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 2012  novembre 16 Venerdì calendario

COSÌ I GIGANTI DEL WEB TROVANO LE SCORCIATOIE PER NON PAGARE LE TASSE


Tasse? What’s tasse? I nomi delle aziende Usa li conosciamo tutti: Google, Apple, Amazon, Facebook, Microsoft e Cisco. Grandi multinazionali tecnologiche famose per i prodotti di successo e per i miliardi di utili che macinano, trimestre dopo trimestre. Dunque è lecito farsi delle domande: come mai in Italia sono delle Srl, società a responsabilità limitata come il ristorante sotto casa, hanno a bilancio fatturati spesso ridicoli, fanno pochissimi utili e pagano ancor meno tasse? Un esempio a bruciapelo: Amazon Italia Logistica Srl. Per gli 8 mesi di attività del 2011 ha pagato imposte sul reddito, compresi gli anticipi, per 161.101 euro. Come un singolo dirigente del settore privato. Tutto mentre le imprese italiane sono strozzate dalle imposte, con una pressione fiscale che, in percentuale sui profitti, è pari al 68,6% (dati World Bank, Rapporto Doing Business 2011), un dato che non ha eguali in tutta Europa.
Com’è possibile una cosa simile? Perché in momenti di crisi come questo nessuno interviene? Le multinazionali della tecnologia hanno abbracciato i vecchi vizi fiscali della cosiddetta “elusione legale” – cioè utilizzare tutti gli strumenti possibili, tra cui anche i paradisi fiscali – per abbattere la quota di imposte. Tutte queste aziende hanno infatti la propria residenza europea in Irlanda. Ma una cosa è parlarne a livello globale, altra è fare il calcolo di quante tasse dovrebbero essere regolarmente pagate in Italia. Noi lo abbiamo fatto, andando a vedere i bilanci.
Quello di Apple Retail Italia Srl stigmatizza involontariamente la situazione. Si legge testualmente nella relazione al bilancio chiuso al 30 settembre 2011: «L’andamento delle vendite nel corso dell’esercizio è stato molto positivo, con un forte incremento rispetto all’esercizio precedente. Tale incremento è sostanzialmente dovuto ai seguenti fattori: l’effetto dei due stores aperti a settembre 2010, che quindi hanno inciso con il loro fatturato per tutti i dodici mesi dell’esercizio; l’effetto dei nuovi cinque stores aperti nell’ultimo trimestre dell’esercizio sociale; lo sviluppo delle vendite della gamma di prodotti: a marzo 2011 c’è stato il lancio dell’iPad2 che ha registrato un notevole successo commerciale». E quindi? «L’esercizio presenta una perdita di 1,823 milioni di euro». Sembra una barzelletta: la società che produce più utili e che, secondo Wall Street, è la più capitalizzata al mondo, in Italia è in perdita. Per giustificare il risultato, il bilancio cita i costi delle aperture degli Apple Store con un meccanismo che si ripete: i costi restano nel Paese di residenza, i fatturati si involano verso l’Irlanda. Non è un problema solo italiano: su 36,7 miliardi di utili realizzati fuori dagli Stati Uniti, Apple ha pagato nello scorso esercizio 713 milioni di dollari in tutto, pari all’1,9%. Non è facile capire qual è, effettivamente, il giro di affari in Italia di Apple, ma partendo dal dato sul 2%, dovremmo moltiplicare almeno per 50 il giro d’affari. Sembra che l’innovazione richieda una buona dose di imitazione, almeno sulle strutture fiscali. E così il modello irlandese del “double dip” (chiamato così perché si basa sulla nascita di due società gemelle a Dublino) è stato ripreso negli anni dalle altre multinazionali. Google in primis. Grazie all’Irlanda, che è di fatto un paradiso fiscale legalizzato in Europa, la società di Mountain View ha denunciato utili pre-tasse per 24 milioni di euro: in tutta Europa. Il giro di affari? 12,5 miliardi.

Decine di milioni “elusi”. L’Italia è uno specchio di questa situazione: Google Italy Srl ha fatturato nel 2011 44,075 milioni, poco sopra i costi, pari a 40,747 milioni. Il risultato è che l’utile lordo pre-tasse è stato di 3,343 milioni. La società ha pagato imposte per 1,819 milioni chiudendo in utile per 1,524 milioni. Qui però è più facile stimare il giro di affari vero, cioè quello degli affari effettivamente conclusi in Italia, e calcolare l’elusione. Il mercato della pubblicità online italiano vale circa 1,2 miliardi l’anno. Google ne controlla, secondo stime condivise, circa il 50%. Dunque 600 milioni. Sottraendo i costi arriveremmo a un utile potenziale di 560 milioni che, tassato al 31,4%, darebbe 176 milioni di tasse al posto di 1,8. Stiamo parlando di oltre mezzo miliardo negli ultimi quattro anni.
La società potrebbe argomentare che ci sono costi sostenuti fuori dai confini nazionali come quello della gestione dei server e dell’energia, che per Google sono una delle voci principali. Ma in ogni caso ballerebbero decine di milioni. In Francia, secondo le stime, Google avrebbe realizzato nel 2011 un giro d’affari compreso tra 1,25 e 1,4 miliardi di euro. Alle casse dello Stato francese avrebbe invece versato poco più di 5 milioni. Si spiega così come mai sia trapelata sulla stampa la notizia di un miliardo di euro chiesto dal fisco d’Oltralpe per quattro anni.
Ma in Italia? La Guardia di Finanza aveva già aperto un dossier su Google Italy nel 2008 (si veda il box a destra). La società, contattata, fa sapere a Sette che «il nostro contributo all’economia europea è sostanziale. Infatti, paghiamo le tasse, diamo lavoro a migliaia di persone, aiutiamo centinaia di migliaia di imprese a crescere online e investiamo milioni per supportare nuove aziende tecnologiche in tutta Europa. E rispettiamo tutte le normative fiscali, in tutti i Paesi nei quali operiamo».
Anche Amazon replica: «La società paga tutte le tasse applicabili in ogni giurisdizione europea in cui opera. Amazon in Europa serve decine di milioni di clienti dai propri siti in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Spagna, spedendo prodotti in ognuna delle 27 nazioni dell’Unione Europea. Amazon ha un quartier generale europeo in Lussemburgo con centinaia di impiegati per gestire queste complesse operazioni. In Italia, è in una forte fase di investimenti: ha aperto nell’ottobre 2011 un centro di distribuzione nella provincia di Piacenza, di cui sta raddoppiando la superficie, nello scorso settembre gli uffici milanesi, e si appresta inoltre ad aprire nel 2013 a Cagliari un nuovo centro di assistenza clienti creando centinaia di posti di lavoro per l’isola». Sembra la risposta data dalla Apple al New York Times che la accusava di fare tutto il possibile per non pagare le tasse nemmeno negli Usa (il gruppo guidato da Tim Cook ha spostato la sede dalla California al Nevada per non versare le tasse corporate locali all’8,84%. D’altra parte in Nevada si paga zero).
Sembrano le risposte di una ong o una società di charity: tasse? What’s tasse? Noi diamo occupazione e aiutiamo il mercato. In realtà già a partire dal 2008, il nucleo di polizia tributaria milanese della Guardia di Finanza ha mosso dei rilievi ad alcune di queste multinazionali che in Italia operano sotto forma di società a reponsabilità limitata. I singoli nomi sono coperti dal segreto fiscale. Ma il dossier, racconta una fonte delle nucleo Fiamme Gialle, è per «evasione», e non solo elusione.
È possibile che la questione sia ora sul tavolo dell’Agenzia delle Entrate e che con le controparti si discuta di transazioni per metterci una pietra sopra. Eppure il cerchio non si chiude con il fisco. Il problema è anche la competitività, la concorrenza “sleale” che devono subire le aziende italiane che non fanno le “furbe”. «Chi merita è giusto che conquisti quote di mercato – attacca un imprenditore come Paolo Ainio, azionista di Banzai (e-commerce), liberista per definizione – ma basta che ci si possa muovere tutti ad armi pari: questa situazione costringerà anche le aziende italiane a spostare la sede per essere competitive con queste multinazionali. In due o tre anni non sarà più un rischio, ma una certezza». Anche Andrea Pezzi, presidente e fondatore di Ovo (media company) la pensa alla stessa maniera: «Gli investitori stranieri che guardano da vicino progetti digitali con un modello scalabile e facilmente esportabile, non mancano di sottolineare la necessità di spostare la sede in Paesi più adeguati. È questo il punto. La politica, anche quella attuale, non capisce o non vuole capire quello che è oggi essenziale cambiare per dare forza ai pochi settori che possono crescere nei prossimi anni».
C’è chi ha già fatto il salto oltre confine: Populis, società fondata da Luca Ascani, ha il quartier generale in Irlanda da dove controlla cinque società italiane. Tutto mentre, come scriveva un anno fa l’Irish Times – giornale che per evidenti motivi si è specializzato sulle strutture fiscali delle aziende estere – Populis Ireland veniva nominata da Deloitte la società tecnologica a maggiore crescita: +7.982% negli ultimi 5 anni. Il modello, insomma, si ripete a diversi livelli: crescita ipertrofica uguale perdita.

Il nodo dell’Iva sugli ebook. La questione della concorrenza si presenta anche in forme spesso sconosciute al consumatore finale. Prendiamo, per esempio, gli ebook. L’Iva, a differenza dei libri cartacei, è al 21%. Ma non per tutti. «Il problema è complesso», spiega Stefano Mauri, alla guida del gruppo editoriale Gems, «perché, se a vendere il prodotto al consumatore italiano è una piattaforma come Amazon che ha sede all’estero, l’Iva è al 3% sull’ebook e al 4% per il libro. E ne fruisce anche l’editore italiano. Se invece a vendere il prodotto è una piattaforma web italiana, per esempio Ibs, l’Iva che si applica sugli ebook è al 21%. Questo perché, in base alla legge, la piattaforma italiana non può porre la residenza della società all’estero perché viola le norme fiscali, mentre la multinazionale lo può fare e se ne avvantaggia». Una situazione paradossale, che finisce per favorire sempre di più i giganti stranieri dell’e-commerce. «Infatti Lussemburgo e Francia hanno sfidato le direttive comunitarie abbassando unilateralmente l’Iva sugli ebook, scelta che ha fatto avviare una procedura di infrazione contro questi due Paesi. Peraltro è assurdo che l’ebook, in quanto concepito come un servizio, abbia un’Iva diversa dal libro, ovvero al 21% che diverrà presto il 22%».
Per ovviare a questi problemi «il premier Monti dovrebbe prendere posizione sul tema e varare una legge che eviti queste storture e un ingiusto vantaggio ai giganti stranieri. Ma serve il coraggio di andare contro le normative comunitarie ancora vigenti, cosa che Monti non ha mai amato fare anche se si tratta di difendere l’Italia», conclude Mauri. Sulla residenza fiscale in Irlanda e altri Paesi “para-offshore” servirebbe un intervento a livello europeo. In realtà a Bruxelles se ne parla da tempo, ma il problema si chiama Irlanda. Senza la sua aliquota al 12,5% perderebbe tutta la propria capacità attrattiva e diventerebbe un’altra zavorra per tutto il continente. Anche se con le tasse non eluse e gli introiti per tutti forse il gioco varrebbe la candela. E, poi, in realtà spesso le aziende non pagano nemmeno quel 12,5%. Alla fine, a Dublino, restano solo i posti di lavoro. Google Ireland Holdings, per esempio, ha la sua base fiscale alle Bermuda. Fanno così anche le altre: chi alle Cayman, chi ai Caraibi. Tanto che le stesse società sono accusate anche negli Stati Uniti di elusione. Il Senato americano ha aperto di recente un’inchiesta sulle pratiche fiscali di queste aziende e la rielezione di Barack Obama alla presidenza non è una buona notizia per queste multinazionali.
Alla fine, forse, è anche una questione di decenza. Il grimaldello che permette l’elusione è offerto dal complicato intreccio di regole fiscale fuori e dentro l’Europa. «È la finanza, baby» direbbero le multinazionali. Però, si può decidere di lasciare una piccola parte del fatturato in un Paese e coprire solo i costi, oppure aumentare questa percentuale e permettere almeno alle società ospiti di realizzare investimenti sul territorio, pagare l’usura delle strade e dei servizi pubblici. Sarebbe compito dei governi trattare questa percentuale “sociale” e magari riutilizzarla per la crescita nel settore delle start up. Nel 2010 Amazon in Texas è stata condannata a pagare una multa di 269 milioni di dollari, condonata in cambio di 2.500 posti di lavoro e 200 milioni di investimenti. Se ne potrebbe parlare anche da noi?