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 2012  novembre 16 Venerdì calendario

ADDIO DI KERTÉSZ DOPO ROTH QUANDO SCRIVERE STANCA

Qualche giorno fa, sollevando una globale e commossa reazione fra i suoi lettori, Philip Roth, dopo 26 libri di grande successo, ha comunicato che non scriverà più romanzi. Ebbene, quasi a riprendere il discorso, il quotidiano spagnolo El Paìs ieri ha annunciato che anche Imre Kertész, Premio Nobel ungherese del 2002 e capofila della cosiddetta “letteratura della Shoah”, seguirà la medesima strada. Autore del romanzo autobiografico Essere senza destino, egli ha insomma dato addio a oltre quarant’anni di scrittura, documentati nel suo Diario dalla galera.
Così, dopo il narratore americano, ora a tacere è anche colui che aveva rivendicato «l’esigenza di testimoniare, come se fossi l’ultimo che vive e che può proferire parola». Lo stesso che oggi dichiara a un sito ungherese: «Non voglio più scrivere. L’opera collegata con l’Olocausto ha rappresentato la mia conclusione ideale». Unico spiraglio, le parole sussurrate poi allo Spiegel: «Il destino è imperscrutabile».
Scrivere stanca, dunque. Hanno 79 anni il primo e 83 il secondo: eppure sarebbe sbagliato credere che una simile rinuncia sia solo l’esito dell’età avanzata. Infatti sono molti gli esempi di coloro che hanno voluto imboccare questa strada nel pieno delle forze. Innanzitutto c’è il caso Rimbaud, la meteora, che appena diciassettenne piombò su Parigi per rivoluzionare la poesia dell’Occidente e quindi scomparire. In lui, notò Mario Matucci, il senso “schianta e fugge”. Infatti, dimenticata rapidamente la letteratura, poco dopo Rimbaud iniziò a girovagare nei circhi di mezza Europa, per poi passare al commercio di armi in Etiopia, e infine morire, con una gamba amputata per cancrena, a soli 37 anni.
Un altro nome da fare è quello dell’inglese Edward M. Forster, che dopo Passaggio in India abbandonò i romanzi per la saggistica a meno di 50 anni (gliene rimasero altri 40 da vivere). Il più originale, invece, fu forse il messicano Juan Rulfo (lo ha ricordato Luigi Mascheroni sul Giornale), che smise di comporre dopo aver pubblicato due capolavori quali La pianura in fiamme e Don Pedro Páramo.
A chi gli chiedeva il motivo di tale scelta, pare amasse rispondere: «Perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie ». Quanto al campione fra i campioni recenti, resta naturalmente l’autore del Giovane Holden. Infatti, a partire dal 1965, Salinger non soltanto cessò di scrivere, ma anche di apparire in pubblico.
Per orientarsi in questa strana famiglia, la guida migliore resta comunque Enrique Vila-Matas, che in Bartleby e compagnia è giunto a teorizzare la “sindrome di Bartleby in letteratura”.
Essa non sarebbe altro che la pulsione negativa o l’attrazione per il nulla, in base a cui certi creatori finiscono per non scrivere più, oppure scrivono uno o due libri e poi rinunciano, oppure ancora, dopo aver cominciato, un bel giorno rimangono paralizzati per sempre. Da qui la conclusione: «Esistono tanti modi di abbandonare la letteratura quanti sono gli scrittori».
I modi sono molti, è vero, eppure in ognuno di essi rimane sempre una profonda impressione di congedo – l’interruzione di una trasmissione. Perché non si scrive per sé, bensì per gli altri, e in questo senso smettere di scrivere significa sospendere il contatto con quell’Altro per eccellenza che è il lettore. Ecco la ragione per cui, rinunciando alla pagina, un autore non cancella tanto il se stesso futuro, quanto la sua futura relazione con il pubblico, e dunque tace, si arrende, volge le spalle alla comunità di cui fa parte e che rimarrà orfana della sua voce.