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 2012  novembre 15 Giovedì calendario

LA PRIGIONE DORATA DI ARMSTRONG

Le sbarre della cella di Lance Armstrong sono fatte di dubbi e di sguardi. I dubbi e gli sguardi dei suoi concittadini, la gente di Austin, quella piccola capitale che, ormai due vite fa, un Armstrong diciottenne e ambizioso in fuga da Dallas scelse come hometown.
A quei tempi, da queste parti, c’era tutto il suo mondo, il “posto dove tornare”, e le coordinate della casa vista lago che si era fatto costruire nella zona più costosa della città erano memorizzate nella consolle del jet privato. Ogni volta che ne sentiva il bisogno, veniva qui, si metteva le infradito e andava a godersi un piatto tex mex e l’abbraccio caldo e informale di quest’insolita città texana. Ma quei tempi sono lontani, ormai. Scomparsi, inghiottiti da un gorgo di dossier e sentenze dell’antidoping americano e mondiale. Oggi, qui, c’è solamente il carcere immaginario di un campione condannato dalla storia agli arresti esistenziali.
È arrivato qui venerdì scorso, esausto, direttamente dalle Hawaii dove il suo ego aveva deciso di rispondere alle accuse piovutegli da tutto il mondo dopo la radiazione a vita e la cancellazione dei suoi sette tour de France, insomma dopo “la Fine”, mostrandosi, simbolicamente, ancora in sella, nel bel mezzo di un allenamento. Per cosa? Per quale gara? Non importa. «Sano e salvo, alle Hawaii», aveva twittato. Haloa. Poi però aveva sentito il bisogno di casa. È salito sul suo aereo ed è tornato qui. A fare cosa? gli hanno chiesto i giornalisti. «A vivere. Voglio solo vivere, adesso, e per vivere intendo stare nella mia casa con i miei figli e non fare niente e non pensare a niente». I figli sono cinque, e rappresenterebbero una bella soluzione. Ma se ti chiami Lance Armstrong e hai avuto in sorte il dono e la maledizione di essere un simbolo, una leggenda, se hai cambiato la faccia della lotta al cancro («ha dato alla parola cancro un significato diverso da quello che aveva prima», hanno scritto di lui) beh, allora stare con i tuoi figli non potrà mai essere il tuo unico orizzonte.
E infatti, nel giro di poche ore, l’assedio della realtà rompe ogni difesa: le brutte notizie, che prima, all’estero, arrivavano solamente da twitter, da facebook, dall’ufficio stampa, adesso arrivano direttamente dagli amici di una vita. Seduti al tavolo dello Z-Tejas sulla sesta strada. Qui nell’ottobre tragico e glorioso del ’96, quando Lance seppe del suo tumore, nacque l’idea luminosa della fondazione, quella del braccialetto giallo. Oggi, invece, allo stesso tavolo si legge il bollettino di guerra: «Dopo la Nike – gli dice mesto un amico – se ne vogliono andare anche gli altri, la Giro Helmets, la Trek Bicycles, quelli della bibita energetica Frs, e l’Anheuser-Busch». Abbandonano la nave come topi. Lance scuote la testa. In realtà la fuga dei topi è solo l’annuncio di quello che sta per succedere davvero: l’assalto al tesoro.
Stime non ufficiali misurano in un centinaio di milioni di dollari il capitale messo da parte dal campione, in questi anni di trionfi e pubblicità. E adesso quei cento milioni fanno gola a molti, amici e nemici di un tempo. Quando gli sponsor avranno definitivamente chiuso ogni rapporto, uno stuolo famelico di avvocati suonerà la carica. Comitati organizzatori e compagnie di assicurazione, associazioni sportive e federazioni di ciclisti si rivolteranno contro il loro vecchio idolo con la violenza e la voracità dei peggiori apparati burocratici. «Lo so, lo so che finirà così. Ma mi difenderò», promette lui con sufficienza, lasciando capire che se ne occuperà qualcun altro per lui, che a lui queste cose interessano poco. «Quello che mi fa male – spiega – sono le bugie che hanno detto su di me. Sulla mia storia. Hanno persino detto che ho spiegato agli altri come doparsi. Che ho “insegnato” il doping, costringendo persino qualcuno a doparsi». Sono queste affermazioni, che lui chiama “bugie”, la sua vera preoccupazione di questi giorni texani. Giorni in cui Lance fantastica di vendette e operazioni clamorose, l’ultima idea è un film sulla propria vita in cui ristabilire una volta per tutte la sua verità. Ma dovrà impegnarsi molto, Lance. E pagare bene sceneggiatori e soggettisti, e trovare attori parecchio bravi, visto che alla sua verità, ormai, credono in pochi.
Persino al Mellow Johnny’s c’è gente perplessa. Il Mellow Johnny’s è quello che può essere definito il tempio di Armstrong, il luogo del suo culto: un negozio di bici aperto dal campione una decina di anni fa. Al muro ci sono appese le sette maglie gialle (proprio come nel salotto di casa) e un po’ ovunque pendono dal soffitto, legate con cavi d’acciaio, le bici dei suoi trionfi storici. Qui un tempo arrivavano appassionati da tutto il mondo. Specialmente dall’Olanda e dalla Francia. Ragazzi con la macchina fotografica, un po’ groupie e un po’ turisti. Adesso ci sono solo clienti di Austin che vogliono comprare abbigliamento tecnico e ragazzi dell’università che vengono a scroccare la connessione wi-fi del Juan Pelota, il café annesso al negozio. «Certo la foto dal salotto con le maglie del tour se la poteva risparmiare», sibila uno di quelli che lavora qui (chiedendo di non essere citato per ovvi motivi). Il suo pensiero è condiviso da molti in città, dove qualcuno ha cominciato anche a disertare il Six, il lounge bar aperto da Lance per celebrare il suo sesto trionfo francese. Un tempo ogni occasione era buona farsi vedere al Six. Adesso non più. Altre spalle girate al vecchio idolo. Altre sbarre a rendere inespugnabile il suo carcere invisibile. Che rischia di diventare ancora più opprimente nei prossimi giorni, quando ad Austin arriverà la Formula 1, con il suo carico di giornalisti da tutto il mondo. Qualcuno si aspettava di vederlo, come sempre a testa alta nel paddock, domenica. Lui ha già fatto sapere che non ci sarà. Tornerà alle Hawaii. Ma la cosa brutta dei carceri invisibili è che non si può evadere davvero.
Nemmeno col jet privato.