Nigel Farndale, Panorama 15/11/2012, 15 novembre 2012
LA MIA PENSIONE LONTANO DA GUERRE, POTERE E SCANDALI
Colin Powell arriva al suo ufficio, situato in una zona di Washington D.C. immersa nel verde, rombando su una macchina sportiva color argento: una Corvette V8 da 6 litri nuova di zecca. In un angolo del suo ufficio c’è una sella del XIX secolo, di quelle utilizzate dai Buffalo soldiers, il soprannome del reggimento di cavalleria prevalentemente composto da soldati di colore. Alle pareti sono appese alcune fotografie che ritraggono Powell con i quattro presidenti che ha servito: Ronald Reagan, George Bush padre, Bill Clinton e George Bush jr. Le osservo con attenzione, poi guardo in basso e vedo la Corvette parcheggiata nel cortile. Sono sorpreso dal fatto che Powell non abbia né autista né guardie del corpo. «No, mi sono liberato della squadra addetta alla mia sicurezza esattamente 6 minuti dopo che Condi ha preso il mio posto al dipartimento di Stato». È accaduto nel 2005, quando Condoleezza Rice è divenuta segretario di Stato, la seconda persona di colore della storia ad assumere questo incarico; la prima era stata Powell. «La squadra era composta da circa 20 addetti» prosegue «e tenevano d’occhio l’intera strada. I miei vicini ne erano felicissimi: era il luogo più sicuro di tutto il Nord Virginia. Ma io volevo poter guidare da solo la mia macchina, quindi ho detto loro: ragazzi, siete stati splendidi. Siete tutti sollevati dai vostri incarichi». E quando si reca in luoghi pubblici? «Quando devo prendere un aereo, vado in aeroporto in giacca a vento e cappellino da baseball; mi metto in fila e parlo con la gente. Mi piace anche sedermi a guardare le persone che vanno vengono e sono giunto alla conclusione che la maggior parte degli americani dovrebbe mettersi a dieta e imparare cosa indossare nelle diverse occasioni».
A 75 anni Powell ha ancora un fisico in ponente, 1 metro e 88 cm di altezza e spalle larghe. E la gente lo riconosce ancora. «Ero di ritorno dalla Giamaica» ricorda «e una coppia di tedeschi stava uscendo dall’ascensore quando un uomo ha detto a sua moglie "Guarda, Frieda, guarda! Lo sai chi è quello? Il generale Schwarzkopf». Il suo nuovo libro è pieno di questo tipo di autoironia. Intitolato It worked for me: in life and leadership (Per me ha funzionato: nella vita e nella leadership ndt), è uno strano miscuglio di pensieri profondi e aspetti bizzarri, come il suo hobby d riparare vecchie Volvo guaste. «Beh, in effetti io sono un tipo fuori dal comune» sottolinea «Nella mia prima autobiografia ho dovuto parlare delle mie esperienze in qualità di capo dello stato maggiore congiunto e consigliere per la sicurezza nazionale, ma quando eravamo a metà dell’opera, il mio collaboratore mi ha guardato e ha detto: "Ma lo sai quanto è noiosa questa roba?". Quindi nel nuovo libro ho messo più aspetti curiosi e insoliti».
In realtà Powell sa benissimo che la sua precedente autobiografia, pubblicata nel 1996, era tutt’altro che noiosa e che proprio per questo è divenuta un bestseller internazionale. Non solo raccontava dei tempi in cui era stato un eroe di guerra in Vietnam e del suo ruolo di primo piano nella prima guerra del Golfo (era il superiore di Norman Schwarzkopf), ma mostrava anche come rappresentasse l’incarnazione del sogno americano, partendo da un’infanzia modesta nel Bronx per approdare a una carriera sfolgorante, prima nell’esercito e poi in politica.
Il suo nuovo libro, più che riprendere la storia da dove era arrivata, si serve di aneddoti relativi alla sua camera per spiegare le sue teorie sulla leadership, una delle quali ritiene che ogni organizzazione dovrebbe accertarsi che i propri dipendenti non abbiamo paura di comunicare le brutte notizie. Un valido esempio? Nessuno osò mostrare a Donald Rumsfeld le immagini delle torture nella prigione di Abu Ghraib, il che fece sì che il problema si aggravasse.
Domando se un altro esempio potrebbe essere il fatto che, nei giorni che precedettero il suo «famigerato» (il termine è suo) discorso all’Onu del 2003, i capi dell’intelligence americana non gli avessero esposto i loro dubbi su quanto loro stessi avevano dichiarato riguardo alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Questo, per Powell, è un argomento scomodo. Lo ha definito una macchia nel suo curriculum. Sua moglie Alma si è spinta oltre, affermando che Colin è stato «sfruttato cinicamente» dalla Casa Bianca. La sua popolarità era enorme e i sondaggi lo indicavano come il politico americano che godeva della maggiore fiducia. All’interno dell’intelligence si sapeva che le informazioni che Powell era in procinto di rivelare erano dubbie, ma nessuno osò confessarglielo.
È andata cosi?
Non solo non lo confessarono a me, ma non lo dissero neppure ai loro superiori dell’intelligence. In seguito alcuni agenti sostennero di avere cercato di informare i loro superiori, ma questi affermano il contrario. Tutti noi (io, il presidente, i nostri amici inglesi) prendemmo per buono quello che ci veniva detto, senza sapere che c’erano dei seri punti deboli.
Occorre coraggio per confessare al proprio capo di non sapere qualcosa.
Sì, ci vuole del coraggio perché un giovane si faccia avanti sapendo che la sua testa salterà se non mi piace quello che ha da dirmi. Tuttavia, bisogna creare un ambiente in cui, se i tuoi collaboratori sono più informati di te su un argomento, te lo verranno a dire. Dimmi quello che sai e non lasciarti intimidire se mi metto a discutere con te. Lo sto facendo per tirarti fuori tutto quanto riesco, dopodiché prenderò una decisione.
Nel suo libro scrive che in guerra un generale deve fidarsi del proprio istinto. In quell’occasione, nel 2003, il suo istinto l’ha ingannato al punto da non permettergli di porre le domande giuste? Mi riferisco in particolare alla questione della fonte unica, l’agente conosciuto come Curveball che dichiarò che Saddam disponeva di laboratori mobili per nascondere le armi biologiche.
All’epoca del mio discorso non sapevo di Curveball, non ero al corrente del fatto che si trattasse di un’unica fonte.
Le avevano detto che le informazioni non provenivano da un’unica fonte?
Esattamente. Mi dissero che c’erano più fonti. Non l’avrei accettato, se si fosse trattato solo di un tizio in un campo di detenzione tedesco. Ho messo in discussione molte delle cose presenti nel documento di base dell’intelligence inviato al Congresso 4 mesi prima del mio discorso, non perché fossero sbagliate, ma perché erano frutto di un’unica testimonianza o solo perché non sembravano corrette. Ma per quanto riguarda il materiale che ho effettivamente utilizzato per il discorso alle Nazioni Unite, c’era l’appoggio di tutte le alte cariche del governo, compreso il Congresso. Fu 4 mesi dopo che il presidente mi disse: «Ok, prendi il documento dell’intelligence e ricavane una presentazione da fare all’Onu».
Non le era stato concesso tempo a sufficienza per svolgere il compito adeguatamente o piuttosto vi fu costretto?
Ci toccò redigere la presentazione in 4 giorni. La cosa non mi preoccupava perché avevo esaminato l’intero documento dell’intelligence; pensavo che avremmo potuto farcela. Onestamente, gran parte di quel materiale resisterà alla prova del tempo. Saddam era uno che usava davvero quel tipo di tecnologia contro la sua stessa gente e contro gli iraniani e nella mente di tutti albergavano scarsi dubbi sul fatto che se l’Onu avesse disposto la cessazione delle sanzioni, Saddam sarebbe rientrato immediatamente in gioco.
Lei lo sapeva meglio di chiunque altro grazie al ruolo svolto nella prima guerra del Golfo, quando non vi erano dubbi che Saddam fosse in possesso di armi chimiche.
Sì, ne aveva a tonnellate. A tutt’oggi dove siano finite rimane un mistero.
Crede ancora che siano sepolte da qualche parte nel deserto iracheno?
Alcuni teorici della cospirazione lo pensano ancora, altri indicano la Siria, ma è una scusa. Io non vedo nulla, e non ho visto nulla negli ultimi 9 anni, che suggerisca che le armi sono state trasferite in Siria o sepolte sotto la sabbia, anche se dopo la prima guerra del Golfo abbiamo ritrovato dei jet interrati. Il fatto è che non esisteva alcun programma. E bisogna ricordare che la questione che dibattevamo non era quella di un loro potenziale utilizzo, ma del fatto che le possedessero.
Lei appoggiò il presidente?
In verità, la mia opinione era che avremmo dovuto vedere se esisteva un modo per risolvere questo problema delle armi di distruzione di massa percorrendo vie diplomatiche e pacifiche. Lavorai su questa proposta con il presidente e lui l’accettò. Si recò all’Onu e chiese che venisse passata una risoluzione per attuarla. Ma Saddam fallì la prima prova fornendoci documenti privi di valore in risposta alla nostra richiesta di mostrarci ciò che aveva in mano. Quando non accolse la nostra richiesta, e il presidente e Tony Blair decisero che avremmo dovuto procedere con un intervento militare, io diedi il mio pieno appoggio, e nelle registrazioni del discorso tenuto all’Onu o in occasioni successive non troverete nulla che io possa avere detto contro tale linea d’azione. Powell mi interrompe prima ancora che io abbia finito di pronunciare la domanda successiva. «Se questo è tutto ciò di cui intende parlare, possiamo anche fermarci qui». Messaggio recepito, cambiamo argomento.
In che misura il periodo trascorso in Vietnam l’ha indirizzato verso l’impegno in campo militare?
Beh, è stata la mia guerra. Ho trascorso due anni laggiù, all’inizio quando sembrava un’impresa così nobile, e alla fine quando non lo sembrava più così tanto. Sono un soldato professionista che ha studiato la guerra durante tutta la vita, dagli antichi filosofi a Sun Tzu, a von Clausewitz, e la mia idea è che si debba sempre avere un chiaro obiettivo politico prima di decidere di ricorrere al rimedio estremo, cioè la forza, che uccide le persone: non solo il nemico, ma anche la propria gente e i civili innocenti che vengono coinvolti nel conflitto.
È per questo motivo che la chiamano il «guerriero riluttante»?
Lo sono, ci può scommettere. Ho visto la guerra. Ho condotto battaglie e ritengo che i nostri leader politici civili abbiano l’obbligo di riflettere al meglio sulle questioni, prendendosi tutto il tempo necessario prima di dovere giungere a una decisione e valutare le conseguenze.
Quali sono state le sue riflessioni nel 1996, quando tutti la esortavano a candidarsi alla presidenza? I sondaggi lo davano vincente con altissimi margini e anche Bill Clinton, che alla fine vinse, affermava che l’unico uomo con il quale non desiderava confrontarsi era Powell. Non se la sentiva?
Venivano fatte un sacco di congetture e io stupidamente dichiarai: «Sono talmente in tanti a spingermi in questa direzione che dovrò farci un pensiero». Questo fece diventare la questione ancora più scottante, ma dopo 6 settimane in cui non una sola mattina mi ero alzato dicendo a me stesso: questo è ciò che voglio fare, mi resi conto di non possedere per questo incarico quella passione che non può mancare a un potenziale presidente. Semplicemente non faceva per me. Decisi che le voci erano ormai fuori controllo e che dovevo metterle a tacere. Mia moglie mi guardò e chiese: «Perché ci hai messo così tanto?». Era stata coinvolta nella vicenda perché soffriva di depressione e la rivista Time ci aveva fatto un gran chiasso.
Nessun rimpianto?
No, nemmeno uno.
Neppure nel giorno in cui Obama è diventato il primo presidente di colore? Non ha provato un po’ di malinconia?
No, per nulla. Ho l’abitudine di prendere una decisione e poi passare oltre.
Forse non era un animale politico, ma un soldato nato.
Sì, la struttura, la disciplina e il cameratismo dell’esercito mi si confacevano. Non potete immaginare che cosa significasse nel 1958, 4 anni dopo lo smantellamento dell’ultima unità di colore, essere un ragazzino nero ed entrare nell’esercito. Nel Sud esisteva ancora la segregazione. Nel paese c’era ancora chi sosteneva con convinzione che le persone di colore non potessero divenire bravi soldati. Ma esisteva anche un’altra corrente che affermava che bisognava farci spazio, che ci dovevano concedere un’opportunità. Ritengo di essere stato penalizzato in un senso ma avvantaggiato in un altro e la mia opinione è che, qualunque sia il vantaggio che ti viene offerto, lo devi afferrare e non sentirti in colpa al riguardo perché per 200 anni la gente di colore non ha ricevuto nulla.
Se i suoi genitori (che prima di divenire americani naturalizzati erano cittadini britannici) dalla Giamaica si fossero imbarcati su una nave diretta a Portsmouth, invece che a New York, non avrebbe potuto ambire a un grado superiore a sergente.
Vero, a tutt’oggi l’esercito britannico non ha un generale di colore.
Pensa che a sua moglie Alma sarebbe importato se la sua carriera si fosse fermata al grado di tenente colonnello?
Le alte cariche comportano tutta una serie di corollari: lavorare fino a tardi, assicurarsi che i figli si tengano alla larga dai guai, cosa che fortunatamente i miei hanno fatto. Powell possiede anche doti di narratore, e persino i suoi nemici non possono fare a meno di riconoscere il suo fondamentale senso morale e il suo fascino: «Una brava persona in una cattiva amministrazione» è il commento ricorrente. Ha una risata leggermente ansimante che conquista e l’abitudine un po’ meno gradevole di compiacersi dei propri aneddoti popolari, provati e riprovati in occasione dei suoi impegni come oratore. Ama considerarsi un tipo originale anche come capo. «Durante gli incontri a volte mi piaceva fare un po’ lo sciocco, ma la gente sapeva che c’era anche dell’altro. Se devo, posso farti piangere, posso diventare cattivo, posso rovinarti la giornata. Tuttavia ho scoperto che ottengo risultati migliori se cerco di essere affabile. Oltre a essere rigoroso, a fissare standard elevati e a perdonare gli errori, mi piace anche divertirmi.
Tra lei e Ronald Reagan esisteva chiaramente un’intesa speciale, ma ho la sensazione che non fosse lo stesso con gli altri presidenti.
Andavo d’accordo con tutti loro. Ognuno aveva un proprio stile. Il mio compito come membro dello staff è quello di adeguarmi al loro stile, non di aspettarmi che siano loro ad adeguarsi al mio.
In passato ha dichiarato di trovare irritante la nervosa impazienza di George W. Bush, così come la sua tendenza a interrompere chiunque. E cosa ne pensa della sua abitudine di sbarrare la porta se arrivava in ritardo a un incontro?
Lo faceva con tutti, persino con Karl Rove. Si trattava più di uno scherzo che di un tentativo di umiliarmi.
Come è stato passare dallo svolgere uno dei lavori più stressanti del mondo a essere un normale cittadino?
Ti staccano il telefono, le guardie del corpo se ne vanno e non hai più il tuo aereo privato. Devi trasformarti e diventare qualcosa d’altro. E questo inizia a casa. Ero seduto in casa in compagnia di mia moglie e le ho detto: «Cara, questo è il primo giorno del resto della nostra vita. Non uscirò più di casa alle 5.30 del mattino». Alma è rimasta un attimo immobile. Poi l’ho udita borbottare sottovoce: «Questo sciocco non sa come abbiamo fatto a rimanere sposati per 50 anni».
Ora dorme meglio?
Non perdo mai l’occasione di fare un sonnellino nel pomeriggio. Mi sto avviando verso i 76 anni e dopo pranzo cerco sempre di riposare per 20 minuti. L’ora concessa per l’intervista è finita. Gli propongo, per concludere, di confidarmi chi ha appoggiato alle elezioni. Fa una risata profonda. «Non sono obbligato a dichiarare per chi voto perché sono un privato cittadino. Tutto ciò che devo fare è votare. Comunque nel 2008 ho votato per Barack Obama. Nei precedenti 20 anni ho votato repubblicano.