Francesca Pacii, La Stampa 16/11/2012, 16 novembre 2012
ISRAELE E GAZA [C’è
pericolo di una guerra?] –
La crisi tra Israele e Gaza, seguita all’assassinio del leader di Hamas Jaabari, ha raggiunto Tel Aviv, colpita da un razzo. Siamo alla guerra?
La tensione è altissima e il botta e risposta (razzi da Gaza e raid israeliani) è andato avanti per tutto il giorno: il bilancio provvisorio è di 16 morti palestinesi e tre israeliani. Il razzo atterrato nel mare di Tel Aviv - è la prima volta dalla Guerra del Golfo del 1991 - è stato rivendicato dalla Jihad Islamica, un gruppo alla destra di Hamas. Israele replica che Hamas sta scherzando con il fuoco.
Quali sono i possibili scenari?
Gli analisti valutano seriamente la possibilità che Israele decida l’intervento via terra, almeno a giudicare dal numero di riservisti richiamati nelle ultime ore (30 mila). Il premier Netanyahu ripete che l’eventuale escalation dipende da Hamas e porta come prova i 250 razzi sparati ieri da Gaza verso Israele, 80 dei quali intercettati dal sistema di difesa anti-missilistico Iron Dome. Lo spettro all’orizzonte è quello dell’operazione «Piombo Fuso», l’offensiva militare di tre settimane lanciata tra il 2008 e il 2009 in risposta alla pioggia di razzi provenienti da Gaza e costata la vita a 1400 palestinesi.
Che differenza c’è tra oggi e la situazione del 2008 2009?
Innanzitutto i negoziati israelo-palestinesi che quattro anni fa erano in cima all’agenda del governo Olmert, sono a un punto morto, tanto che il presidente Abu Mazen si prepara a chiedere all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore (non membro). Ma soprattutto c’è l’eco dalla primavera araba che investe la regione. La crisi siriana ha acceso il Golan, dove per la prima volta dal 1973 c’è stato uno scambio di colpi tra Damasco e Israele. La Giordania contiene a stento la spinta della piazza che protesta contro la monarchia riluttante alle riforme e al caro-petrolio e ora anche contro l’intervento israeliano a Gaza. Il Libano, dominato dall’arcinemico Hezbollah, trema a ogni sparo che si ode dalla Siria. E infine l’Egitto, dove a custodire l’accordo di Camp David non c’è più il filoccidentale Mubarak ma il Fratello Musulmano Mursi.
Come sta reagendo l’Egitto?
Il presidente Mursi ha definito inaccettabile l’attacco israeliano e ha convocato il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma la diplomazia si muove con cautela sul fronte Usa. Per ora è stato richiamato l’ambasciatore egiziano in Israele (lo stesso è avvenuto con quello israeliano al Cairo). Ma mentre le piazze egiziane protestano a favore dei palestinesi, il ministero degli esteri preme su Washington perché fermi un’escalation che di certo non converrebbe al Cairo (schierato ideologicamente con i palestinesi ma bisognoso dell’aiuto economico occidentale e impegnato con gli israeliani nel contenimento dello jihadismo nel Sinai). Nel frattempo l’esercito egiziano ha mandato rinforzi alla frontiera con Israele e il premier egiziano Kandil dovrebbe visitare oggi la Striscia di Gaza.
Qual è la situazione a Gaza?
Il partito islamico Hamas, che aveva vinto le elezioni palestinesi nel 2006 preoccupando l’Occidente al punto da vedersene negata la legittimità, controlla Gaza dal 2007 dopo la guerra civile con il fratelli coltelli di Fatah. Da almeno un paio d’anni però Hamas fronteggia la crescita di una frangia integralista alla sua destra, salafiti e islamisti irriducibili alla tregua con Israele. L’ala più politica di Hamas, legata ai Fratelli Musulmani ma anche al Qatar (il cui emiro è stato da poco in visita a Gaza per investire nella ricostruzione della Striscia), è in difficoltà. Secondo il pacifista israeliano Gershon Baskin, ex mediatore tra Israele e Hamas per il rilascio di Gilad Shalit, gli ultimi raid israeliani potrebbero essere un errore perchè indebolirebbero ulteriormente la frangia possibilista al dialogo. Secondo Baskin, Jabari è stato ucciso mentre era in corso una trattativa per una tregua permanente con Israele.
Come si sta muovendo la comunità internazionale?
Da un lato c’è l’occidente, capitanato dagli Stati Uniti, che ribadisce il diritto di Israele all’autodifesa ma chiede di fermare l’escalation e risparmiare «vittime civili». Dall’altro ci sono i Paesi arabi, tra cui brilla quel Qatar ultimamente iperattivo nella regione, compatti nella condanna d’Israele (la Lega araba ha convocato per sabato una riunione d’emergenza). In mezzo si barcamenano la Turchia e la Russia che puntano l’indice contro Israele (Ankara più duramente), ma stanno tentando di lavorare sul piano diplomatico per impedire la guerra.
A cosa punta Netanyahu?
L’ipotesi politica più gettonata è che il premier israeliano voglia arrivare alle elezioni del 22 gennaio con i muscoli in mostra, anche per mandare un messaggio al suo predecessore nonché possibile sfidante Olmert. La versione dei militari è invece che fosse il momento di mandare un segnale forte al fronte salafita sempre più forte a Gaza, da cui il lancio di razzi si è intensificato negli ultimi mesi.