Edoardo Vigna, Sette 16/11/2012, 16 novembre 2012
STUDIANDO LATINO HO IMPARATO ANCHE
AD ALLENARE–
[Andrea Stramaccioni ]
«Avevo vinto a sorpresa il titolo provinciale con una squadra sgangherata che giocava su un campetto in terra. Poi un altro scudetto con una società un po’ più importante, e a 26 anni è arrivata la Roma, dove ero il più giovane degli allenatori, e Bruno Conti (il mito del Mundial ’82 diventato responsabile del settore giovanile, ndr) mi dà la penultima squadra. Esordienti, classe ’94. Dopo 25 giorni – non era neanche cominciato il campionato – mi chiama nel suo ufficio e dice: “Guarda Andrea, ci ho riflettuto bene, tu per allenare questa squadra non vai bene”. E io ho pensato: “Manco un mese ho lavorato, manco uno stipendio prendo…”. Ma lui mi fa: ho deciso di darti i giovanissimi, classe ’92, che poi sono quelli che ora stanno tutti in Serie A. Insomma, mi fa saltare due squadre».
Manco lo stipendio prendo… Ci sono persone che rappresentano il nostro tempo più di altre. Anche se magari non ce ne accorgiamo subito. Prendete Andrea Stramaccioni, 36 anni. Piace. L’interismo non c’entra. Lasciate perdere la vostra squadra del cuore. Il giovane allenatore dell’Inter prescinde da un risultato (peraltro clamoroso) con la Juve. O dal fatto di essere stato l’unico “mister” post-bellico – nerazzurro o rossonero, compresi i Mourinho, i Sacchi e i Capello – ad aver vinto due derby di seguito all’esordio sulla panchina. Trascende il fatto calcistico, e non è un caso se – qui, ma non solo – lo sentirete usare termini come globalizzazione, bipartisan, labilità. Da anni ci ripetiamo che l’Italia non è un Paese per giovani, quasi crogiolandoci nell’autocommiserazione (che peraltro punisce solo i giovani...).
Con “Strama”, come lui stesso ormai firma gli autografi (con uno sgorbio finale che pare un @ e sembra studiato apposta per unire), la meglio gioventù si fa strada. Rottama, ma non a chiacchiere: a suon di risultati. E ci «mette la faccia», una delle espressioni che usa spesso. Segno di assunzione di responsabilità. Potrebbe essere più in sintonia di così con un Paese che sembra voler cambiare passo, nel momento in cui anche il premier Mario Monti “ce la mette” (la faccia, per la legge contro la corruzione)?
La verità è che Andrea Stramaccioni è un homo novus, come dicevano i romani di chi raggiungeva il successo partendo da zero, senza la spinta di potentati o origini patrizie. Messo dal presidente Massimo Moratti sulla panchina di una delle grandi del calcio mondiale dopo aver allenato “solo” squadre giovanili (con Romulea, Roma e Inter però ha vinto tutto). Quasi un sacrilegio, per i sacerdoti del pallone. «“Ce l’hai fatta dal nulla” è il complimento più bello che possono farmi», dice lui. «Nel mio piccolo – e per ora (inciso che farà spesso durante questo incontro, ndr) – il messaggio della vicenda è: anche in Italia, un allenatore che non era un giocatore famoso, o che non è un figlio d’arte, può arrivare in un grande club». Fossimo in politica, oggi, sarebbe oro.
«L’esperienza conta, se dicessi il contrario darei una risposta idiota. Io ho giocato contro allenatori, come Zeman e Ventura, che allenavano prime squadre quando non ero ancora nato! La differenza di “casistica”, fra noi, non la colmi. Però, io ho fatto la sottogavetta: quella sui campi di terra, anche se ti dà solo un vantaggio umano... Ma ho anche un altro valore aggiunto: mentre facevo l’allenatore di giovanili, ho avuto la fortuna di lavorare come osservatore per club professionistici. Il Crotone, il Parma». Andiamo bene, direte voi. «Sa cosa significa fare relazioni individuali sui calciatori? Parlarne è una cosa, scriverne è un’altra. Scripta manent. Sei costretto a lasciare nero su bianco aggettivi e verbi che connoteranno per sempre la relazione. Serviva una rielaborazione feroce. Sembrerà banale, ma questo taglio interpretativo del calciatore e della gara mi ha dato tanto come allenatore, perché molti colleghi – del settore giovanile – sono concentrati solo sulla propria squadra. Io sono uno che impara. Alla velocità della luce».
Osservatore, allenatore. Ma la storia del giovane Strama è più complessa di questo. La sua forza sta nel fatto che incarna i percorsi poco lineari delle vite del nostro tempo, in una storia profondamente italiana. Perché Andrea è un reduce. Niente buonismi. Ognuno di noi vive, nella propria esistenza, un “prima” e un “dopo”, fra lo spegnersi del sogno più bello e la sua resurrezione in forme nuove. «Sono diventato ometto un po’ prima degli altri», racconta. «Via di casa a 14 anni, a vivere in un pensionato». Giovanili del Bologna: «Oggi le regole sono più restrittive, lasciano andare lontano solo più tardi». Ma i suoi occhi si accendono ancora: «Ricordo l’odore dell’erba bagnata. Casteldebole, il centro sportivo della squadra emiliana, aveva prati veri: cosa che nella Capitale, la mia città, neanche Roma e Lazio avevano sempre. Mi sentivo d’essere diventato un giocatore importante».
Ero bravino, dice, avevo fatto le selezioni nazionali, con gente come Totti e Nesta. Nella sua voce resta l’eco della nostalgia passata da poco. «Le basi per vivere da solo a quell’età me le ha date la mia famiglia». Genitori insegnanti: padre di disegno, e poi preside, ora in pensione, mamma di italiano e latino allo Scientifico. «Un’educazione che nessuno potrà mai cancellarmi». Non puoi fare a meno di notare che Stramaccioni dà sempre la precedenza alle signore, si alza a salutare chi arriva, non lesina gentilezze agli sconosciuti. «I miei sono due persone semplici; io e mio fratello, che fa l’ingegnere ed è più piccolo ma più grosso di me, siamo cresciuti su principi chiari. Precisi. Avevamo sempre tutto ciò di cui c’era bisogno, ma senza “quell’extra”. Due stipendi normali, rispetto per tutto: il prossimo e il lavoro». E un motto: «Qualsiasi cosa fai, non importa quale sia l’ambito – calcio, musica, architettura – devi farlo col massimo impegno».
A Bologna c’è anche Sandro Tiberi, responsabile delle giovanili, che lo prende sotto l’ala. «Magari facevo il furbo, non andavo a scuola, rientravo tardi. Mi ha fatto anche piangere con i suoi rimproveri. Però mi ha tenuto nel binario». Poi il crac. Letterale, del ginocchio. Quando crolla per la terza volta, è la fine della carriera. «Certo, le tristezze sono altre». D’accordo. «Però quello è stato il passaggio, finora, più triste della mia giovane vita. È stato come se, in un colpo solo, si fosse infranto tutto. Sogni di arrivare in Serie A. Ma soprattutto, desideri giocare. Ancora adesso, dopo un po’ che tiro calci al pallone, mi si gonfia il ginocchio. Ero ingrassato tanto, 15 chili. (Un dettaglio da ricordare per quando racconterà della moglie, ndr). Ero giù. Mi ha aiutato la mia famiglia. E lo studio».
Sì, perché Stramaccioni ha continuato a frequentare il liceo. «A dire il vero mi sarei anche laureato in Giurisprudenza. È importante, sa...», sussurra con ironia. Sì, ma il Classico cosa gli ha lasciato? Versioni di latino e greco à gogo... «Il metodo. Me lo sono ritrovato nello scandire una seduta di allenamento. Se non hai metodo, nello studio, non vai avanti. Se perdi la propedeuticità delle lezioni, se non segui la spiegazione delle declinazioni, fai una fatica terribile. E poi ti insegna a esporre dei concetti, ti abitua a essere esaminato, alla dissertazione. Comunque, dopo gli infortuni, essere in corsa, con una facoltà come giurisprudenza, mi ha dato un senso». Cioè? «Quando ti dici: ho diritto Costituzionale ad aprile, poi ho Commerciale, Penale, ho le lezioni da seguire... Lo studio è importante: lo dico sempre ai miei giocatori. Sia per la vita, sia perché il calcio è così, può andarti male. La scuola dell’obbligo – che io intendo come i 5 anni delle superiori – la devi portare a termine. Dopo, puoi non essere predisposto per l’università, e per carità, ognuno ha la sua indole, ma la scuola va finita».
Il talento e Mou. I giovani calciatori di oggi, invece, diceva il suo predecessore all’Inter, Mourinho, sono viziati. “Pensano alla Ferrari”, attaccava (Balotelli). «Io non mi permetto di dire “sono viziati”, perché è un passaggio forte. Ma, in questo momento storico, hanno di sicuro più agevolazioni. Spesso, la voglia di arrivare, calcisticamente, è data da quanta fame hai. La motivazione integra il talento. Se hai un talento smisurato probabilmente arrivi comunque, ma la voglia di fare sacrifici completa le doti che ti ha dato il Padreterno, per chi ci crede, o i tuoi genitori. Di questa fame, ne vedo mediamente meno in Italia. I ragazzi non si rendono conto di avere delle fortune rispetto alla generazione precedente, anche solo rispetto alla mia. Allora, banalmente, non c’erano i telefonini e l’iPad, internet era agli albori. Oggi, un ragazzo di 16 anni senza connessione avrebbe qualche problema. E magari questo porta ognuno a una “globalizzazione” differente… Però io ho un ricordo bellissimo: al pensionato del Bologna, finito l’allenamento e la cena, scendevamo sul campo a piedi nudi e calciavamo a chi prendeva la traversa dal limite dell’area, facevamo le scommesse, ed esultavamo da soli. Altro che videogiochi!».
Esempi positivi per questi giovani? «Javier Zanetti. Quando giocavo, e io mi ritenevo uno professionale, una volta davo 10 e una volta davo 5. Lui è al di là dell’umano: il primo ad arrivare, alla fine di ogni allenamento si ferma a fare ginnastiche preventive e posturali. Questo, secondo me, è il segreto della sua capacità di giocare, dopo 20 anni di Inter, ogni partita come se fosse la prima o l’ultima». Ma di Zanetti sembra essercene uno solo… «Se un giovane s’impegna negli allenamenti, dà la giusta importanza allo studio, e poi preferisce stare su internet due ore la sera, è la sua vita». Difficile da capire per chi non ha nemmeno un profilo Facebook o Twitter. «Mai avuto neppure la tentazione. Un giorno – è stato troppo bello! – mia moglie Dalila mi dice: ma che, mi hai chiesto l’amicizia? Era un Andrea Stramaccioni fake (falso, ndr) che la voleva tra i contatti! Lei dice che sono vecchio dentro...».
Dottor e Mister. Qualche dubbio viene, quando confessa che il suo giocatore-mito è Maradona (mica Messi), che ama la musica dei Queen – scherza ricordando i Cugini di Campagna –, quando cita la poltrona di Fantozzi o, posando per il fotografo, declama
“modello Giuditta!” alla maniera del piccolo diavolo Benigni (che è di 24 anni fa), e prova un’espressione “alla James Dean”. C’è poi un “difetto” più arcaico della permalosità (che lui stesso si riconosce)? E che dire dell’uso di una parola antica come “terzino” (oggi tutti giocano con gli “esterni bassi”). E quando ti racconta di come tratta i “suoi” ragazzi? «Ho sempre detto loro: non sono né tuo papà, né tuo fratello. Ma quando mi rincontrerai, tra qualche anno, potrai sempre dire che magari non capivo un c... di calcio, non potrai mai dire che non ti ho detto in faccia ciò che penso. E questo, secondo me, è un mio piccolo segreto». Scontri? «Ho trattato sempre tutti con modi diretti in un involucro di umiltà. Con me ha pagato, per ora. Anche all’Inter, con giocatori quasi coetanei. Con Cassano parliamo la stessa lingua, quella della strada, quella con cui si guadagna il rispetto sotto casa. Che non si ottiene perché hai i soldi o la bella macchina, ma per quello che sei come persona». Funziona. Per ora (con Fantantonio vale anche di più).
Avvocato Stramaccioni, un’arringa niente male. «All’università avevo una passione per il diritto Penale. Non avessi sfondato nel calcio, ammesso che si possa dire che sia così, il mio sogno sarebbe stato quello di fare il legale difensore (come da giocatore…, ndr), ho cominciato la pratica in uno studio legale. Ben consapevole che si tratta di una carriera lunga, difficile. Ma la passione c’era: all’inizio avevo scelto una tesi sulla “capacità giuridica fino al delitto di Cogne”». Innocentista o colpevolista? «Non c’è nessun dubbio che l’imputata fosse colpevole». Poi, però, il calcio è rientrato di prepotenza nella sua vita, dottor Strama (che, come si vede, non si sdoppia mai da mister Strama). Ora “mette la faccia” per difendere i “ragazzi”. «L’allenatore deve gestire tutto. Ha una mediaticità di rappresentanza. È una sorta di comandante della nave, parla prima e dopo la partita. Le domande che ti fanno sembrano sempre cercare un capro espiatorio. Ma io non mi giustifico mai: non mi sottraggo alla responsabilità di motivare le scelte. Dico: prendetevela con me. Uso la stessa espressione quando litigo con qualcuno».
Come dire, sono qua. Da uomo a uomo. Però, in questa storia molto italiana (di oggi) non poteva mancare la mamma. «Mi ha dato un grosso aiuto, come spesso accade. Lei faceva: “giurisprudenza+calcio= procuratore”, e rompeva le scatole al mio ex procuratore affinché mi trovasse un lavoro. Non mi andava giù, era la commistione di due mondi per me autonomi, che “intorbidiva” entrambi. Finché lui le ha detto: è un bravo ragazzo, giocava bene ed è intelligente. Perché non lo fai insegnare ai ragazzi? E mi indirizzò a questa sperduta scuola calcio di Monte Sacro, un quartiere di borgata romano, l’AZ Sport». Campetto di terra, ovviamente… «Ovviamente! Mi diedero 200 euro al mese di rimborso, perché venivo da San Giovanni e dovevo attraversare Roma alle sei del pomeriggio – quando ci vorrebbe l’elicottero! –: classe ’85, allievi sperimentali, avevamo 10 calciatori e la metà dei palloni. Guarda che siamo ad agosto, che ti aspetti!, fu il commento del presidente. Io, che l’ultimo campo che avevo calcato era il Dall’Ara di Bologna, pensai: mi sembra di sognare! Non la conoscevo ancora, ma questa locuzione milanese sarebbe stata perfetta. L’anno dopo, la vittoria di questa squadra sconosciuta destò l’attenzione di tutti».
Il gusto della sfida. È una costante, nella vita di Stramaccioni, l’avvio in salita, la corsa controcorrente. Basta verificare con un paio di domande. La squadra più forte? «L’Olimpyque Marsiglia della mia adolescenza. Avrebbe scritto un triennio entusiasmante, vincendo la Coppa dei Campioni, ma allora aveva giocatori ancora poco conosciuti: Barthez, Dechamps, Chris Waddle. Coi miei amici sostenevo che questa squadra avrebbe potuto battere chiunque. Incontrò il Milan, e lo mise in grande difficoltà a San Siro; al ritorno, lo sconfisse con una tattica capolavoro». Riproviamo. Attrice preferita? «Monica Bellucci: all’inizio non era capace, poi è diventata brava. Stimo la vendicatrice di Kill Bill, Uma Thurman». Aggiunge: Charlize Theron, l’ex modella arrivata all’Oscar. «Il fatto è che, in certe cose, penso di essere montato al contrario: i consigli non mi buttano giù, mi confermano ad andare avanti». Come quando ha accettato l’Inter. «Di’ di no, per il tuo bene!», gli dicevano in molti, mentre Moratti maturava la promozione di Strama. «In quello spogliatoio non durerai 20 minuti...» era la più benevola delle “cassandrate”. Inutile negare – l’abbiamo pensato tutti. «Stessa storia con Cassano. Mai ricevuto tanti consigli, anche da persone vicine: “Non prenderlo, le ‘cassanate’ saranno la tua fine”. Ma se sono convinto di una cosa, il parere contrario mi fa pensare che “io vedo cose che altri non vedono”».
Mistico. Ma è questo che fa la differenza fra gli allenatori? «No. Punto uno: a parità di idee valide, cosa comunque non scontata», sorride, «mi sento di tirare fuori questa sorta di equazione: è migliore l’allenatore che riesce a trasmetterle alla squadra. Lo dico sempre ai miei calciatori: posso avere tutte le idee del mondo, ma se non riesco a trasferirvele, rimane che io ce le ho – e magari mi trovate fra un po’ a far lezione a Coverciano (dove si preparano gli allenatori italiani, ndr)! –, però non vanno in campo». Un modello? «Mourinho, il precursore da questo
punto di vista». Un fantasma per tutti quelli che passano dalla panchina dell’Inter. Si allunga ogni giorno la lista di chi vuole paragonarla a lui. «Dal punto di vista didattico non ho mai avuto la fortuna di vederlo allenare: è come se avessi visto la torta confezionata, non come l’ha fatta. Ho letto anche il suo libro, ma non è la stessa cosa».
Segreti da allenatore. Seconda qualità che conta per un “mister”? «Che poi è la principale: l’intelligenza di capire cosa puoi applicare, e quanto, delle tue idee, in relazione al materiale calcistico che hai. Questo è il segreto, tutto qua. Altrimenti un allenatore, il migliore del mondo, vince con tutte le squadre in cui va: invece non è così». Ma non c’è proprio nulla che si possa assimilare? «La gestione del calciatore. Che per me è forse la differenza fondamentale tra giovanili e prima squadra: da una parte hai a che fare con una omogeneità di calciatori per fascia di età, dall’altra hai un giocatore di 34 anni e uno di 20, che non possono allenarsi allo stesso modo per carichi di lavoro, recuperi, lavori integrativi. E non è che trovi il manuale di Zanetti o del 18enne della Primavera».
Preparazione personalizzata, gestione mediatica, schemi. E il colpo d’ala del mister? «L’intuizione fortunata sui cambiamenti di ruolo di alcuni giocatori è stato un denominatore comune della mia vita professionale. Tutto è cominciato in quella prima squadra di periferia. C’era questo ragazzo, Matteo Petroni, che giocava terzino (!) destro ed era stato preso da una delle società dilettanti capitoline che stanno sotto Roma e Lazio. Dopo un po’ era stato scartato. Si presentava al campo ad accompagnare il fratellino e diceva: nun gioco più, tanto c’ho provato... e io, co ’sti chiari de luna, gli dissi: vieni a fare qualche allenamento con noi, te tieni in forma, te rifai gli addominali (il romanesco fa parte della scenetta, ndr). Matteo mi guardava, avevo solo 23 anni… però cominciò ad allenarsi. Faceva continuamente gol. Da tutte le parti, gol. Gli dicevo: ma te sei sicuro che sei un terzino? E lui rispondeva: mister, nun me di’ gnente, io ho sempre giocato lì, non ce l’ho fatta perché tutti gli altri sono raccomandati… Un giorno lo prendo e gli dico: il centravanti s’è fatto male, gioca tu lì. Morale: 46 gol, noi vinciamo, lui è capocannoniere e alla fine è andato alla Ternana».
Giochi di ruolo. L’ha fatto con la Primavera, non stupisce vederlo provare in prima squadra. «Ho il mio carattere. E riesco sempre a essere me stesso, cambiando anche salotti. Per me è un pregio: la persona che hai di fronte può apprezzare o meno, ma capisce che sei vero. Credo sia piaciuto anche a Moratti. Mi chiamò e siamo stati due ore a parlare, io, lui, il figlio e i due direttori. Mi ha messo il blocco davanti: “Mi dica tutto ciò che pensa dell’Inter”. Ho risposto: premesso che potrei parlare a lungo del campionato primavera che sto facendo, con sincerità – non sono qui a venderle un prodotto – devo dirle che non ho visto tante volte la prima squadra, spesso giochiamo in concomitanza. E non sono il tipo che si rivede la partita su Sky. Lui ha concluso: non m’importa di ciò che dicono gli altri, sei il nuovo allenatore». La mattina dopo, primo allenamento. Come si gestisce la paura, inevitabile in questi casi? «Il consiglio più bello che mi dà mia moglie prima delle partite è: fidati del tuo istinto, è ciò che ti ha portato fin qui». Poi Strama non resiste alla battuta: «Con Dalila scherzo sempre: se va male, un posto nel New Jersey penso di trovarlo…».
Il giovane (a questo punto qualche dubbio viene) coach interista è in sintonia con il Paese. Anche nella disillusione verso la politica. «La seguo. Fin dal liceo. Poi però l’interesse è andato scemando, man mano che la commistione tra destra e sinistra è cresciuta. Il gioco bipartisan, gli incroci, le alleanze, a un certo punto hanno tolto identità a entrambe...». Ma anche il calcio non è tutto da amare. «Adoro il contrasto, il gol, il prato, i tifosi. Mi ha sempre dato fastidio la labilità dei giudizi, pure quando ero semplice consumatore davanti alla tv. Anche se poi magari il segreto del pallone è che pure mia nonna può dire questo non è bbono. Tranne Messi, di qualsiasi giocatore, dopo 10 partite che sbaglia, si comincia a dire: è finito. Nel basket ci sono le statistiche, un metro oggettivo. Ecco perché il calcio non sfonda in America: la prestazione è difficilmente quantificabile. Nel football che dati usi? I passaggi riusciti? Magari ne hai fatti 50 al giocatore dietro!». Per un allenatore è anche peggio. Non fai in tempo a sederti in panchina e già dicono che la formazione te la fa il capitano Zanetti, un senatore come Cambiasso... «E io faccio un mix, tipo sondaggione!». Vabbè. «Quando sei sicuro di te, ascoltare è la cosa più intelligente, non farlo è arroganza che porta danni. Io mi fido del mio staff, dei giocatori. Che non vuol dire che uno ti dice “gioco io, quell’altro no”. Vuol dire: mister, dobbiamo stare attenti qui a sinistra o a destra. Poi se sono convinto della mia idea, quella resta».
Perché alla sfida non ci si sottrae. Nella sfida ci si mette la faccia. Come nella conquista che oggi è il cuore della sua vita. «Avevo 33 anni, ero nella fase della vita in cui uno si convince che non esiste più la donna ideale. La famosa metà della mela. Avevo conosciuto tantissime ragazze, concludendo che un uomo si deve accontentare. Tutte quelle che conoscevo magari erano belle ma vuote, e se profonde non mi trasmettevano niente». Poi è arrivata Dalila, romana di Monte Mario, oggi sua moglie. Che Stramaccioni accompagna («Pazientemente», garantisce lei) anche a fare shopping. «Gli avvocati del mio studio avevano insistito per farmi giocare un triangolare a calciotto con i legali della Regione e una sezione del Tribunale. Alla fine, alzo gli occhi e vedo questa splendida ragazza – il mio tipo preciso – che faceva l’hostess a una premiazione. Inavvicinabile, troppa gente intorno. Quando chiedo informazioni, mi viene detto di lasciar perdere: è corteggiatissima, però ha una storia importante. Già questo avrebbe ammazzato un cavallo, ma aggiungono: sta partendo, passerà un anno in Spagna». Ormai che conoscete Strama pensate che si sia scoraggiato? «Volevo solo vedere se aveva anche qualcosa dentro... Un mio conoscente l’approccia e lei gli dà la mia risposta “ideale”: sono fidanzata. Lui insiste, le dice: “Guarda che Andrea è un bravo ragazzo, e poi è bello”. Alla fine lei, scocciata, dice: “Ok, vediamolo”. Cercano su Google, e come in un film, qual è la prima foto che appare? Quella in cui pesavo 15 chili di troppo. Il mio amico mi chiama la sera: lascia perdere, game over! Ma che ha detto di me?, chiedo. “È stata gentile: un tipo”. Dovevo risolvere almeno la figuraccia. Gli ho chiesto di inoltrarle un lungo messaggio: mi scusavo per essere stato goffo e invadente, ma spiegavo che nell’epoca dei rapporti virtuali non c’è niente di male nel dire a una ragazza che è bella e “metterci la faccia”. Alla fine cede e mi dà il numero». Un anno insieme e uno di matrimonio. Dopo un anno, Strama “vince” sempre. Per ora, aggiungerebbe, di sicuro, scaramantico.
Edoardo Vigna