Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 16 Venerdì calendario

LA CENTESIMA MAGIA CHIAMATA DAVIS DALLE SFIDE SNOB AL TIFO DA STADIO

[Da oggi a Praga Repubblica Ceca-Spagna, finale n. 100 della coppa riservata alle nazionali di tennis Ideata nel 1897, ha difeso il posto nel calendario ed è diventata un evento che coinvolge 122 paesi] –
È la centesima edizione della Coppa Davis, e qualcuno si chiederà, forse, perché esiste, chi ebbe l’idea. Per scriverne un libretto pubblicato nel 1978 dall’amico tennista Giorgio Mondadori, dal titolo “Il Grande Tennis”, mi ero recato a Boston, in una casetta non lontana dallo storico Longwood Cricket Club (sede dei primi Campionati Americani). Lì mi aveva ricevuto il Dottor Richard Dwight, figlio del Dottor James Dwight, che mi aveva offerto un tè e mi aveva detto: «Come lei ricorda, Mr Clerici, mio padre James era stato il primo americano a giocare in Europa, e gli inglesi lo avevano classificato, onore mai toccato a uno straniero, al n. 8. Quando il cuore più non gli permise le gare, insieme ad un suo pupillo, Dwight Davis (non confonda il cognome con il nome di battesimo) si mise in testa un’idea fissa, quella di organizzare un incontro con gli inventori del Lawn Tennis, gli inglesi». Le leggi della buona educazione mi spinsero a non citare le origini franco-ispano-italiane rinascimentali, e sorseggiai il tè. «Ecco la lettera degli inglesi» continuò Richard Dwight, mostrandomi un foglio ingiallito, del 1897: «La Lawn Tennis Association pensa che sia desiderabile, nell’interesse del gioco, organizzare
un match tra il Regno Unito e gli USA». Tre anni più tardi, si sarebbe svolto il primo incontro, il cui merito è da condividere con un pupillo del Dottor James Dwight, Dwight Davis: curiosamente battezzato con un nome simile all’altrui cognome. Giovane membro dello storico Longwood Cricket Club, giocatore tra i primi del suo paese, Davis era ritornato da una tournée in California con l’intenzione di sviluppare rapporti tennistici sin lì inesistenti tra gli Stati Americani. E, nei dialoghi con il Dottor Dwight, nacque l’audace idea di superare addirittura l’Atlantico. Un’idea concretata con l’acquisto presso gli orafi Crump e Lowe di un enorme bowl di 217 once d’argento, da allora denominata Coppa Davis, e, da chi non conosce le lingue, “Insalatiera”.
Avvenne così che, il 4 agosto del 1900, dal vapore Campania, scendessero a New York tre britannici: il banchiere Gore, detto Baby per la sua statura di 1 e 65, battuto a Wimbledon in finale da Reggie Doherty, lo scozzese Ernest Black e H. A. Nisbet, entrambi sconfitti nella finale del doppio a Wimbledon dai mitici Doherty, i Federer del tempo, grazie alle loro 9 vittorie complessive. «Come mai» osai chiedere, «non si erano resi disponibili i mitici fratelli Doherty?». «Con la loro storica presunzione, gli inglesi avevano pensato che bastasse la loro squadra B»mi fu risposto. I britannici dovettero al contrario convincersi di non essere i soli depositari della scienza tennistica. Lo stesso Dwight Davis e il campione USA Mal Whiteman li sommersero nei due singolari iniziali e nel doppio, prima che una pioggia temporalesca mettesse fine all’avventura. Anche nel 1902 i Doherty, abituali vacanzieri in Costa Azzurra, allora dominion del
tennis britannico, preferirono astenersi, e gli Stati Uniti rinnovarono il successo, sinché, dichiaratIsi disponibili i due Più Grandi Fratelli di Tutti i Tempi, nel 1903 la Coppa prese la via del Regno Unito.
Da quegli incontri bilaterali, la Coppa Davis avrebbe iniziato il suo cammino mondiale, con la partecipazione di altri paesi, primi tra gli europei il Belgio e la Francia nel 1904. L’arrivo dell’Italietta fascista sarebbe avvenuto soltanto nel 1922, con un esordio, guarda caso, proprio in Gran Bretagna, e una sconfitta per 4 a 0. Si era, nel frattempo giunti ad una competizione davvero mondiale, in cui, come nel torneo di Wimbledon, il Vincitore dell’anno precedente fruiva del diritto di attendere in finale il Challenger, lo Sfidante. Simile struttura venne purtroppo osteggiata proprio da un connazionale, uno dei tanti immeritevoli presidenti della federtennis, Luigi Orsini, e su un suo suggerimento la struttura divenne simile a quella di un banale torneo di calcio a partire dal 1972, con una Finale tra i detentori USA e la Romania, a Bucarest, in cui andò a vuoto un tentativo di furto, perpetrato da un paio di patrioti travestiti da giudici di linea, incoraggiati da un popolare consenso che spinse lo Scriba al grido di “Ladri”, in seguito al quale venne minacciato e arrestato.
Ma non solo in quella Bucarest del compagno Ceausescu accaddero nefandezze tipiche dell’oscena malattia soprannominata tifo. Tra gli altri, ebbero a distinguersi gli italiani del Porro Lambertenghi di Milano, spesso autori di furti nel corso di incontri il cui protagonista Gardini, detto il Vampiro, eccitava gli animi con un atteggiamento non certo da gentleman. Ci furono luoghi e stadietti, soprattutto nei paesi slavi (Jugoslavia docebat) e in Sudamerica (tre soli anni addietro, match interrotto tra Cile e Argentina) nei quali il nemico veniva contrastato con strumenti tipicamente calcistici. Tutto ciò spinse lo Scriba a riflettere, e a ritenere che l’invenzione di Dwight Davis fosse complementare al suo destino, che gli consentì l’accesso al titolo di Sottosegretario alla Guerra. Rimasi più volte a domandarmi, anche sul vecchio Giorno, se una gara a squadre, per di più nazionali, non fosse contraria alla filosofia del gioco, nata da contese individuali e non di gruppo. Una gara in cui lo spettatore si immedesima col proprio paese, e non con il campione, che spesso della propria Nazione non condivide le caratteristiche. Chauvin, per citare il famoso caporale di Gioacchino Murat, non fu mai un bell’esempio di sportivo né di francese.
Felicemente sopravvissuta alle sue colpe e al suo calendario, che complica quello dei tornei, la Davis ha più volte cambiato formato, è ora divisa in una Serie A con sedici squadre oggetto di possibile retrocessione, e una B, più una C e una D con varie suddivisioni geografiche, tali dal portare il totale dei partecipanti al rispettabile numero di 122. Se trovate comunque su una bancarella un dimenticato libretto dal titolo Il Grande Tennis, ne potrete sapere di più.