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 2012  novembre 09 Venerdì calendario

IN BARCA CON SOLDINI OVVERO, UNA COSA MERAVIGLIOSA CHE NON FARÒ MAI PIÙ


A un certo punto, al terzo giorno di navigazione fra La Spezia e Cadice, mentre Maserati con le sue vele immense passa a sud di Ibiza, Giovanni Soldini mi prende per un braccio e mi spinge sottocoperta. «Stai mangiando poco, tu. Vieni con me. Se non ti nutri bene, in barca non vai da nessuna parte». C’è un sole caldissimo, fuori, e il ciclo pulito di ottobre. «Ecco» fa, mentre stappa una bottiglia di vino avvicinandomi una cuccuma in cui ha calato una Carbonara fumante. Ci ha pensato lui, insieme a Michele Sighel, un fotografo trentino che ha lasciato tutto per la vela, e a cui Soldini ha rivelato i suoi segreti. Ossia: le misure, il tempo e la capacità di ascoltare la portata del fischio della pentola a pressione. Perché tutto si cucina solo nella pentola a pressione, sulle barche di Soldini. Velocità e arte da stregoni: bisogna conoscere il perfetto equilibrio fra acqua di mare e acqua desalinizzata, tempi di cottura dei cibi e capacità di non farsi trarre in inganno dal fischio della pentola sospesa sul fornello basculante. Niente sprechi di acqua, di sale, di padelle, di energia. Mantenimento di calorie e sapori. È in quel momento che capisco: la pentola a pressione domina sul ventre delle barche di Soldini, lui è il re di quel ventre e questo è il segreto che ne fa uno dei più straordinari navigatori dei nostri tempi.
Non è una battuta. Una battuta può sembrare solo a chi non abbia passato dei giorni su una di queste barche, scendendo via via più in basso sottocoperta, nelle viscere del proprio corpo, nelle viscere insondabili del nostro essere umani, dove non c’è altro che necessità. Dormire, bere e mangiare, evacuare. Nel corpo oscuro di queste barche non c’è spazio per nient’altro e, se qualcosa in più è possibile, è lì che si annida il motivo che rende alcuni navigatori completamente diversi dagli altri. Sono quelli che tengono la barra dritta su una questione di fondo: bisogna sapere bene come curare le viscere per riempire davvero le vele, bisogna elevare la natura che è in noi se si vuole affrontare la natura che è fuori di noi.
Del resto, tutto, qui, si gioca in un duello fra dentro e fuori, fra sotto e sopra. Ignari di questo duello, noi spettatori inconsapevoli siamo abituati a contemplare ciò che è fuori: lo scafo leggerissimo che vola sul filo dell’acqua, la strumentazione di bordo ultramoderna che accompagna manovre di velocità spettacolare, le vele da sogno (su un albero alto 32 metri, la randa di Maserati misura 170 metri quadri, un superattico insomma). Quel che è sotto – pensiamo – importa poco, e se siamo costretti a disegnarne lo spazio, immaginiamo computer stellari e qualche comfort in tono minimalista.
Niente di tutto questo. Quando sono sceso per la prima volta sottocoperta di questo mostro che Soldini ha completamente smontato e rimontato con mille accorgimenti e innovazioni per tentare il record epocale della New York-San Francisco passando per Capo Horn, ero sbalordito. L’aggettivo che abbiamo rubato a Sparta, non rende l’idea. Pareti nere di carbonio («Una mano di bianco?» ha riso lui. «Sai quanto pesa la vernice?») completamente spoglie se non per le maniglie cui aggrapparsi per muoversi durante la navigazione. Nessun orpello: l’interno di Maserati è come un tubo lungo 20 metri, interrotto da due paratie stagne da chiudere in caso di falla. Paratie che dividono tre ambienti. A poppa, gli strumenti necessari alla navigazione; nel corpo centrale – sui lati – brandine appese alle pareti e regolabili a seconda dell’inclinazione dello scafo, in mezzo computer, radar, mappe, rotte, internet, telefoni satellitari collegati ai pannelli solari; a prua, contenitori numerati per le borracce (ogni membro ha la sua, l’unico spazio davvero intimo), ganci cui legare l’equipaggiamento, contenitori zeppi di cibo e un lavandino su cui tremolano un tubino per l’acqua di mare e uno per l’acqua desalinizzata, infine due fornelli basculanti: uno per il bollitore e uno per la pentola a pressione. Nient’altro, niente di ciò che siamo abituati a vedere sulle barche che conosciamo. Niente luce (si gira con lucine appese sulla fronte come minatori), nessun luogo dove sedersi, nessun bagno dove lavarsi, nessun cesso. Solo un secchio dietro la breve parete del cucinino, il secchio azzurro da riempire di un filo d’acqua per evitare che qualcosa ci resti attaccato dentro quando lo si svuoterà in mare.
Questa visione filmica del ventre di Maserati, però, non corrisponde affatto alla visione che se ne può avere quando il vento comincia a far correre la barca. Ormeggiata nel porto della Spezia, prima di iniziare il trasferimento verso Cadice, eppoi verso Charleston, tutto stupiva per la semplicità. Ma è bastato poco e ogni cosa ha cambiato letteralmente verso. «Lascia che arrivi un bei po’ di vento e vedrai» rideva Soldini dopo avermi ammaestrato sulle questioni più importanti, la prima delle quali «tenersi sempre aggrappati, perché se cadi in mare, ritrovarti è in salita».
Il vento è arrivato in poche ore, assieme a badilate di acqua come violenti ceffoni in faccia. Si volava a 27 nodi, la velocità di un motoscafo (Maserati, scendendo da un’onda, ha toccato la punta dei 38) e sono corso giù a indossare l’indumento che unico può salvarti: la cerata. Allora il mondo si è capovolto. Il ventre nero della barca assomigliava a una lavatrice. L’acqua entrava a fiotti. Tutto era fradicio. Impossibile restare in piedi. Un’impresa, infilarsi la cerata. Questo vestito che appare bello, quasi elegante, è di una scomodità forse seconda soltanto al vestito da torero. Come in quel caso bellezza e scomodità concorrono a evitare le corna del toro, in questo bellezza e scomodità si alleano a combattere l’acqua. Ma nulla può combattere le leggi di gravità. Cercavo qualcosa cui attaccarmi per sgusciare fuori. Lo scafo rimbalzava fra le onde e ogni volta che cozzava sul mare pareva sul punto di andare in mille pezzi. Sono volato sul fianco della barca, ho raccolto le forze per trascinarmi sul ponte. Mi ripetevo, digrignando i denti, che sottocoperta si può rimanere solo per dormire e assecondare le necessità basiche della nostra natura. Lo giuravo: sottocoperta non sarei tornato mai più. Giuravo il falso.
In effetti, avrei potuto capirlo subito guardando Soldini scendere giù. Era finito il suo turno, andava a riposare. L’ho visto saltellare sulle scalette, infilarsi come se nulla fosse in cucina, tirare fuori qualcosa da smangiucchiare. L’ho spiato mentre camminava indietro morbido, elegante come un ragno incollato alla superficie, prima di sparire. Mi sono affacciato al boccaporto. Si era steso su una vela piegata sotto le scale bagnate e già russava. Al timone adesso c’era Jianghe Teng, cinese, detto Tiger. Quest’anno, Maserati ha messo insieme un equipaggio in cui regna il multiculturalismo: tre italiani, due francesi, un americano, un cinese, un tedesco, uno spagnolo. Sembra una barzelletta, ma la filosofia di Soldini è che tutti sappiano fare tutto e che ognuno porti al gruppo la sua personalità e la sua esperienza, perché la parola d’ordine è mettersi in discussione, imparare da chi è al tuo fianco e superarsi. Da un punto di vista logistico, tutti ruotano accanto a tutti. In squadre costituite da due persone, ci si succede ai comandi seguendo turni di quattro ore che s’intrecciano. Sopracoperta restano sempre quattro uomini e il timone spetta a tutti, uno dopo l’uno. «Timonare è un’arte che non s’impara. Ci nasci, è una sorta d’istinto» mi ha spiegato. «Timonano benissimo i ciechi. E qui devono timonare tutti». Il cinese, per esempio, l’istinto ce l’ha, eccome. Trentottenne, Tiger era un businessman di successo fino a due anni e mezzo fa, quando il fenomeno della vela ha raggiunto la Cina. Allora il mare lo ha chiamato alla scelta definitiva: ha chiuso le sue imprese e ha cominciato a veleggiare. Un giro del mondo, la voglia d’imparare, l’umiltà. «Conta soprattutto l’attitudine. La disponibilità. Non essere ansiogeni. Non incazzarsi. A bordo non si litiga mai, le tensioni, semmai, vengono fuori a terra».
A bordo del resto si lotta innanzitutto per non lasciarci la pelle, ma a questo non si pensa mai. «Nei momenti difficili, si seguono i pensieri articolati della preparazione, non le paure. I guai veri possono capitare a chiunque, ma soprattutto a chi è troppo fiducioso o troppo ignaro» mi spiega Guido Broggi, il maggior esperto italiano dei cavi in fibre per tenere su l’albero. Sul petto, Broggi ha tatuati i gradi di longitudine e latitudine in cui si trovava con Soldini quando la loro barca, Fila, cappottò, nel 1998, il giorno tragico in cui Andrea Romanelli, amico e compagno storico di Giovanni, non tornò più a bordo. Quando parla dei momenti più difficili della sua vita di velista, Soldini evita i toni solenni, ripete che la preparazione è tutto, ma poi lo scarto dominato dalla sorte è sempre lo stesso e all’interno di quello scarto c’è ben poco da fare. «La verità è che in mare, ovunque tu sia, il giorno sbagliato caghi sangue». Inutile farla troppo lunga. Ryan Breymaier, l’americano, è lapidario: «Pensare crea solo problemi».
Forse esagera. Ma è così che si vive sul ponte di Maserati, lottando continuamente perché la barca esprima al massimo le sue potenzialità, spostando tutti i pesi a bordo a ogni virata (prima le vele di ricambio sopracoperta, un migliaio di chili e molto più se bagnate, poi tutti i bagagli e il cibo sottocoperta, un altro migliaio di chili – sui 12.000 complessivi che pesa Maserati), sempre controllandosi a vicenda, in tasca perennemente l’Epirb, lo strumento che individua la posizione dell’uomo in mare nel caso malaugurato di una caduta.
Eppure è sotto che si deve tornare. È sotto il segreto. E avrei potuto capirlo subito. «Ragazzi che succede?» aveva gridato Soldini svegliandosi immediatamente da quel suo primo sonno sopra le vele, appena sul ponte qualcosa sembrava andare storto. Già lì avrei potuto capirlo. È nel modo in cui si dorme, nel modo in cui si mangia e si curano le viscere e dunque la psiche che sta il segreto del grande navigatore. È sottocoperta, nell’oscurità in cui solo le prime necessità possono essere soddisfatte, che si cela il segreto. Ma in quel momento, nelle prime ore di navigazione, il ventre nero di Maserati per me era solo una lavatrice e i suoi tesori erano soltanto i computer, le mappe, le rotte, il meteo che va studiato di continuo. Dovevo aspettare il sole passando sotto Ibiza, quando dalla pentola a pressione è uscita la Carbonara, Soldini ha stappato il vino e l’equipaggio ha festeggiato. Tiger incredulo, abituato com’è al divieto di bere anche caffè a bordo. Ryan sconcertato: «Sulle altre barche si pensa solo a competere, a correre e vincere, mai a mangiare. Figuriamoci cucinare. Al massimo cibi liofilizzati».
La notte, due giorni dopo, mentre Maserati taglia il mare nero risalendo Gibilterra, Giovanni Soldini al timone non guarda le vele ma l’acqua in cui grumi di plancton fluorescenti passano veloci disegnando l’increspatura sottile delle onde. Il vento è leggero ma ancora per poco. Arriveranno 35 nodi da combattere di bolina fino a Cadice. Soldini lo sa e si prepara. Tutti sono pronti. Abbiamo mangiato cous cous. Regna un silenzio gonfio di attesa e io penso che in fondo è qui che si apre la grande distanza che separa due mondi. Da una parte, quei navigatori specialisti e velocisti, soprattutto anglosassoni, protestanti epigoni di una tradizione industriale, che ha sempre visto la natura come nemica, la natura da conquistare e sottomettere. Dall’altra, quei navigatori che ereditano semmai la tradizione degli esploratori e sanno che la natura va accudita e conosciuta per prevederla e conviverci. Solo questi ultimi conoscono il perfetto equilibrio fra ciò che è sotto e ciò che è sopra, ciò che è dentro e ciò che è fuori. Perché adeguandosi alla natura sanno anche bene in cosa la natura umana può essere almeno un po’ viziata. Sanno come scendere nelle viscere della propria psiche. Allora, mentre nel buio cerco d’intuire le Colonne d’Ercole che abbiamo ormai superato, saluto tutti e scendo sottocoperta.