarsi la carriera in una battaglia senza precedenti. Prima di tutto perchè l’ombrello protettivo della politica pare ormai non offririre più nessuna tutela. E poi, ovviamente, perché nessuno ricorda un mercato con un andamento così negativo. Nei primi nove mesi del 2012 la raccolta pubblicitaria delle tv di Mediaset è crollata del 15 per cento circa rispetto allo stesso periodo del 2011: da 1,94 a 1,65 miliardi di euro. Sono quasi 300 milioni di denaro cash che sparisce di botto alla voce ricavi. E per l’ultimo trimestre nessun analista osa prevedere che il mercato possa riprendersi in tempi rapidi.
A Sala, che comincia nel 2013, tocca fare i conti con questa situazione. E lo dovrà fare destreggiandosi tra uomini di fiducia della famiglia, fortissimi in azienda, come il capo della finanza Fulvio Pravadelli o il direttore marketing Luigi Colombo. Anche il nuovo amministratore delegato, per la verità, non è esattamente un uomo nuovo dalle parti della Fininvest. Bocconiano, esperienze a Telepiù e al gruppo Cairo, Sala arriva da un colosso internazionale della pubblicità come il gruppo Wpp ed è descritto dagli addetti ai lavori come un ex pupillo di Romano Comincioli, il vecchio sodale di Berlusconi (suo compagno di classe poi in Parlamento con Forza Italia) morto alcuni mesi fa. Con ogni probabilità nel mare magnum degli spot si navigherà a vista ancora per molti mesi. Difficile immaginare una ripresa del mercato nel corso del 2013. Nel frattempo, per stare a galla, Mediaset non potrà fare altro che affidarsi a nuovi tagli di costi.
Si giocherà sullo stesso terreno, quello dei risparmi, anche la prossima partita della Mondadori, l’altra provincia del gruppo multimediale targato Fininvest. Con il mercato pubblicitario dei periodici che viaggia in calo del 20 per cento e più e le vendite di libri che nei nove mesi del 2012 hanno perso un altro 7 per cento circa, anche la casa editrice di Segrate ha varato nelle settimane scorse una riorganizzazione manageriale che viene letta in chiave difensiva. È nata una nuova divisione periodioci affidata a Ernesto Mauri, una vecchia conoscenza del gruppo, già in predicato di raggiungere la poltrona di numero uno nel lontano 1997, quando gli venne preferito l’attuale amministratore delegato Maurizio Costa. Nel 2007 Mauri è rientrato a Segrate per poi prendere la responsabilità di Mondadori France. Adesso gli tocca la grana dei periodici. Che vuol dire, in soldoni, gestire nuovi tagli. Brutto affare. Ma nel settore libri potrebbe andare ancora peggio. Perchè quest’anno a contenere i danni si è aperto il paracadute del’incredibile successo delle "Cinquanta sfumature": 2,4 milioni di copie vendute tra giugno e settembre. Difficile che il miracolo si ripeta.