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 2012  novembre 16 Venerdì calendario

UN ECONOMISTA ALLA PROVA DELE RIFORME


Nel gennaio del 1992 l’Italia stava per entrare nell’ultima grande crisi finanziaria prima di quella ancora aperta. Allora Mario Monti era un professore di Economia politica dell’Università Bocconi, lontano dai palazzi della politica. In un editoriale sul «Corriere della Sera», in quell’inverno di quiete illusoria, Monti tenta un bilancio sullo stato del Paese. «Oggi è assente la riflessione su "dove saremo" tra dieci o vent’anni» scrive. E si chiede, quanto a quel futuro che stiamo vivendo: «Quale sarà, allora, la posizione dell’Italia nella competizione industriale? Quanta delocalizzazione di attività produttive avrà luogo verso altri Paesi? Quanta parte delle attività produttive che si svolgeranno in Italia farà ancora capo ad aziende italiane? Quanta parte della popolazione attiva residente in Italia (locale o immigrata) troverà occupazione?».
Domande premonitrici nel ’92, attuali oggi. Questo libro - che raccoglie vent’anni di scritti di Monti (prevalentemente editoriali sul «Corriere della Sera»),*(* Gli scritti dei vent’anni precedenti sono raccolti in Mario Monti, II governo dell’economia e della moneta. Contributi per un’Italia europea: 1970-1992, Longanesi, Milano 1992) da una crisi all’altra, da un’esperienza di governo politico per l’emergenza a un’altra, la sua, di un governo sempre d’emergenza, ma di «impegno nazionale», cioè sostenuto da partiti contrapposti - fa riflettere anche sugli eterni ritorni della vita italiana. Nel ’94, di fronte a un Paese che non riesce a mettersi alle spalle i vecchi squilibri, Monti osserva: «Meglio, forse, un po’ di "conflitto" in una civile trasparenza che tanta "pace sociale" in un’illusione collettiva fondata sul debito». Sono i problemi con i quali ora ha a che fare come presidente del Consiglio. Nel suo studio a Palazzo Chigi, il professore ne ha parlato confrontandosi con i suoi stessi testi. Dal 1992 al 2011.

Presidente Monti, nel leggere i suoi interventi di questi vent’anni, dalla crisi finanziaria del 1992 a quella del 2011-2012. colpisce come molti temi ricorrano. Certi suoi testi di inizio anni Novanta sembrano scritti ieri, come se per l’Italia questo tempo non fosse passato. Sembra che la discussione sulla politica economica, sul rapporto con l’Europa o sulle riforma da affrontare sia quasi circolare.
La circolarità del dibattito italiano colpisce anche me. La vedo legata alla mancanza di memoria. Ogni fase di politica e della politica economica difficilmente trae beneficio dalle esperienze fatte in precedenza, semplicemente perché nessuno si ricorda più. Per questo ho sempre trovato interessanti i lavori che mettono in fila articoli scritti da una stessa persona in un certo periodo. (Ride) Dovrebbe essere un servizio pubblico al quale ogni autore è obbligato, dovrebbe esserci un’autorità della verifica della coerenza o dell’incoerenza. Soprattutto per quanto riguarda la politica economica, mi pare molto importante.

Vuole dire che lei ha ripensato agli eventi di questi decenni, nell’impostare le scelte del suo governo?
Uno dei momenti in cui ho sentito di più il richiamo del passato e l’importanza di tenerne conto è stato nel modo di impostare il rapporto con le parti sociali e con il Parlamento. Ho dedicato attenzione a questo aspetto e alle conseguenze finanziarie che comportava l’applicazione ripetuta nel tempo di un certo metodo di governo dell’economia. Questa che sto vivendo è un’occasione pratica che mi è capitata, dunque mi sono chiesto se non possa esserci coincidenza tra i risultati che speriamo di ottenere in politica economica e un metodo di governo che sia, a un tempo, più rispettoso della Costituzione e più vecchio - nei riferimenti - di quello applicato negli anni Settanta-Ottanta. Quest’ultimo è il metodo che io critico nel libro. Quello che cerco di applicare è più vecchio perché fa riferimento a una Costituzione degli anni Quaranta, ma allo stesso tempo anche più moderno perché basato su una distinzione di ruoli più chiara di quella che avevamo nel consociativismo, di cui avevo cercato di mettere a fuoco i problemi e le contraddizioni in alcuni degli interventi raccolti in questo libro.

Si riferisce al rispetto dei ruoli delle parti sociali, delle forze di maggioranza e dell’esecutivo?
Sì. Soprattutto alla distinzione di ciò che è responsabilità ei pubblici poteri - governo che propone e Parlamento che dispone - perché riguarda la generalità dei cittadini, e invece le materie che sono più contrattuali. Qui la voce delle parti sociali evidentemente dev’essere maggiore. Nella tradizione del consociativismo italiano quasi tutto veniva trattato e spesso deciso nel triangolo sindacati-datori di lavoro-governo. Ma ci sono alcune materie, come il fisco e in parte le pensioni, per le quali prevale l’interesse generale quindi la competenza spetta al governo e al Parlamento. Altre, come il mercato del lavoro, per le quali la pertinenza alle parti sociali è maggiore, quindi si giustifica di più il negoziato. Non è solo perché in certe situazioni il tempo stringe; è anche per questa convinzione che sulle questioni di bilancio con il mio governo non abbiamo fatto consultazioni con le parti sociali, ne ne faremo. Lo stesso sulle pensioni. Abbiamo avuto un incontro di due ore qui in una stanza a Palazzo Chigi con Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni e Susanna Camusso (i leader di Uil, Cisi e Cgil, N.d.R.). Ma li abbiamo informati, non possiamo certo dire che quella fosse una consultazione approfondita. Invece, per il mercato del lavoro, abbiamo ritenuto che la trattativa fosse più necessaria. Eppure anche su questo siamo stati attenti, sia nella sostanza che nella presentazione, a chiamarla consultazione. Non concertazione.

Ma alla fine nel confronto con i partiti sulla riforma del lavoro, la linea di demarcazione fra le prerogative degli uni e degli altri si è un po’ confusa. Non trova?
Il governo è riuscito a contenere il processo in un ambito di consultazione con le parti sociali. Per questo sono stato molto deluso dal fatto che poi però i partiti - quale più, quale meno - in quel caso abbiano accettato di riaprire essi stessi tavoli di trattativa nel momento in cui io pensavo dovesse esserci una sintesi in nome del pubblico interesse. Cioè del Parlamento. È successo così che i partiti abbiano riaperto tavoli dove, in qualche misura, diverse parti hanno cercato di avere ciò che non avevano ottenuto nel momento conclusivo della consultazione con il governo.

In un articolo del 2007 raccolto in questo volume lei ha scritto, a proposito di Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell’Economia: «I tecnici sono i veri politici». Lo pensa davvero?
L’ho scritto nel preciso contesto di quelle considerazioni su Padoa-Schioppa, non ho mai pronunciato quella frase con una valenza generale, nemmeno in quella particolare circostanza.

Ma si aspettava che il rapporto con i partiti sarebbe stato così difficile? A partire dal taglio delle spese, incluse quelle della politica, i fraintendimenti non sono mai mancati.
Mi aspettavo un rapporto più difficile con i partiti. Nel complesso, in questi mesi l’ho trovato più semplice di quanto si potesse prevedere. Non so quanti a metà novembre 2011 avrebbero creduto che in pochi mesi avremmo potuto fare tanto con l’appoggio dei partiti. C’è stato un significativo contenimento del disavanzo, quindi la riforma delle pensioni che oggi viene considerata la più avanzata in Europa, poi il pacchetto di liberalizzazioni e di concorrenza. Quel programma di apertura del mercato dei servizi potrà non soddisfare pienamente ne me ne altri che tengono in gran conto i valori della concorrenza, ma è più di quanto fosse stato fatto in Italia negli anni precedenti. Infine ci sono la riforma del lavoro, l’avvio della spending review, quello delle cessioni dei beni dello Stato, la blindatura del vincolo di bilancio in Costituzione e la sua attuazione. La riforma del lavoro, tanto per dirne una, non piace a nessuna delle parti «contrapposte». E, se vogliamo, è normale. Eppure è considerata una riforma del lavoro significativa e importante di cui l’Unione Europea ha chiesto l’approvazione definitiva in tempi rapidi. Questi sono fatti concreti e realizzati, oltre agli interventi messi in cantiere.

Insomma, non ha mai pensato che sarebbe rimasto ostaggio dei calcoli del centrodestra o del centrosinistra?
Mi limito a constatare quali sono le riforme fatte con questo quadro politico. Si tratta di una cooperazione inedita e sulla carta straordinariamente difficile tra un partito che ha fatto un passo indietro e un altro che mai avrebbe pensato di lavorare con chi poco prima era al governo. Poi ci siamo noi, tecnici chiamati a governare che all’inizio avevamo proposto ai politici di essere presenti essi stessi nel governo; ma i politici hanno declinato e preferito collaborare da fuori. Dentro di me c’era un enorme punto interrogativo, eppure poi le scelte essenziali sono state compiute. Non tocca a me stilare un bilancio sulla qualità di ciò che si è fatto; sono tutte scelte che comportano sacrifici e, a seconda delle proprie idee, si possono apprezzare al 100 per cento, all’80 per cento o al 30 per cento. Ma sono comunque decisioni assunte con il voto del Parlamento. Se il rapporto con i partiti fosse stato molto negativo, ci avrebbe impedito di arrivare a questo punto. Invece ha funzionato.

Dentro di lei, in questi sei mesi, si è mai dato una soglia? i Intendo una linea nella sabbia alla quale lei dice a se stesso: «Non ci sto più». Dopo gli attacchi ripetuti, le pressioni, i paletti per limitare le riforme, magari le sarà capitato di pensare: «Se è questo che vogliono, lo fanno con qualcun altro».
Una soglia c’è sempre. C’è stata fin dall’inizio. Non ho mai minacciato le dimissioni ma è vero che di volta in volta ho un’idea precisa in testa, sia sui singoli casi che in generale. Se si parla di una soglia di dignità personale, quella è già stata superata molte volte verso il basso (sorride), qualora si adottassero i criteri che uno adotta nella vita civile o nella vita professionale, o in quella accademica.
Parla di certi attacchi personali che ha ricevuto?
Be’, sì. Ci sono tre soglie diverse in realtà. La prima è quella della dignità personale o del normale amor proprio: quanto a quella, se uno ha un incarico pubblico, soprattutto in un momento così difficile, deve abituarsi all’insensibilità e cercare di non reagire. Poi c’è una soglia che riguarda la qualità delle decisioni prese. Qui non siamo nel campo delle percezioni, delle lodi o degli attacchi personali, ma della qualità delle scelte politiche e legislative. Lì ovviamente non dichiaro mai prima la soglia che mi sono dato, ma la valutazione di qual è il livello accettabile per una riforma o un provvedimento la faccio sempre. Sicuramente avrei ritirato certe proposte, se le avessi viste snaturate. In alcuni casi il risultato finale è stato meno buono di quanto avrei voluto, ma naturalmente va considerata anche l’alternativa: cosa succede se non si fa una certa riforma o si abbandona il campo perché un certo provvedimento subisce trasformazioni che non convincono completamente? Poi c’è una categoria intermedia e ultima di cose che non sono pure questioni di dignità personale, ne di pura valutazione oggettiva della qualità del risultato. Se sono valutazioni fuorvianti che inficiano molto la credibilità del governo, non è più solo questione di saper incassare giudizi sgradevoli.

Si riferisce alle accuse che sono state mosse al governo dopo i suicidi per ragioni economiche di cui tanto hanno parlato i media?
Quelle accuse sono talmente infondate che spero nessuno ci creda: è un caso estremo e grave del primo tipo, le accuse personali. Ma quando sento dire che questo è un governo sadico che ha per solo obiettivo quello di tassare gli italiani, be’, questa è un’altra storia. È un tipo di valutazione che in una politica economica dove conta la credibilità, la reputazione, la capacità di far capire l’obiettivo non provoca solo prurito e fastidio. Se ripetute molte volte e percepite anche all’estero, accuse come queste possono impedire poi al saldo dei risultati di essere positivo. E in questo rientra anche la questione, delicatissima, della responsabilità della crisi in cui ci troviamo.

Lei qualche volta ha detto che chi è responsabile di aver portato l’Italia a questo punto dovrebbe riflettere. Ma si ha l’impressione che non sia facile per lei parlare di questo tema.
La situazione per definizione doveva essere gravissima, altrimenti non ci sarebbe stata la cesura politica e quasi istituzionale che si è avuta. In caso contrario non sarebbero stati chiamati dei signori che non erano in politica, e magari sarebbero entrati nel governo anche dei politici. Forse il fatto che non siano venuti a bordo con noi sottolinea quanto fosse percepita la gravita del momento. Questa nostra è una situazione un po’ particolare. In un normale caso in cui un nuovo governo arriva a seguito di elezioni vinte, si fa una revisione dei conti pubblici, si accusano i predecessori di aver lasciato il bilancio in cattivo stato e magari si accentuano i problemi. Qui, no.
Perché no?
Perché questo governo ha come principali alimentatori e pro-duttori di voti in Parlamento tre forze politiche. Di esse le due maggiori, una in un periodo più distante, l’altra in uno più recente - più l’una o più l’altra secondo il giudizio dei singoli –, hanno governato una lunga fase che evidentemente non ha avuto una gestione ottimale. Per definizione non l’ha avuta. Se l’avesse avuta, l’Italia a metà novembre del 2011 non si sarebbe trovata in quella situazione così difficile. Questo fa sì che mi sia preclusa la via che tutti i governi del mondo hanno - e di solito usano molto più del giusto - di scaricare le colpe sui predecessori, che sono i loro avversar! del momento.
Ogni mese che passa può diventare poco chiaro per i cittadini, che non hanno in mente la cronologia delle decisioni e dell’andamento dei mercati, che cosa del loro disagio sia dovuto a chi c’è da pochi mesi e cosa a chi c’era tempo fa.

Come ne esce?
Valorizzando le continuità e cercando di sottolinearle. Questo ha reso affascinante l’esercizio quando era nuovo. All’inizio, quando dovevo andare più spesso in Parlamento, vedevo che in base alle minime sfumature di ciò che dicevo applaudivano da una parte o dall’altra. Rarissimi gli applausi insieme. Ma è riuscita una cosa contro le leggi della natura, una cooperazione fra forze opposte. Quindi, quando valorizzare le continuità faceva piacere agli uni, ma meno agli altri, ho cercato di dare rilevanza alle continuità lunghe, ad esempio sulla politica europea. È un esercizio che credo sarà studiato dal punto di vista politologico, perché è piuttosto peculiare. Ha delle facilità e delle difficoltà particolari.

Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi?
Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perché ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?

Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità. Scalpitano, recalcitrano.
Un altro modo di vederla è che non è chiaro perché dovrebbero sostenerci. Ma perché mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio. Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sé una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure devo prendere decisioni che hanno una probabilità di trovare consenso più bassa rispetto a tante decisioni che prendevano coloro che pure erano più corazzati di me in termini di retroterra politico. Però perché le sembro solo?

Questa assenza di una sua forza politica propria alle spalle non le pare una ragione sufficiente?
No. Non credo possa considerarsi solo uno che - per quello che possono valere i sondaggi - sembra avere un consenso superiore a quello di cui godono i partiti che lo sostengono in Parlamento. E quando incontro persone per la strada, mi sento dire quasi sempre: «Vada avanti!». Qualcuno, ma è raro, è più esplicito sui sacrifici: «Vada avanti, ma ci tassate troppo!». Altri hanno un tocco di comprensione sulla difficoltà del compito. Tra questi, ricordo un tale che una volta, a Milano, mi ha apostrofato: «Eh! Aveva proprio ragione la sua mamma...». Qualche mese prima, in televisione avevo detto che mia mamma usava dire spesso, quando ero ragazzo: «Alla larga dalla politica!». Quel signore, che non avevo mai visto, se n’era ricordato, all’uscita da una messa affollata, nella totale incomprensione degli astanti. Io gli ho risposto: «Sì, sì. Aveva proprio ragione la mia mamma». E lui: «Sempre dare ascolto alle mamme!». (Ride)

Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, sul «Corriere», sono stati capofila intellettuali di un certo tipo di critica nei suoi confronti. Hanno scritto, specie all’inizio, che lei è stato troppo timido sulle riforme. Tanti altri invece si chiedono perché lei spinga gli italiani sempre più verso il mercato, dopo che gli eccessi del mercato hanno portato il crac Lehman e questa grande crisi. Accuse di segno opposto, è vero. Ma insomma nessuno sembra soddisfatto. La turba?
Sono entrambe critiche perfettamente comprensibili. Dato che l’ho fatto anch’io per tanti anni, so bene che avanzare proposte e incalzare i responsabili politici è più facile che prendere decisioni e attuarle. Ciò non toglie che sia giusto che gli economisti lo facciano. Alesina e Giavazzi hanno un riferimento culturale che io condivido in parte, ma non credo sarebbe possibile - ne che sarebbe una buona idea - seguire una certa linea molto americana. Neanche se, con un colpo di bacchetta magica, potessimo trasformare il tessuto economico e sociale e la psicologia degli italiani in quelli degli Stati Uniti. Non vedo solo incrostazioni nell’Europa e nell’Italia, vedo anche punti di forza. Quella di economisti come Alesina e Giavazzi è una visione molto di mercato che in larga misura condivido. Ma sono convinto che se si cerca di modificare l’economia e la società italiana con la scure di quelle ricette massimaliste, non si ottiene molto in termini di effettive riforme. Credo che sia più probabile introdurre riforme durevoli con un’impostazione come la mia, con pragmatismo cocciuto. Loro richiamano in continuazione al «coraggio», parola che io tendo a non usare. Se poi sia rinvenibile qualche traccia di «coraggio» nella politica economica del governo attuale, non tocca certo a me giudicarlo. Ma, appunto, ad Alesina e Giavazzi.

Un operaio che ha già subito gli effetti del crollo dei subprime, di Lehman, poi la sfiducia degli investitori sul debito italiano capisce bene gli eccessi del mercato. Come fa a convincerlo che la via d’uscita dalla crisi sia ancora più mercato?
Questa è una critica più comprensibile, anche perché fatta sotto l’impatto di un grosso disagio personale. Ma la mia lettura è in parte diversa. La crisi non è dovuta agli eccessi del mercato, ma a un mercato dove la presenza della regolazione e della vigilanza è stata insufficiente. Per questo credo in un’economia di mercato con pubblici poteri forti, più di quanto vorrebbero Alesina e Giavazzi. Ciò permette di avere un’economia sociale di mercato, che riesca a contemperare la competitività e appunto la dimensione sociale. È un tema su cui ho lavorato a lungo come commissario europeo a Bruxelles. Ed è un tema sul quale forse ho scritto molto negli ultimi vent’anni, come si può vedere anche in questa raccolta. L’ho fatto da ben prima che l’avvio della crisi, con le tensioni sui mutui subprime negli Stati Uniti, stimolasse un ripensamento sugli equilibri tra la libertà dell’iniziativa economica e finanziaria, da un lato, e le regole dall’altro.
Quella per un’economia sociale di mercato è una lotta difficile per l’Europa nel mondo e ancor più lo è per un singolo Paese. Ma secondo me è la formula giusta alla quale mira l’Europa, spesso senza riuscire a realizzarla. Il Trattato di Lisbona parla di un’«economia sociale di mercato altamente competitiva»; nessuna di queste parole può venir meno. Però sappiamo anche da Luigi Einaudi che se il sociale e il mercato sono mischiati malamente, si fa quello che lui chiamava il pasticcio di lepre. In Italia lo si è fatto per decenni, con i prezzi politici e tante altre distorsioni. La mia linea di riformatore, prima come politico tra quattro virgolette a Bruxelles, ora tra due virgolette a Roma, è sempre stata la stessa: agire con gli strumenti istituzionali e legali a disposizione, e con la persuasione.
Non possiamo darci come solo obiettivo quello di realizzare gli otto passi avanti che si vorrebbero, ma che non sarebbero fattibili o preluderebbero a dei crolli. Meglio allora assicurare due o tré passi avanti che consentano dei miglioramenti.

L’operaio può anche dire che i sacrifici non sono distribuiti equamente: la flessibilità rischia di scaricarsi quasi tutta sui lavoratori meno qualificati.
Capisco che un lavoratore sia perplesso quando vede che mettiamo più mercato nell’unico mercato in cui lui è, quello del lavoro. Però quell’operaio può vedere anche che la protezione sociale viene ammodernata: la si rende meno legata al posto di lavoro e più al lavoratore. Per la prima volta si è introdotto poi qualcosa che somiglia a un’imposta patrimoniale e si sta facendo una lotta all’evasione molto profonda, secondo alcuni anche troppo profonda. Tutti questi elementi consentono di avvicinarci al sociale, ma allo stesso tempo dobbiamo avvicinarci anche al mercato.

Questo è un punto centrale del suo lavoro, prima come commentatore e adesso al governo: la ricerca di un equilibrio fra democrazia e mercato. Non sempre è facile far funzionare entrambi, convincere la maggioranza dei cittadini ad accettare certe riforme. È un equilibrio che in altri Paesi europei si trova con meno difficoltà. Da noi sembra un po’ più dura, non le pare?
Nel primo periodo in cui io scrivevo, prima della crisi del 1992, l’Italia era un’eccezione ed era in ritardo; adesso il problema democrazia-mercato si impone a livello globale o almeno a livello europeo. E per certi aspetti dell’evoluzione attuale, non perché sia io al governo ma per il tipo di soluzione che si è adottata, l’Italia forse è un Paese precursore in ordine di tempo.

In che senso?
Negli anni Settanta, Ottanta e fino ai primi anni Novanta, l’Italia era totalmente divergente rispetto ai connotati della Germania, quelli che definivano l’economia sociale di mercato. A quei parametri siamo arrivati gradualmente solo dagli anni Novanta in poi: nel 1990 la legge antitrust, poco prima il divorzio fra il Tesoro e la Banca d’Italia, poi i vari altri passaggi in vista dell’arrivo di Maastricht, a partire dai vincoli finanziari.
Ebbene, nel periodo precedente a questa incorporazione dei criteri tedeschi, l’Italia era più confusa nel metodo della politica economica e del governo dell’economia. Gli aspetti più eccentrici rispetto ad altri Paesi europei erano due. C’era il ruolo molto ampio della concertazione consociativa, a spese delle generazioni future perché produceva indebitamento. E avevamo la più autorevole tra le Banche centrali sul piano della scienza e della raffinatezza, ma di fatto la più disposta a facilitare il finanziamento del disavanzo, perché non opponeva frizioni alla sua espansione.

Ora però questi due aspetti sono stati modificati.
Con l’integrazione europea i guardrail che definivano la strada della politica economica di un Paese, prima larghissimi, si sono ristretti tanto che non c’è più spazio per l’immaginazione al potere. Ne nel bene ne nel male. Noi italiani siamo diventati meno divergenti. Al tempo stesso il problema del rapporto fra democrazie e mercato è emerso per tutta l’Europa, perché l’integrazione dei mercati comporta un maggiore accentramento di tante decisioni: una volta era solo la politica della concorrenza, ma ormai riguarda molti aspetti della politica economica, oltre che monetaria.

Che cosa resta dello spazio di sovranità dei singoli Paesi? E in cosa possono esercitarsi le scelte democratiche degli elettori?
In molto meno, proprio perché lo spazio di sovranità nazionale si è ridotto. Di qui la contraddizione tra democrazia insoddisfatta a livello nazionale e una democrazia non ancora molto presente a livello europeo. Poi ci sono fenomeni come questo governo italiano. L’Italia è arrivata in modo diverso da altri, ma poi più rapidamente, alla constatazione che una grande coalizione, uno sforzo unitario, un impegno nazionale - comunque lo si voglia chiamare - è necessario per far fronte alle richieste dell’integrazione. Questo tema della dimensione verticale dell’integrazione tra mercato e democrazia è essenziale nell’Europa di oggi.* (* II tema è esaminato in Sylvie Goulard, Mario Monti, La democrazia in Europa, Eizzoli, Milano 2012)
C’è una tensione tra democrazia incompiuta a livello europeo e democrazia insoddisfatta a livello nazionale. Altri lo considerano un conflitto fra governi tecnici che fanno cose imposte dall’alto e una spinta populista dal basso. Lei è cosciente di questa spinta populista? Vede il rischio che prenda piede?
Lo vedo molto grande. Il governo di fenomeni economici e sociali come la globalizzazione o come l’integrazione, che prima era solo a livello europeo e ora si è estesa su una scala più vasta, impone un allargamento della dimensione spazio e tempo. È inevitabile: più le economie e i Paesi sono integrati, più per governare i fenomeni, dai flussi migratori ai contagi finanziari, occorre un allargamento della dimensione.

Intende dire che per essere efficace il governo si deve esercitare su gruppi di molte nazioni, e le politiche hanno effetti su tempi lunghi?
Esattamente. La governance non può più esercitarsi sui singoli punti del territorio o sui singoli Paesi, dev’essere sempre più integrata con coordinamenti di varia natura. E in qualche modo deve prevedere cessioni di spicchi piccoli o grandi di sovranità. In più, i fenomeni con cui abbiamo a che fare richiederebbero una prospettiva di lungo periodo per essere governati. Ma entrambe queste dimensioni - grandi spazi, tempi lunghi - portano lontano dal singolo cittadino. Anche a supporre per pura ipotesi che un giorno la governante mondiale fosse perfetta e ci fosse un governante mondiale illuminato che ragiona nel lungo periodo, il cittadino vede sfuggire dalle sue mani e dalla sua urna elettorale la possibilità di avere un’influenza. Dunque coglie il diverso, l’estero, l’immigrato, la libertà di movimento come cause dei suoi problemi economici, sociali, culturali, spirituali. Il cittadino è portato a pensare sempre di più che ciò che sta lontano dal suo punto psicofìsico locale sia il male, il nemico. Eppure bisognerebbe allontanarsi ancora di più per incidere sui fenomeni che poi hanno un impatto sul punto psicofìsico locale nel quale vive il cittadino-elettore. A questo si somma il ruolo crescente dei media tradizionali e dei social network, che accorciano l’orizzonte temporale del responsabile politico che deve prendere una decisione. Tra l’altro, con lo sviluppo dei blog e dei social network ognuno sceglie cosa leggere secondo i suoi gusti. E le opinioni tendono a polarizzarsi e alimentarsi a vicenda in maniera virale. Tutto ciò rende le risposte di chi governa inevitabilmente sempre più complesse da spiegare. Servirebbe una grande capacità di far capire perché ciò che sembra meglio e più gradito oggi in realtà non è nell’interesse del cittadino; mentre invece è nel suo interesse qualcosa che oggi sembra contrario a esso.

Ci sono regole che lei si è dato su come parlare o non parlare agli italiani?
Cerco di spiegare. Anche per questo ho delle articolazioni troppo lunghe rispetto alle esigenze della comunicazione di massa. Ma cerco comunque di farlo, per due ragioni: la prima è una forma di rispetto verso l’interlocutore, e quando vado in Parlamento è esattamente la stessa cosa. Poi perché soprattutto quando si tratta di decisioni potenzialmente impopolari - tutte quelle che ho preso finora sono di questo tipo - devo fare appello al medio-lungo periodo. Nessuna di quelle misure ha effetti gradevoli nel breve.

Davvero non riesce a pensare a niente che lei ha fatto al governo che gli italiani abbiano accolto con favore?
Be’, qualcosa c’è; non è stata una decisione, e non toccherebbe a me dirlo: il cambiamento dell’immagine dell’Italia nel mondo è avvenuto molto più rapidamente di come si potesse sperare. Ma le singole decisioni sono state tutte dolorose, dunque sento l’esigenza di spiegare perché sono necessarie. In questo c’è una componente di pedagogia. Tale aspetto forse è rafforzato dal fatto che mi rendo conto che fra i milioni di cittadini su cui si esercitano gli effetti dell’azione del mio governo, non uno mi ha mai scelto. Il Parlamento ha concesso la fiducia al governo con una maggioranza che non si era mai vista nella storia della Repubblica. Ma non un singolo italiano mi ha mai scelto, tranne il capo dello Stato. Quindi sento permanentemente l’onere della prova su di me, perché dobbiamo imporre, senza che i cittadini l’abbiano mai chiesto, cose che sono sgradevoli.

La accusano anche di essere troppo pedagogico, come se lei ritenesse che si tratti di istruire gli italiani e non di governare.
La pedagogia è naturale in un professore, è l’unica arma che ho. E ho un obbligo di spiegare maggiore di altri. In questo contano le ragioni soggettive: nessuno mi ha scelto, ma devo dire agli italiani che se sono qui è per far fare loro cose che non volevano fare e che tutti quelli che sono venuti prima hanno sostenuto si potessero evitare. In più sono questioni complicate, quindi cerco di spiegarle. Fa parte della mia natura, malgrado qualche recente erosione, di parlare in modo calmo di cose brutte e magari anche drammatiche. Uno degli aspetti che mi sono imposto di cambiare - in parte riuscendoci – è che io ero abituato a parlare davanti a un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l’ironia sono elementi essenziali. Ma è molto rischioso: perché è vero che il posto fìsso è monotono, però sicuramente dirlo in quel modo è stato per me un bell’infortunio. Quindi adesso cerco di non fare più battute, che pure all’iniziò mi avevano aiutato a comunicare.

Scandinavi, tedeschi, britannici, irlandesi e forse anche gli spagnoli accettano l’idea che l’integrazione globale di cui lei parla imponga loro in qualche modo di adattarsi. Teme che per noi italiani non sia così?
Non penso che siamo più riluttanti o che il rigetto della globalizzazione sia maggiore in Italia che altrove. Rispetto ai Paesi scandinavi, alla Gran Bretagna o all’Irlanda, sicuramente sì. Ma tranne la Gran Bretagna, questi sono Paesi piccoli, sono per loro natura economie aperte nelle quali la quota di import/export su Pil è molto più alta che per un Paese grande. Quindi hanno capito prima che devono accettare la competizione e la competitività. La Francia sicuramente è al polo opposto, un caso in cui c’è una difficoltà culturale. Paradossalmente credo derivi dal fatto che la Francia è Punico Paese, oltre agli Stati Uniti, che coltiva valori universali: si sente culla di princìpi che proietta a tutto il mondo e ciò nonostante il flusso di ritorno le è tanto penoso. Forse perché il mondo non è così disposto ad accettare i valori universali «made in France». E quindi in Francia si definisce social dumping ciò che non corrisponde a una certa idea. Sia culturalmente, sia nelle strutture della società, in Francia la difficoltà ad accettare la globalizzazione mi sembra molto maggiore che in Italia. Ed è un Paese così convinto delle proprie strutture che tutto ciò si riflette poi, sul piano comunitario, in dossier concreti: la questione del servizio pubblico d’interesse generale, la politica agricola.

E la Germania? La vede come una vincente della globalizzazione?
Farei una distinzione fra la Germania delle grandi imprese e la Germania federale, da una parte, e la Germania locale dall’altra, i Länder. La Germania locale assomiglia molto alla Francia nell’essere abbastanza riluttante alla globalizzazione. Non a caso la Francia e la Germania a livello locale sono i punti di maggiore resistenza per la politica europea della concorrenza e delle liberalizzazioni. Electricité de France, le Landesbanken, le strutture locali di servizi in rete sono state dossier complessi per la Commissione europea. L’Italia mi sembra un caso diverso. In realtà io non la trovo riluttante alla globalizzazione. Forse è perché non ha un’identità nazionale così forte e radicata nel tempo come la Francia e anche sul piano locale è stata a lungo abituata a essere dominata e percorsa da forze straniere. Piuttosto trovo l’Italia riluttante ad assorbire le politiche che sono necessarie per restare competitivi in un’economia globalizzata. Così è stata abituata dal suo sistema politico. Ma gli italiani non sono intellettualmente o psicologicamente contrari alla globalizzazione.

Intende dire che hanno subito una cattiva educazione?
Dal punto di vista del comportamento collettivo, non è mai stato molto instillato in noi il senso della legalità, ne il senso del lavoro di squadra. A livello di politiche macro si è sempre convissuto con un grande disavanzo, una grande inflazione, grandi svalutazioni. Ma penso che in Italia non sia scarsa la domanda di governance da parte dei cittadini; è stata l’offerta di governance da parte dei pubblici poteri che è stata scarsa. E tante cose come il senso del rigore, la disciplina, in Italia non si sono perseguite nella convinzione che gli italiani non le avrebbero accettate. Però nella realtà è sempre stato diverso. Prendiamo i singoli casi: quando qui a Palazzo Chigi.

E la Germania? La vede come una vincente della globalizzazione?
Farei una distinzione fra la Germania delle grandi imprese e la Germania federale, da una parte, e la Germania locale dall’altra, i Länder. La Germania locale assomiglia molto alla Francia nell’essere abbastanza riluttante alla globalizzazione. Non a caso la Francia e la Germania a livello locale sono i punti di maggiore resistenza per la politica europea della concorrenza e delle liberalizzazioni. Electricité de France, le Landesbanken, le strutture locali di servizi in rete sono state dossier complessi per la Commissione europea.
L’Italia mi sembra un caso diverso. In realtà io non la trovo riluttante alla globalizzazione. Forse è perché non ha un’identità nazionale così forte e radicata nel tempo come la Francia e anche sul piano locale è stata a lungo abituata a essere dominata e percorsa da forze straniere. Piuttosto trovo l’Italia riluttante ad assorbire le politiche che sono necessarie per restare competitivi in un’economia globalizzata. Così è stata abituata dal suo sistema politico. Ma gli italiani non sono intellettualmente o psicologicamente contrari alla globalizzazione.

Intende dire che hanno subito una cattiva educazione?
Dal punto di vista del comportamento collettivo, non è mai stato molto instillato in noi il senso della legalità, né il senso del lavoro di squadra. A livello di politiche macro si è sempre convissuto con un grande disavanzo, una grande inflazione, grandi svalutazioni. Ma penso che in Italia non sia scarsa la domanda di governance da parte dei cittadini; è stata l’offerta di governance da parte dei pubblici poteri che è stata scarsa. E tante cose come il senso del rigore, la disciplina, in Italia non si sono perseguite nella convinzione che gli italiani non le avrebbero accettate. Però nella realtà è sempre stato diverso. Prendiamo i singoli casi: quando qui a Palazzo Chigi c’era Giuliano Amato, ci fu la manovra restrittiva da 93.000 miliardi di lire del settembre-ottobre ’92, poi nel ’95 la prima riforma delle pensioni con Lamberto Dini, quindi nel ’97 l’eurotassa con Romano Prodi.
E, aggiungerei, ci sono partiti nella maggioranza che sono psicologicamente all’opposizione e che passano il tempo a presentare negativamente l’azione di questo governo. Il che naturalmente ha un’influenza sull’opinione pubblica. Ma nei primi mesi ho trovato sorprendente la capacità di accettare da parte degli italiani, sia pure nella consapevolezza dei sacrifici.

Lei sembra pensare che l’Italia sia una democrazia matura che però ha un problema di ceti dirigenti. Crede che un governo tecnico possa favorire condizioni in cui questa selezione dei ceti dirigenti funzioni meglio?
Intende dire perché introduce elementi di meritocrazia?

Forse anche perché dice un po’ di più la verità ai cittadini.
Ecco, prima non ho osato usare l’espressione «dire la verità». Uno non può affermare di se stesso che cerca di dire la verità, però è un aspetto fondamentale. La scoperta degli italiani (nei riguardi miei e del mio governo) sul piano della comunicazione dipende anche dal fatto che gli italiani gradiscono sentirsi dire la verità. O per lo meno non fanno lo zapping se trovano gente che, senza fare spettacolo, cerca di dirgliela.

Nell’articolo Una guerra di liberazione del 2 gennaio 1999, scritto all’avvio dell’euro e anch’esso riportato in questo volume, lei disse che noi italiani correvamo il rischio di diventare il Mezzogiorno d’Europa. Proprio nel ruolo che ha avuto il Sud nell’unione monetaria italiana. Lei definì quella sfida la prossima guerra di liberazione: l’abbiamo persa?
In parte sì, abbiamo perso quella guerra di liberazione. Quando, con le decisioni europee del maggio 1997, fu conseguito l’obiettivo dell’entrata nell’euro, è venuta meno la tensione unificante e la maggioranza di Prodi si è dissolta. Là dove c’era un obiettivo visibile, un criterio numerico, una sanzione, ci sono state fecalizzazione e unità d’intenti. Ma conseguito quell’obiettivo, ci siamo scordati dell’esigenza di essere competitivi in una moneta unica. Anche perché poi l’impulso europeo che è venuto è stato quello della strategia di Lisbona del 2000, molto più debole di Maastricht. Questa è la ragione per cui nel 1997-98 proponevo una «programmazione delle liberalizzazioni». Fausto Bertinotti (allora leader di Rifondazione Comunista, N.d.R.) una volta a Villa d’Este fece l’interessante commento che questo era un ossimoro; la programmazione è da regimi socialisti, disse, come può esserci una programmazione delle liberalizzazioni? Invece è esattamente quello che sarebbe occorso. Visto che l’Europa non ci dava un vincolo cogente come per la finanza pubblica, dovevamo farci noi un piano delle riforme strutturali. Che poi è quello che dieci anni dopo l’Europa ha impostato con i piani nazionali delle riforme.

Vuole dire che abbiamo perso la guerra con noi stessi?
Esatto, abbiamo perso la guerra con noi stessi. Abbiamo avuto un’erosione di competitività non tanto e non solo per la dinamica del costo del lavoro, ma per l’andamento insufficiente della produttività totale dei fattori, legata alla qualità delle infrastrutture, alla funzionalità del mercato dei prodotti e dei servizi, a un’adeguata dimensione media d’impresa e molto altro. Non c’era più la valvola delle svalutazioni competitive ed è mancata la politica economica reale. C’è stato un vuoto sotto questo aspetto. Io speravo, e l’avevo proposto in alcuni degli articoli più recenti raccolti in questo volume, che il governo Berlusconi, uscito dalle elezioni del 2008 con una maggioranza così forte, con un orizzonte di cinque anni e quel successo d’immagine al G8 dell’Aquila, avrebbe vera- mente potuto fare un piano delle riforme strutturali, invece di negare che l’Italia avesse un problema di crescita.

Cosa può fare l’Italia per l’Europa oggi?
Credo parecchio, ed è uno dei compia che questo governo sente molto. Può fare parecchio, sia evitando il negativo sia cercando di realizzare il positivo, il danno da scongiurare, e spero in questo che il governo stia dando un contributo significativo, è quello di essere un focolaio di instabilità. Per ora siamo riusciti in questo obiettivo, evitando ciò che veniva pro- posto all’Italia un anno fa, cioè di mettersi sotto l’egida di un programma vincolante del Fondo monetario internazionale. Il lucro per l’Europa, che cerchiamo di far emergere, è il contribuire a tenere insieme un’anima della disciplina di bilancio - di cui siamo convinti, anche perché abbiamo visto che cos’era l’Italia senza di essa - con una nuova anima della crescita. In modi ovviamente compatibili con la disciplina di bilancio.

Si direbbe che lei veda per l’Italia un ruolo di cerniera, in parte in caso di incomprensioni franco-tedesche, ma più in generale fra le varie categorie di Paesi dell’Unione.
Esattamente, un ruolo di cerniera. Anzitutto nei dialoghi bi- laterali o trilaterali fra Stati mèmbri e istituzioni comunitarie. L’Italia di tradizione sua e, nel mio piccolo, io di tradizione mia amiamo il metodo comunitario. Però anche certe occasioni di cooperazione e di dialogo a due o a tre sono importanti.
In secondo luogo proprio per quest’idea - non so se di tradizione italiana, ma certamente mia e del mio governo - di realizzare più integrazione attraverso una migliore riconciliazione fra mercato e sociale, ci interessa molto tener vivo il dialogo con Paesi attenti al ruolo del mercato come la Gran Bretagna, gli scandinavi o la Polonia. La loro pressione in questo senso è preziosa. Per i futuri governi italiani, che potranno operare in un Paese più stabilizzato e con prospettive più lunghe, io vedo una notevole possibilità in politica estera, e in particolare nella politica europea, che è quasi politica interna. Come italiani possiamo esercitare quello che Joseph Nye chiamerebbe soft power, un potere dolce. L’Italia ha molti ingredienti del soft power che serve nella civiltà di oggi. L’Italian way è molto apprezzata da tutti quando c’è un nostro contingente in un’operazione di mantenimento o imposizione della pace, in Libano o in Afghanistan. Sappiamo fare cooperazione allo sviluppo nel rapporto con la popolazione locale, nella cornice più ampia di uno sforzo internazionale. Oppure pensiamo che, a un tavolo dell’Unione Europea, l’Italia è efficace se porta posizioni ragionate e persuasive e riesce a essere o a diventare credibile.

Vuole dire se siamo coerenti con le nostre posizioni?
Esatto. L’Italia a priori è uno Stato membro grande ma non ha contro di lei il pregiudizio da parte dei piccoli Stati dell’Unione. Se poi riusciamo a metterci su questo crocevia delle diverse categorie di Paesi e siamo coscienti del nostro soft power della cultura, del gusto... Be’, abbiamo molti ingredienti che ci rendono un Paese di cui c’è bisogno nel mondo d’oggi.

Lei dice: non abbiamo bisogno del fondo salvataggi e dobbiamo fare certe riforme perché sono positive per noi, non perché ce le chiede l’Europa. Ma cosa può fare l’Europa oggi per l’Italia?
Specificamente per l’Italia, niente. Nelle settimane più difficili, le prime del mio mandato, ho impiegato un po’ di tempo a convincere il cancelliere Angela Merkel che ci battevamo per dei fondi salvataggi più robusti, ma non allo scopo di avere del denaro dalla Germania o dall’Unione Europea per noi. Peraltro, quanto a cose che sono specifiche per singoli Stati mèmbri, semmai siamo noi che dobbiamo riuscire a utilizzare meglio le risorse che l’Europa da: su questo gli sforzi che con il ministro Fabrizio Barca stiamo facendo stanno dando buon frutto.
Però per Paesi come l’Italia l’Europa può fare molto: è il discorso della crescita. Qui siamo proprio nel pieno del- le conversazioni che abbiamo avuto e continuiamo ad ave- re con Angela Merkel e con il presidente francese Francois Hollande.

Quanto a questo, lei come pochi altri ha visto la macchina europea al lavoro da diverse angolature. Da presidente del Consiglio, ha avuto anche esperienze di una certa brutalità. Penso proprio a quel Consiglio europeo di giugno 2012 dedicato alla crescita, quando lei bloccò i lavori nel pieno della notte; o alle critiche che lei stesso ha ricevuto in Germania dopo le sue frasi allo «Spiegel» riguardo al rapporto fra governi e Parlamenti. Ripensandoci, le verrebbe da dire che prima aveva una visione più romantica dell’Europa e ora ne ha toccato con mano le realtà più dure?
Le realtà dure dell’Europa e il suo scarso romanticismo mi sono stati chiari dall’inizio, sin dalla metà degli anni Novanta, quando sono diventato commissario. In particolare negli anni in cui ho avuto il portafoglio della Concorrenza, ho sperimentato quello che allora era il punto più duro di attrito con le imprese. Capitava per esempio, quando dovevamo decidere se autorizzare o no una fusione, che in molti casi poi era una scalata ostile. Molto spesso qualcuno, magari il governo che stava dietro un gruppo industriale, voleva che rigettassimo l’operazione. Era una vita molto vera, molto concreta, fatta di partite di interessi tra imprese e fra queste e i governi, a causa degli aiuti di Stato, o in qualche caso di partite tra Unione Europea e altre parti del mondo. Il peso degli interessi reali, le lobby, le pressioni politiche, quelle dei media: queste sono dinamiche che avevo già sperimentato come commissario, ben prima di assumere compiti di governo. In quegli anni fra il 1995 e il 2004 però l’Europa non aveva un problema così centrale, così capace di dividere e produrre conflitti politici e psicologici fra Paesi come sarebbe stata successivamente la crisi dell’Eurozona. In quei dieci anni a Bruxelles vedevo bene che l’Europa non era un progetto romantico. Ma lavoravamo tutti su un progetto che era in costruzione, non a rischio di implodere. Quella era la fase dell’avanzamento del mercato unico, della realizzazione dell’euro, dell’allargamento, del sogno di una Costituzione europea. Il tema dominante era una maggiore integrazione, non il ritorno ai nazionalismi o la dis-integrazione di alcuni mercati, come è successo a quello finanziario e bancario a seguito della crisi.

Dunque vivere Volto livello di conflittualità attuale per lei non ha rappresentato una sorpresa?
Una sorpresa, no. Certo è cambiato moltissimo il punto nel sistema dal quale opero: sono passato da commissario a membro del Consiglio europeo (che riunisce i capi di Stato e di governo, N.d.R.) e per una fase anche dell’Ecofin e dell’Eurogruppo (che riunisce i ministri economici e finanziari, N.d.R.). Ovviamente quando vivevo a Bruxelles non dovevo rappresentare interessi nazionali. Adesso sì. Ma come membro del Consiglio europeo - e per tradizione mia anche più di altri - vedo l’interesse nazionale e contemporaneamente cerco di fare l’interesse europeo. Lo so, è qualcosa di cui parlo spesso. Ma sono più che mai convinto che nel caso dell’Italia ci sia una vastissima coincidenza, così come penso sia vero in generale anche per gli altri Paesi.

Nel frattempo la Banca centrale europea ha cambiato un po’ i termini della discussione, offrendo interventi di sostegno sul mercato ai governi che firmano dei memorandum con precisi impegni di riforma. I memorandum di cui si parla non sono veri e propri programmi delirando monetario internazionale. Ma colpisce la prima reazione in Italia: si è subito parlato di commissariamento, di messa sotto tutela. C’è persino chi ha detto: meglio ristrutturare il debito, meglio diluire i termini dei rimborsi dei titoli di Stato, piuttosto che essere colonizzati. Vede in queste posizioni una reazione legittima, uno scatto di orgoglio, o il segno che in Italia si fatica a capire la nuova realtà dell’integrazione europea?
Non criticherei mai reazioni del genere in quanto scatti d’orgoglio nazionale, però le considero sbagliate nei fatti, fuori proporzione. L’orgoglio nazionale in questa fase ha un gran ruolo, il mio governo e io lo teniamo presente e su un sano orgoglio nazionale abbiamo lavorato. Consideriamo importante tutto ciò che l’Europa chiede a noi - come agli altri – cioè il rispetto di regole microeconomiche, macroeconomiche e via elencando. In particolare, è importante per noi riuscire in due aspetti diversi. Occorre spiegare all’opinione pubblica italiana perché ciò che l’Europa ci chiede è nel nostro interesse: se non lo fosse, l’Italia a suo tempo avrebbe cercato di opporsi a quelle regole. Poi però c’è anche un altro punto che è giusto che gli italiani tengano presente. In condizioni normali, l’adempi- mento alle richieste dell’Europa - che sono nel nostro interesse - dovrebbe essere possibile con le nostre forze. Qui conta molto quell’orgoglio nazionale che in Italia è latente e non sempre c’è davvero, al di là degli eventi sportivi o di occasioni in cui emerge in modo patologico perché forse ci sentiamo lesi senza necessariamente esserlo. L’orgoglio è importante per applicare regole che magari abbiamo violato: a noi del governo il compito di spiegare che sono nel nostro interesse e che dobbiamo farcela da soli. Nasce da qui la mia grande avversione nei confronti di aiuti del tipo bailout (programma di salvataggio, N.d.R.), quelli che scattano quando un Paese riconosce che non ce la fa a chiudere il proprio bilancio pubblico secondo le regole. Questa è la tipologia che in genere comporta l’arrivo della troika (composta da Commissione europea, Bce e Fmi, N.d.R.), una presenza molto intrusiva e di fatto una cessione di sovranità asimmetrica. È qualcosa che va al di là di quella cessione di sovranità che tutti, misuratamente e simmetricamente, accettiamo per contribuire all’integrazione europea.

In questo senso considera orgoglio nazionale il fatto di dire che l’Italia ce la deve fare con le proprie forze?
Assolutamente sì. Ed è importante affrontare magari qualche sacrificio in più anche se sono gravi, pesanti. Poi ovviamente bisogna vedere come sono distribuiti, ma insomma qualche sacrificio in più ha senso se serve a evitare di essere - in quel caso allora userei forse il termine - colonizzati. Non siamo in cerca di un podestà forestiero, come ho già scritto in un articolo del 2011 anch’esso ripreso in questo volume.

Può fare degli esempi di questo tipo di tutela che lei vuole a tutti i costi risparmiare agli italiani?
Be’, nella lettera che la Bce ha mandato al governo nell’agosto del 2011 c’erano dei vincoli, delle prescrizioni e delle raccomandazioni che andavano al di là di ciò che normalmente l’Europa chiede di fare ai vari Paesi. L’arrivo del podestà, la colonizzazione sono assolutamente da evitare, anche con l’orgoglio nazionale. Va tenuto presente che se non si riuscisse a evitarla, non sarebbe solo una ferita alTorgoglio, ma un vero indebolimento nell’economia reale e nella Realpolitik di un Paese per diversi anni. Perché poi lo si nota ovunque: dal body language negli incontri internazionali, al peso che diventa nullo ai tavoli europei e non solo, e via dicendo.

Eppure lei a quel famoso Consiglio europeo di giugno 2012 si battè proprio per avere degli strumenti europei d’intervento a sostegno dei Paesi in difficoltà, e appunto tenne tutti gli altri leader in piedi fino alle quattro di mattina.
Sì, perché mi sembrava corretto che l’Italia convincesse gli altri Paesi che esistono casi in cui occorre un’azione comune, quindi vanno apprestati strumenti comuni. Tutto questo serve per quella parte di realizzazioni che non dipende solo dalla capacità e dalla volontà di un singolo Paese. Vedo due principali campi di applicazione in questo senso. Il primo è la crescita, come abbiamo visto. È ovvio da anni che è difficile generare crescita sostenibile in un singolo Paese, quale che sia la sua dimensione nell’Unione Europea: quindi occorre una politica comune attenta a questi obiettivi, benché non a scapito della disciplina finanziaria. Non è un caso se il governo italiano è stato tra coloro che hanno proposto il growth compact (il patto europeo per la crescita, N.d.R.) e varie altre misure in tal senso. L’altro aspetto invece è proprio quello che ha a che fare con i fattori finanziari. Bisognava riconoscere che se un mercato di titoli sovrani di un Paese è in difficoltà e queste difficoltà si manifestano con tassi d’interesse anormalmente elevati, ciò può senz’altro derivare dal suo mancato rispetto delle regole della disciplina europea; ma può anche derivare, in parte, da una disfunzione sistemica.

Si riferisce al pericolo, percepito nei mercati, che l’euro si frantumi, il fenomeno che Mario Draghi chiama «rischio di reversibilità»?
Esattamente: disfunzione sistemica nell’Eurozona, rischio di reversibilità. Lì l’orgoglio nazionale deve trasformarsi, secondo me. Cerco di razionalizzare quello che abbiamo fatto, adesso mentre ne parlo. In caso di rischio di reversibilità, dobbiamo diventare esigenti come governo e come Paese: dobbiamo riuscire a far valere nelle sedi europee l’idea che per livelli più distesi e normali dei tassi d’interesse non basta mettere ordine in casa nostra. Il Consiglio europeo di giugno è importante, simbolicamente e nella sostanza, perché è il punto d’arrivo di vari filoni d’azione sui quali l’Italia è stata una protagonista di punta; su quest’ultimo aspetto della stabilità finanziaria è stata forse il principale protagonista, proprio perché si riconoscessero i princìpi che ho detto.

Ciò si lega alla domanda sul significato del firmare un memorandum. Ed è un interrogativo che molti si pongono, in Italia e in Europa.
Al vertice di giugno a Bruxelles avevamo la pagina bianca delle conclusioni dell’Eurosummit (dei 17 leader dei Paesi dell’Euro, N.d.R), poi fatta propria dal Consiglio dei 27 dell’Unione Europea dopo un giorno e una notte complicati di discussioni. In quelle conclusioni bisognava scrivere qualcosa che rappresentasse il riconoscimento dei problemi esistenti. Vengono da lì i due punti in quel terzo paragrafo nelle conclusioni dell’Eurosummit sull’uso «efficiente e flessibile» dei fondi salvataggi Efsf e Esm: sono quelli che poi hanno consentito a Mario Draghi e alla Bce nel suo complesso di muoversi con tutta la risolutezza con cui si sono mossi. Per il nostro governo la stabilità dei mercati è un obiettivo essenziale, ed è a questo scopo che vanno usati gli strumenti europei esistenti. Nelle conclusioni del vertice di giugno si è parlato di un memorandum d’intesa che rifletta l’adempimento già in corso delle condizioni richieste per un intervento, ma assicuri che questo adempimento delle condizioni continui nel tempo. Ecco, un accordo del genere mi riesce più difficile considerarlo colonizzazione. Completamente distinta è la questione se l’Italia se ne avvarrà, o quando. Però siamo soddisfatti, perché anche con un incalzante contributo di idee e di pressione politica italiana, il sistema della governance dell’Eurozona si è arricchito di una possibilità che prima non c’era. E che, appunto, non mi sembra proprio di poter chiamare colonizzazione.

Pochi si aspettavano che uno come lei avrebbe messo un veto e paralizzato i lavori di un vertice europeo in piena notte, non trova?
Ma secondo me c’era tutta la giustificazione logica, oltre che tattica, dell’aver detto quella sera del primo giorno: cari colleghi, non accontentiamoci di una proclamazione del growth compact, perché non avrà un effetto neanche psicologicamente apprezzabile se uscendo di qui non avremo un accordo anche su una migliore gestione della Zona euro.

Grecia e Irlanda sono sottoposte entrambe a un programma del Fondo monetario internazionale e dell’Europa, ma presentano atteggiamenti diversi: i greci lo vivono come un’invasione straniera, gli irlandesi no. Certo neppure gli irlandesi amano l’Fmi, per niente, eppure cercano di applicare le riforme nell’idea che siano nel loro interesse. Le fanno proprie, hanno quella che gli economisti chiamano ownership delle riforme. Il risultato è che l’Irlanda cresce e la Grecia decresce. Quanto la preoccupa il tema dell’ownership delle riforme in Italia, ossia la misura in cui gli italiani accettano o meno di «farle proprie»?
È qualcosa di molto importante. Da questo dipendono l’incisività, l’effettiva applicazione, la durevolezza delle riforme, in modo che non siano prontamente reversibili. Il cambiamento costa nella psicologia umana, per questo conta tanto capire perché lo si deve affrontare. Se non altro uno sa per quale motivo deve prendere una certa medicina. Poi c’è un secondo aspetto della cosiddetta ownership, che è: chi l’ha deciso? Ci potrebbe essere un governo tortissimo, un tortissimo leader politico, che senza alcun vincolo europeo riesce a introdurre nel Paese, con una mano di ferro democratica, riforme che sono molto radicali e innovative. Lì Y ownership è indubbiamente nazionale, il Paese fa proprio l’obiettivo che si è dato. Ma nel caso di un Paese dell’Unione Europea come il nostro, che spesso ha avuto bisogno, e che ha saputo utilizzare, l’impulso e il vincolo di Bruxelles, il tema della paternità delle riforme ci riporta al discorso di prima. Noi dobbiamo far proprie anche le riforme che vengono da Bruxelles, perché sono nel nostro interesse e al limite le faremmo anche se non ci fossero richieste.

Proprio qui è il punto: governando lei ha avuto la sensazione che la capacità degli italiani di capire e far proprio un programma di riforme sia sufficiente? Magari in aumento? O in diminuzione?
Per quanto mi riguarda, ho trovato una situazione in cui il potenziale di comprensione e sostegno c’era e abbiamo cercato di tradurlo in azione. Questo governo non è certo nato da un rigetto dell’integrazione europea e dell’economia di mercato. È nato perché quando sono stato chiamato, in Italia c’era uno scarto: da un lato si accettava il quadro europeo, dall’altro si faticava a trame le conseguenze in termini di politica interna e di voce al tavolo di Bruxelles. Per una certa fase ho visto un’identificazione crescente tra la politica del governo, quella del Parlamento italiano – incoraggiato da noi - e il piano europeo. Poi però è iniziato un certo disallineamento. Via via che le riforme e il contenimento della finanza pubblica si sono decisi e applicati, e hanno morso nel vivo, nell’opinione pubblica, nel Parlamento, nei partiti - e anche in me - si è fatta sentire la delusione.

Perché la delusione?
Perché evidentemente c’era qualcosa che non funzionava nel sistema, se pur facendo ciò che era richiesto e ricevendo anche qualche apprezzamento abbastanza presto, non avevamo i benefìci sulle sole variabili che potessero darci giovamento in tempi brevi, cioè i tassi d’interesse. Ne è nata una certa delusione e frustrazione nel governo, in me sicuramente, e in modi e misure diverse anche nel Parlamento. Poi a seconda dei caratteri e delle visioni politiche, nel Parlamento si arrivava a dire: «Vabbè vi votiamo la fiducia ma è chiaro che queste sono cose sbagliate, andavano altrettanto bene o meglio quelli di prima»; oppure altri che ci dicevano: «Insistiamo, però bisogna far sentire di più la nostra voce sul tavolo europeo» e via dicendo. Insomma, se noi paragoniamo i dibattiti parlamentari (provocati dal nostro governo, perché in passato non c’era questa tradizione o era sporadica) di prima del Consiglio europeo di gennaio 2012 con quelli di prima del Consiglio europeo di giugno 2012, be’, è tutto molto diverso: vediamo un tasso decrescente di apertura di credito, di entusiasmo, di sostegno all’Europa e all’azione del nostro governo a Bruxelles. All’inizio il sostegno era molto alto. Poi invece abbiamo visto anche partiti appartenenti alla famiglia politica del partito tedesco di maggioranza relativa prendere posizione in modo marcato contro l’Europa o contro la Germania. E io di queste cose informavo, attiravo l’attenzione dei partner europei.

Il tema dei pregiudizi degli europei gli uni contro gli altri sembra preoccuparla particolarmente. È così?
È un problema che ho sollevato anche in Finlandia e in Germania. Trovo che i capi di governo non possano riunirsi solo per prendere decisioni su come trattare degli epifenomeni e non per ragionare insieme sui fenomeni di fondo, quelli strutturali. Il Consiglio europeo ha una grossa responsabilità in questo senso. Che cosa sta succedendo in Europa, che ci sta facendo rivolgere gli uni contro gli altri? Questi sono i temi politici di fondo, molto più del dubbio se dare la licenza bancaria o meno all’Esm (il fondo salvataggi, N.d.R.). E invece noi leader europei dedichiamo una notte a questo, ma non parliamo mai di quello.

Si riferisce allo stato di guerra psicologica che si riscontra nei media dei vari Paesi?
Questo è veramente grave. Però non è nella psicologia del capo di governo normale, credo; viene vista come una questione da studiosi o da esame delle fondazioni dei partiti, non una cosa da governi e men che meno da quel «governo dei governi» che è il Consiglio europeo. È per questo che ho proposto un vertice speciale al Campidoglio, dove fa firmato il Trattato di Roma nel ’57, proprio per parlare di queste cose.
Sono d’accordo in proposito con un argomento presentato sul «Corriere della Sera» da Emesto Galli della Loggia: lui spiega che le classi politiche nazionali sono frustrate, perché gran parte delle decisioni vengono prese in Europa dove i loro Paesi partecipano, ma molti politici nazionali hanno l’Europa fuori dal proprio orizzonte mentale. Per governare oggi si devono avere capacità nella gestione della politica nazionale, ma capacità altrettanto importanti nella gestione della politica europea: è lì che si prendono tante decisioni destinate poi a riflettersi a livello nazionale. Ma dove eravamo rimasti?

Lei parlava del senso di delusione che a un certo punto si è fatto largo nel Paese, diceva che lei stesso ha iniziato a farlo presente agli altri leader europei. Com’è finita?
Già, qui arriviamo al discorso dello spread. Perché è il misuratore a quotazione continua e in tempo reale che il passeggero di un taxi sente dal tassista e commenta con lui. C’è poco da fare.

Ed è lì che vi siete resi conto che dovevate attaccare il rischio di reversibilità, di rottura dell’euro?
Direi di sì. Però in una prima fase il tutto ha preso la forma logica di un dibattito sui cosiddetti firewall, i muri tagliafuoco dei fondi salvataggi. I firewall uno poi può decidere se usarli o non usarli, ma se hanno altezza sufficiente, cioè forza finanziaria sufficiente, la loro stessa presenza può bastare. Si trattava di qualcosa chiaramente fuori dai compiti della Banca centrale europea: era un meccanismo concepito per Paesi che avessero bisogno di bailout, di un salvataggio. Non c’era ancora una forma di intervento più morbido e tutto apparteneva alla dimensione del salvataggio dei singoli Paesi: salva-Grecia, salva-Irlanda e via elencando. Un po’ per volta poi l’abbiamo girato in salva-euro. Il meccanismo di sostegno ora ha a che fare con il disturbo che questi spread elevati provocano alla politica monetaria europea e alla sua trasmissione omogenea all’interno delle condizioni finanziarie dei vari Paesi. È una grandissima porta d’ingresso nella missione istituzionale della Banca centrale europea. Draghi ha presentato e utilizzato questa tematica con chiarezza. E allora il Paese i cui titoli di Stato possono dover essere sostenuti non è più necessariamente un reprobo. Certo, avrà probabilmente una storia e un pedigree pluridecennale peggiore di altri, ma non è più un reprobo. Con qualche eccezione di illustri presidenti di banche centrali nazionali, nessuno più considera questi interventi di politica monetaria come finanziamenti occulti del Tesoro per ridurre i costi politici della spesa in disavanzo. Sono interventi per la politica monetaria. Insomma c’è stata – come dire? – una de-patologizzazione del sostegno.

Intende dire che non e’è più un marchio d’infamia su un Paese che dovesse chiedere un sostegno europeo?
La prova del budino è nel mangiarlo, adesso c’è grande in"’cerfezza. Di qui questa storia divertente per cui in Europa non si sa più chi consiglia a chi di usare quale strumento e poi glielo dice in faccia oppure lo dice a un altro perché glielo dica. (Ride)

Lei ha trovato molto gratificante il mestiere di commissario europeo. Per questo attuale mestiere è lo stesso? O teme che a volte la facciano sentire un po’ un corpo estraneo o un ospite appena sopportato in questa macchina amministrativa che, dice il suo ministro Fabrizio Barca, è da registrare?
A Bruxelles per un periodo iniziale abbastanza lungo mi sentivo frustrato, anche perché avevo la responsabilità per uno degli aspetti più difficili a causa dell’esiguità e della lentezza dei poteri della Commissione sul mercato interno. Ma soprattutto non ero rodato io per un’esperienza del genere, anche se avevo molta conoscenza teorica sull’Europa. Dopo no, dopo non ho più trovato frustrante quell’esperienza, anzi. Ora qui sarei un corpo estraneo? E strano, perché sono un corpo estraneo; però questa situazione sta dando a questo corpo estraneo una qualche centralità.

Dunque trova questo mestiere piuttosto gratificante che fru-strante, grazie alla capacità di influire e di agire?
Quella non si può negare che ci sia, poi si può agire bene o male, con più o meno risultati. Ma non è che gli strumenti non ci siano. Dunque no, non trovo questo mestiere frustrante. Ovviamente c’è un’oscillazione, soprattutto nei primi tempi era così; poi uno impara a diventare più insensibile e soprattutto a mostrare meno se è sensibile. Comunque gli alti e bassi sono orari, quotidiani. Ci sono cose che danno grande soddisfazione, altre che danno grande frustrazione e bisogna imparare a incassare e ripartire. Ma frustrante nel senso dell’impotenza, no. Alcuni risultati sono molto più lenti a manifestarsi di quanto pensassi, questo è certo. Però se ne è fatta tutti insieme un’analisi, si è cercato di farla validare in Europa e di apprestare gli strumenti conseguenti.
E vorrei aggiungere una cosa che non significa niente per il mio futuro, ma è oggettivamente vera: se i problemi che l’Italia manifestava in modo acuto nel novembre 2011 sono il risultato non tanto di particolari governi recenti, quanto del non aver affrontato certi nodi strutturali per anni o decenni, questa non può che essere un’operazione lunga anni o decenni. Ma non ho la frustrazione che deriva dal sapere che non sarò io a vederne il compimento. Sarò già molto contento se saranno stati messi alcuni semi; speriamo diano delle pianticelle presto e che persuadano ad andare avanti con tutte le correzioni del caso.

Dopo le elezioni, riesce a immaginare di ritrovarsi di nuovo in queste stanze?
So che ci può anche non credere, ma sinceramente cerco di pensare agli effetti di lungo periodo delle politiche, rimuovendo completamente quest’aspetto più personale. E continuo a pensare che, se vogliamo che il nostro governo dia un buon contributo, i miei colleghi e io dobbiamo prescindere da considerazioni sul nostro futuro personale. Ormai non c’è un solo interlocutore straniero che non mi faccia questa domanda. La fanno in genere riguardo al mio futuro. Ma anche a loro do lo stesso tipo di risposta. Se dovessero crearsi circostanze in cui mi fosse chiesto dalle forze politiche di servire ancora il Paese, non escludo niente. Ma, come ho detto a fine settembre al Council on Foreign Relations di New York, credo e spero che tali circostanze non si verifichino e che i partiti possano presentare i loro candidati - non me - come primo ministro. Se poi ci sono forze che intendono sviluppare anche nella prossima legislatura il programma di riforme del mio governo, lo prendo solo come un segno che forse il nostro lavoro non è stato inutile.

Luigi Einaudi, economista, professore alla Bocconi, editorialista sul «Corriere», poi figura chiave delle istituzioni repubblicane, ha raccolto alcuni dei suoi scritti sotto il titolo Prediche inutili. Negli articoli qui raccolti a lei capita spesso di richiamarsi a Einaudi. Già nel ’92, ali’inizio del percorso di questi vent’anni di scritti, presentando il suo libro II governo dell’economia, Michele Salvati sottolineò in che modo a suo parere lei sia erede di Einaudi. Si sente guidato da quell’esempio? E sente quell’«inutili» nel titolo come il segnale di quanto sia difficile affermare la sua visione?
Einaudi è stato una personalità di livello e con un’influenza a sé stante, incomparabile con i casi presenti. E credo che quel l’«inutili» non sia civetteria. È un grave problema per Pitalia che l’insegnamento di cultura politico-economica di Einaudi abbia avuto scarso seguito. Mi ha sempre colpito - e ne ho scritto - il parallelismo fra lui e gli economisti tedeschi della scuola di Friburgo. E interessante guardare ai percorsi successivi. In Italia Einaudi è assurto alle più alte cariche dello Stato, ma il suo pensiero non ha trovato molta applicazione. Invece i maestri tedeschi della scuola di Friburgo non hanno mai avuto questo stesso percorso politico, però le loro idee sono quelle che poi Ludwig Erhard (ministro delle Finanze e poi cancelliere della Repubblica federale tedesca negli anni Cinquanta e Sessanta, N.d.R.) ha ripreso e che sono diventate parte integrante dell’economia sociale di mercato. Purtroppo temo che abbia ragione Einaudi a scrivere di prediche «inutili».
Nel mio caso, modestissimo, non ho avuto una sensazione di inutilità. In gran parte ho ripreso le idee di Einaudi. Ma forse perché nel frattempo era arrivata l’Europa - anche se non all’inizio, devo dire - o forse perché erano cambiati i tempi, non solo perché io scrivevo queste cose per il «Corriere», molto si è fatto sulla traccia di Einaudi: l’apertura dei mercati, certe liberalizzazioni, il divorzio fra Tesoro e Bankitalia.
Ma qui ci sono due aspetti diversi. C’è l’aspetto «prediche», che io ho fatto da economista e collaboratore del «Corriere» e non in un ruolo istituzionale. E nel mio caso, sono lieto di doverlo riconoscere, il sistema politico dell’epoca è stato meno indifferente, più percettivo. Poi c’è l’altro aspetto; cercare di vedere in che misura io abbia o non abbia fatto, adesso che sono al governo, ciò che a suo tempo raccomandavo come necessario. Spero almeno che, su entrambi, chi legge questo libro possa farsi un’idea più precisa.

Federico Fubini