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 2012  novembre 15 Giovedì calendario

IL MICROCOSMO DELLE BASI MILITARI

C’ è una scena, nel film «We Were Soldiers», in cui la moglie del colonnello Hal Moore, interpretato da Mel Gibson, si ribella al protocollo marziale. Gli uomini del reparto comandato dal marito stanno morendo in Vietnam, e la regola prevede che una fredda delegazione di soldati porti la notizia alle vedove. Logico, ma terribilmente disumano. Perciò Madeleine Stowe, interprete di una donna che potrebbe essere Holly Petraeus, si mette di traverso: pretende dai militari la consegna delle lettere di lutto, e va lei di persona a portarle alle altre moglie che stanno perdendo i loro uomini nella sanguinosa battaglia di Ia Drang. Finché le lettere non cominciano a raggiungere anche le amiche con cui ha cominciato questo servizio pietoso.
Non si può capire la singolare vita dentro una base americana, senza tenere a mente questo episodio. Non sono solo luoghi di lavoro, ma comunità autosufficienti in cui si divide tutto: dalle nascite alle morti, che fanno parte della realtà quotidiana, e non della fiction cinematografica. In un microcosmo come questo, è naturale che accada tutto quello che succede nelle altre esistenze: amore, odio, amicizie, tradimenti, straordinari successi e dolorosi fallimenti.
Le basi sono città, dove le famiglie dei militari cercano di vivere nella maniera più normale possibile. A Guantanamo, pochi mesi dopo la costruzione del primo Camp XRay, c’era persino un centro per le immersioni subacquee, gestito chissà perché da un tedesco. La mattina i mariti andavano ad interrogare i terroristi di al Qaeda, e i figli a scuola, mentre le moglie facevano la spesa allo spaccio-supermercato. La sera poi si andava al cinema, e nei fine settimana si faceva il barbecue all’aperto.
A Fort Hood, la sterminata base della Cavalleria in Texas, incontrammo una signora che lavorava come volontaria nell’ufficio incaricato di recuperare i veterani colpiti dal Disturbo post traumatico da stress . Suo figlio faceva il pilota di elicotteri in Iraq, e lei ci disse piangendo che lavorava in quel posto nella speranza che qualcuno altrove si sarebbe occupato del suo ragazzo, se per disgrazia avesse avuto bisogno di aiuto.
Forse in Italia le cose stanno cambiando, ma quando noi eravamo sotto le armi i rapporti fra le caserme e la popolazione locale non erano facili. In America invece le basi sono così grandi e importanti per l’economia, che la popolazione locale si mescola e si confonde. In una città come Tampa, la MacDill Air Force Base che ospita lo US Central Command è l’istituzione più importante. A Norfolk, in Virginia, la basa navale è la città, e West Point sarebbe solo una roccia dimenticata sopra un’ansa del fiume Hudson, se non ospitasse l’Accademia che ha formato gli ufficiali da Custer a Petraeus, passando per Eisenhower e Buzz Aldrin. Perciò è facile che i civili si avvicinino, come volontari o per curiosità, perché vogliono aiutare sinceramente i militari o partecipare alla loro vita sociale.
Se poi le basi sono comandate da stelle come i generali Petraeus e Allen, è normale che si facciano sotto anche gli arrampicatori sociali.
È un rapporto che funziona a doppio binario, nel bene e nel male. Per esempio nella fortunatissima serie televisiva “Army Wives”, che da sette stagioni racconta su “Lifetime” la vita di un gruppo di mogli nella fittizia base di Fort Marshall a Charleston, si parla anche dei “jody bar”, i bar dove i civili vanno a rimorchiare le donne annoiate dei soldati schierati al fronte. È la vita, che è fatta così. E le basi sono la vita, per queste persone.