Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 16/11/2012, 16 novembre 2012
COME IBRA NESSUNO MAI?
Noi siamo in poltrona. Davanti a un computer. Facciamo clic. Riavvolgiamo una, due, dieci volte lo stupore. Un dettaglio. Un’inezia. Play. Rewind. Ibrahimovic intanto è sempre in volo. Altrove. Nel parco della luna. Che giochi in uno stadio vero o ritorni adolescente in una piazza, Zlatan lo zingaro recita da apolide. Ieri l’hanno ammirato decine di milioni di occhi. Appoggiati sull’irrealtà di una rovesciata (quella del suo quarto gol in Svezia-Inghilterra 4-2) che è al tempo stesso gesto folle, azzardo da esperto viaggiatore di commercio, certificazione dell’immortale lampo del pallone e rimpianto per aver visto l’ennesimo talento emigrare altrove. Ora Zlatan, Zlatan l’insopportabile, quello che mulina gambe e parole, reazioni, isterismi e pugni per riservare l’unica carezza della sua perenne guerra con il mondo alla sola sfera da sfiorare, dirigere, consultare, ha spostato il suo circo a Parigi. Le tende piantano paletti nella memoria e poi si trasferiscono. Il gol più bello in assoluto non esiste. Può essere casuale e immeritato, ma a contare davvero, è solo la cornice. Se Gaetano Calil illumina a Crotone, nessuno lo saprà. Meglio una partita antica. Un filmato in bianco e nero. Una finale. O un oggettivo miracolo in cui fondere storia e sport, revanche, sangue, retorica e sudore.
COSÌ la meraviglia di Ibrahimovic finirà in qualche compilation di Youtube, ma mai attraverserà le epoche come il coast to coast di Diego Maradona in Argentina-Inghilterra duellata a Città del Messico nel 1986. Vinse Diego, da solo, per 2-1. Anche Maradona segnò come Ibrahimovic tutti i gol della sua squadra, ma dietro, non aveva qualche infreddolito spettatore di Stoccolma né l’impalpabile plauso del web. Aveva l’Argentina. La mano di dio. Il destino della vendetta. Nel riconoscimento della plastica rappresentazione di un capolavoro, incidono portieri e teatri, importanza della gara e posta in gioco, gusti personali, valutazione della difficoltà e fruizione della visione. In assoluto è complicato sostenere che Ryan Giggs (nel ’ 99 in Fa Cup opposto all’Arsenal) avesse segnato un gol meno bello dell’omologo di Maradona (quasi un clone) che l’incoscienza di Roberto Pruzzo nel dicembre ’ 83 a Torino in Roma-Juve 2-2 non avesse, con un’altra rovesciata, sfidato le leggi della fisica o che il tacco di Roberto Mancini in Parma-Lazio, 1999, quelle della perfezione. Un angolo in cui infilarsi. La quadratura perfetta. L’arbitro che invece di sporcare con un fischio “annullato!” la sospensione dell’istante (accadde a Pablo Daniel Osvaldo in Roma-Lecce dello scorso anno) lascia correre. Convalida. Permette alla statistica di avanzare, alle hall of fame di avere un senso, alla nostra smania di catalogare, di incasellare l’emozione in un almanacco. C’è chi con il bello convive (Leo Messi) e con i suoi soli gol tra pallonetti, veroniche e tiri al volo può già stilare un saggio, e chi come Wayne Rooney non ha più trovato il tempo in aria.
GLI SUCCESSE in un lontano derby con il City. Una gamba dritta. L’altra flessa. Il punto di impatto calcolato al millesimo. Le teste dei difensori alla giusta distanza. Gol. Da allora riprova il gesto, imita e si applica, ma non replica. Per fortuna il calcio è materia per qualche miliardo di lucidi folli. Da Rotterdam a Timor Est. Per leggende e bagliori smarriti. Nostalgie e certezze scolpite. Piola, Eusebio, Pelé, Gigi Riva, Platini, Van Basten che supera Dasaev, Ronaldo a Torino e tutto il resto della storia. Ibrahimovic li accompagna. Ma quella volta in Puglia, Joao Paulo segnò da 60 metri. Era Bari-Bologna. Finì tanto a poco. Il portiere emiliano si chiamava Valleriani. Il ricordo dorme. E per i gol (“Scusa Ameri, qui Ciotti”) si aspettava 90 ° minuto.