Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 02 Venerdì calendario

WELCOME DEUTSCHLAND AUF WIEDERSEHEN AMERICA [A

dieci anni dalla fine della guerra la Germania era già la terza potenza. Con un occhio al Medio Oriente e l’altro alla Francia, Adenauer cercava di liberarsi dall’egemonia statunitense] –
La stazione di Bonn dove è sceso il presidente Giovanni Gronchi in visita al suo collega Theodor Heuss ha soltanto sei binari, ma ci passa un treno ogni tre minuti. Per rendere possibile questo traffico, la fermata dura uno o due minuti d’orologio, a seconda dell’importanza del treno e delle esigenze dell’orario. Al termine del 60 esimo, o del 120 esimo secondo, il treno riparte senza altro preavviso: chi è sceso è sceso, e chi non ha fatto in tempo a scendere sarà più sollecito alla stazione successiva. La scena del treno in perfetto orario che riparte dopo 60 secondi senza strascichi di ritardatari si ripete impeccabilmente da dieci anni ed è una delle tante cose che possono spiegare da sole il cosiddetto "miracolo tedesco". Dopo il disastro militare provocato dall’avventura hitleriana, nessuno dava alla Germania la più piccola probabilità di risollevarsi al livello della Francia, dell’Inghilterra e della stessa Italia. La sconfitta, i bombardamenti a tappeto (15 mila abitazioni distrutte a Colonia in una sola notte), il regime di occupazione avevano avuto un seguito di spoliazioni economiche. Senza par- lare di quello che avevano fatto i russi nella zona orientale, molte industrie della zona occidentale, e fra esse gran parte del complesso Krupp, erano state demolite per rappresaglia o smontate e spedite all’estero in conto riparazioni. Dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania e dalla stessa Germania Orientale piovvero in pochi anni quasi 10 milioni di esuli politici. Tutto questo può dare una pallida idea delle posizioni di partenza dei tedeschi in questo dopoguerra, certamente peggiori di quelle di tutti gli altri popoli europei.
Oggi, dopo dieci anni, la Germania Occidentale è la terza potenza industriale del mondo, subito dopo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e con netto distacco da tutte le altre. La sua produzione industriale aumenta con ritmo uniformemente accelerato: dall’otto per cento di incremento nel 1953 rispetto all’anno precedente è passata al 12 per cento nel 1954 e al 17 per cento nel 1955. Gli stessi dirigenti sovietici, in occasione del XX congresso del loro partito, furono costretti a riconoscere che il ritmo dell’incremento economico della Germania Occidentale negli ultimi dieci anni era stato molto superiore a quello dell’Urss. Se si prolungano idealmente le curve delle due economie verso l’avvenire, se ne deduce che la Germania Occidentale dovrebbe raggiungere l’Unione Sovietica fra il 1970 e il 1975. Sarebbe un fatto strepitoso, specie se si considera che la Germania Ovest è un Paese 80 volte più piccolo della Russia e privo di quasi tutte le risorse naturali che fanno ricca l’economia sovietica.
Il successo della Germania è legato, come si sa, a una politica economica liberale. Non si tratta beninteso di quella caricatura del liberalismo economico che si usa riassumere nella frase "laissez faire, laissez passer". Questa parola d’ordine dei fisiocrati francesi del Settecento era stata coniata, con evidenti fini polemici, contro l’antieconomica sopravvivenza dei dazi doganali tra regione e regione dello stesso Stato, contro le discipline corporative che restringevano le specializzazioni del lavoro entro caste chiuse con una serie di privilegi a favore dei diritti costituiti, e contro altri anacronismi simili. Il governo di Bonn, e per esso quell’autentico mago della politica economica che è il ministro Ludwig Erhard, non si è certamente limitato a "lasciar fare", ma ha fatto; però ha operato sempre nell’ambito dell’economia di mercato, con assoluta fiducia nelle possibilità dell’iniziativa privata e senza complessi d’inferiorità verso le accuse di provocare con una simile politica l’arricchimento di singoli operatori.
Uno dei più chiari esempi di questa ricostruzione attraverso l’iniziativa privata è stato il trattamento fatto ai sinistrati e ai reduci dalla prigionia. Il governo calcolò che i bombardamenti, le depredazioni e le perdite territoriali avessero impoverito l’economia nazionale di circa il 40 per cento; perciò tassò in misura adeguata coloro che avevano conservato i beni in tutto o in parte, e risarcì in contanti quelli che erano stati sinistrati oltre il 60 per cento degli averi. Non diciamo che siano mancati casi di sperpero e di imprevidenza, ma nel complesso i tedeschi ebbero giudizio; opportunamente instradati da una serie di facilitazioni per gli investimenti produttivi, impiegarono i marchi per rifarsi le fabbriche, con precedenza assoluta sulle case.
Per giunta (fatto che sarebbe stato inconcepibile in Italia, e tanto più in una Italia che fosse stata distrutta al 40 per cento come la Germania) lo Stato, le regioni e i comuni scoraggiavano l’edilizia privata per uso di abitazione. Mentre in Italia si lanciava il piano Pantani, in Germania chiunque fosse entrato in un appartamento nuovo (anche come semplice affittuario) doveva pagare una tassa variabile da comune a comune, con una media intorno alle 200mila lire. Il risultato fu che molti tedeschi si rassegnarono a vivere per qualche anno in contubernio (coabitazione, ndr) con i suoceri, in attesa che fosse tolta la tassa, e comprarono azioni industriali invece che vani di case, contribuendo così spontaneamente a quell’incremento dei mezzi di produzione che i loro confinanti di Oltrecortina perseguivano nello stesso tempo con sistemi coercitivi, espropri coatti e dispendioso spiegamento di apparati politici e polizieschi. Atteggiamento ancora più incredibile per la nostra mentalità: i comuni non facevano riduzioni a chi cercava aree per fini edilizi (fosse stata pure una cooperativa di lavoratori o di autorità parlamentari), ma cede- vano il terreno gratis agli industriali che si fossero impegnati a costruire nuove fabbriche.
La caccia all’industriale ebbe il suo periodo di parossismo ai tempi dell’immigrazione in massa, quando i paternalistici capi d’azienda della Slesia o dei Sudeti si presentavano alle frontiere alla testa d’intere maestranze. È accaduto così che regioni agri- cole si trasformassero in regioni industriali; a Monaco di Baviera, quando ci andammo per l’ultima volta nel 1954, i principali monumenti erano ancora in rovina, con particolare riguardo alle chiese; però era stato creato dal nulla un enorme complesso di industrie tessili e di calzifici, con l’apporto prevalente dei tedeschi venuti dalla Cecoslovacchia. Un italiano rimpatriato dalla Russia assieme a prigionieri tedeschi ci descriveva tempo fa la scena che si svolgeva alle stazioni di frontiera germaniche. I reduci dalla prigionia non erano accolti da lacrime e bandiere, ma da un funzionario che dopo avere esaminati i documenti versava a ciascuno qualcosa come mezzo milione di lire italiane, in conto degli stipendi militari non riscossi per assenza dalla madrepatria. La liquidazione del residuo avveniva in un periodo variabile fra un mese e 15 giorni. Certamente un bell’esempio di rapidità amministrativa, ma anche un’altra applicazione del metodo di fornire capitali ai privati, nella certezza che la somma delle iniziative singole darà la massima utilità per l’economia nazionale.
Per aver applicato coerentemente questo sistema, la Germania non ha più nemmeno bisogno di limitare gli investimenti meno produttivi. Nel 1955, il ritmo dell’incremento edilizio è stato quattro volte superiore a quello dell’Italia, benché la popolazione sia pressoché uguale. Come tutti i Paesi di rapido sviluppo, la Germania Occidentale segna una certa diminuzione di mano d’opera agricola, dato il richiamo delle attività industriali che nel 1955 hanno assorbito circa un milione di nuovi lavoratori. L’immigrazione continua degli esuli politici dalla Germania Orientale e da altri Paesi d’Oltrecortina ha creato un problema di disoccupazione o, per meglio dire, un problema di collocamento, che viene risolto con criteri opposti ai nostri. In Italia si cerca di creare lavoro dove ci sono le massime punte di disoccupazione o di conservare il lavoro in stabilimenti minacciati da crisi: vedi la Cassa del Mezzogiorno, il Firn (Fondo per la sovvenzione dell’industria meccanica) e gli esperimenti di piena occupazione del ministro del Lavoro Ezio Vigorelli. In Germania, invece, il governo punta sullo spostamento dei lavoratori dove esistono le massime possibilità di occupazione.
Questo vuol dire, in termini teorici, che da noi si affronta il problema tentando di forzare la spontaneità del mercato per fini politico-sociali (a ognuno fa comodo trovare lavoro dalle sue parti, senza spostarsi), mentre la Germania cerca di muoversi secondo le tendenze del mercato, favorendo le indicazioni economico-geografiche della domanda e dell’offerta, anziché cercare di correggerle e contrastarle. Inoltre, la Germania è in testa allo svincolo degli scambi, avendo raggiunto il 91 per cento di liberalizzazione per le merci provenienti dai Paesi dell’Oece, il 98 per cento per i Paesi dell’area della sterlina e 1’84 per cento per i Paesi dell’area del dollaro. Il successo dell’economia tedesca è destinato ad aumentare notevolmente nei prossimi mesi.
Per un complesso di circostanze favorevoli, la Germania è il solo Paese europeo destinato a non risentire della crisi del petrolio. I suoi rifornimenti di questo prezioso combustibile venivano per il 90 per cento dal Venezuela, dalla Ro- mania e dalla Russia e sono assicurati da ferrei contratti. Nel Dopoguerra è stata molto sviluppata l’estrazione del petrolio dal sottosuolo nazionale, tanto che oggi la Germania ha distaccato tutti gli altri Paesi produttori dell’Europa Occidentale, estraendone cinque volte più della Francia e dieci più dell’Italia. Vaste produzioni di benzina e di gomma sintetiche completano il quadro della indifferenza tedesca di fronte al taglio dei rifornimenti da Suez. Molto grave è, invece, la chiusura del canale come elemento di blocco alle esportazioni verso l’India, il Pakistan, l’Indonesia e altri vecchi e nuovi clienti. I tedeschi sperano però di compensare questi fastidi economici con un indiretto aumento di prestigio politico, occupando le posizioni inglesi e francesi del Medio Oriente. L’influenza tedesca in Egitto è già fortissima e non solo per via degli ex ufficiali di carriera ridotti dalla sconfitta al mestiere del soldato di ventura.
La Germania è oggi uno dei pochi Paesi del mondo che soffre per eccesso di dollari, di oro e di valute (gli altri sono l’Uruguay, il Kuwait, forse il Venezuela e la Svizzera). Questo surplus dovrà tradursi, prima o poi, in un aumento di influenza politica. Non è possibile portare avanti a lungo la finzione di una Germania ridotta a potenza di second’ordine, quando la sua produzione di acciaio è già sul punto di superare quella della Francia e dell’Inghilterra messe insieme. La politica della Germania Occidentale, fino a pochi mesi fa, sembrava avviata sui binari del più ortodosso filo-americanismo. Tra gli Stati dell’Europa Occidentale, la repubblica di Bonn è senza dubbio il più anticomunista e il più avverso alla Russia per una serie di questioni nazionali; e nemmeno bisogna dimenticare che la Germania ha sempre favorito con spregiudicatezza rimpianto dei capitali stranieri sul territorio, così che oggi le principali industrie automobilistiche locali sono controllate dalla Generai Motors (Opel) e dalla Ford, ed esistono perfino filiali e ramificazioni di imprese commerciali al minuto, come i popolarissimi magazzini Woolworth.
Per gli americani sbarcati in Europa nel Dopoguerra, la Germania è stata una rivelazione, per le affinità di efficienza e di mentalità che vi hanno trovato con il loro Paese. L’idillio tede- sco-americano è stato tuttavia bruscamente interrotto da Konrad Adenauer l’estate scorsa, con una serie di dichiarazioni favorevoli a un’Europa unita e solidale, ma sganciata dall’influenza americana. Mentre scoppiava il conflitto fra gli americani e i loro due più antichi alleati europei per il canale di Suez, Adenauer firmava con i francesi un accordo per la Saar favorevolissimo alla Germania, che si vedeva restituire una regione ipotecata dai francesi perfino nelle carte geografiche.
Con la restituzione della Saar, tutti i problemi franco-tedeschi sono stati chiusi; e nello stesso tempo è stata annunziata la costituzione di una grande società finanziaria franco-tedesca (con intervento minoritario di belgi e olandesi, ma senza italiani) per lo sfruttamento economico delle colonie africane. Anche questo potrebbe essere l’indizio di un cambiamento di politica: dopo avere invocato due volte in mezzo secolo gli americani contro l’aggressività militare dei tedeschi, la Francia si appoggia ora ai capitali tedeschi per parare l’invadenza economica degli americani. In questo tempo di revisioni generali, anche la Germania si trova di fronte a due strade per la sua politica: da una parte c’è la tentazione di scalzare francesi e inglesi dalle loro residue posizioni economiche nel Medio Oriente, contando anche sugli ultimi sviluppi della politica estera americana; dall’altra c’è l’invito a collaborare nel mondo coloniale per sostenere i francesi contro la concorrenza degli Stati Uniti. La Germania non è iscritta all’Onu e non è esposta di tanto in tanto alla necessità di voti spiacevoli per l’una o per l’altra parte, e questo le permetterà di condurre avanti per qualche tempo tutte e due le politiche, senza urgenza di scelta. In Europa i tedeschi sono sempre alle prese con il problema numero uno: quello del trattato di pace e dell’unificazione nazionale (entrambi conclusi nel 1990, ndr).
È evidente che la Germania non può unificarsi senza il consenso delle due massime potenze, ed è altrettanto chiaro che questo consenso potrà esser dato soltanto in un periodo di grande e totale distensione. Le prospettive della unificazione in cambio della neutralità (per le quali, si dice, simpatizzava anche Fattuale ospite Gronchi) si sono allontanate nella nebbia. Tanto più che anche la parentesi distensiva della Conferenza di Ginevra non portò molti consensi a una soluzione che sarebbe valida solo se la neutralità fosse di tipo svizzero, ossia armata fino ai denti. Mentre, certo, la Germania e l’Europa potrebbero avere solo cattive sorprese da una neutralità tedesca accompagnata da una obbligatoria smilitarizzazione. I tedeschi si stanno armando, intanto, ma con giudizio e con criteri loro particolari, senza mostrare molta fretta; con le copie fresche degli annuari navali del 1957 è ricomparsa ufficialmente la loro marina militare.
Una Germania armata in modo adeguato alla sua capacità industriale potrebbe costituire un diaframma inespugnabile di fronte alla Russia. Ma una Germania restituita alla sua naturale vocazione di grande potenza si limiterebbe a guardare soltanto verso Oriente? E d’altra parte, una volta rotta la semisecolare alleanza anglo-franco-americana, quale destino resterebbe a un’Europa che si ostinasse a ignorare la presenza di quella mezza America che è ormai la Germania? L’Europa unita, che i francesi rifiutarono respingendo il trattato della Ced, la Comunità europea di difesa, oggi è probabilmente l’ultima carta che resta a chiunque tema un mondo diviso tra le esclusive influenze della Russia e degli Stati Uniti; ma è una carta che la Francia ha perduto quando avrebbe potuto adoperarla a suo vantaggio. Oggi anche la carta dell’unità europea è nelle mani dei tedeschi, e spetterà soltanto a loro giocarla.