Andrea Laffranchi, Corriere della Sera 15/11/2012, 15 novembre 2012
«Q uante volte puoi reinventarti senza ripeterti?». Zucchero se lo è domandato e ha trovato una risposta prima di cadere nell’errore di tanti suoi colleghi
«Q uante volte puoi reinventarti senza ripeterti?». Zucchero se lo è domandato e ha trovato una risposta prima di cadere nell’errore di tanti suoi colleghi. Il suo nuovo album «La Sesión Cubana» (esce martedì) è un altro passo, dopo il folk di «Chocabeck», che lo stacca dalla sua tradizione, dalle radici soul e blues. «Potrei pensare a un album di blues puro, che solo pochi bianchi come Eric Clapton e Ry Cooder possono permettersi, ma credo di dover invecchiare ancora un po’ — dice col sorriso —. Con queste contaminazioni cerco di eludere quel manierismo che sento uscire dalle radio di tutto mondo». Così Sugar ha preso armi e bagagli ed è andato all’Avana per registrare con musicisti cubani 13 brani fra inediti, cover (quella di «Guantanamera», con testo in italiano, è in radio da qualche giorno) e rivisitazioni di suoi successi fra «suoni e ritmi latini, cubani e tex-mex». Nella capitale Zucchero tornerà per un concerto l’8 dicembre. «Ci pensai per la prima volta 22 anni fa, subito dopo lo show con cui, primo occidentale della storia, suonai al Cremlino», racconta. L’attesa è stata lunga. Per tre motivi. I costi: «Devi portarti tutto, comprese le corde delle chitarre, via nave coi container». La burocrazia: «Il ministero dice una cosa, poi intervengono le belle arti e cambia tutto». La politica: «Per anni me lo hanno sconsigliato perché avrei compromesso la mia carriera americana. Ho deciso di sbattermene i cosiddetti perché a 57 anni sono appagato». Riassunto: «Volevo fare questo spettacolo prima che Cuba diventasse un’altra cosa. Ci sarà per forza un’apertura. È un popolo allo stremo». Il discorso si sposta sulla politica. «A Cuba si sente il rispetto per l’arte e la cultura, sono innamorato dell’isola per questo, al di là dell’ideologia che, con i volti di questi rivoluzionari giovani e belli, affascinò me e molti altri», ammette il musicista. «Quando ero all’istituto chimico di Carrara, anni di lotte e scioperi, sentivo il mito di Che Guevara: era uno con le palle, condividevo allora i suoi principi e li condivido ancora — precisa —. Fidel Castro non mi è mai arrivato, gli preferivo Cienfuegos, e non andrò a Cuba per sostenerlo». Gli si illuminano gli occhi quando si parla di musica. «I musicisti che hanno suonato sul disco hanno senso della costruzione del ritmo. Sanno trasformare una canzone col ritmo». È orgoglioso che saranno anche sul palco assieme alla sua band, al direttore d’orchestra del mitico Tropicana e, le trattative sono in chiusura, a leggende cubane come Omara Portuondo e i Los Van Van, al brasiliano Djavan e ai messicani Manà. È l’unico italiano che mette assieme nomi di questo peso. Il produttore del disco è Don Was, uomo di fiducia dei Rolling Stones. E proprio agli Stones lo ha rubato per un paio di giorni. «Ho provato a chiedergli di rimanere per un paio d’altri giorni ancora, ma mi ha fatto capire che Jagger era molto contrariato». Chiuso questo progetto, Zucchero pensa di dare un taglio a un’altra costante della sua carriera. I duetti. «Non rinnego il passato, ma mi hanno rotto. E comunque nel cassetto ne ho di già incisi con Mark Knopfler, le due donne degli Abba e Miles Davis». Cremlino, Cuba.. e poi? Corea del Nord o Venezuela? «Non seguo il filo del comunismo... — ride —. Vorrei fare una Woodstock nella pianura padana, un festival con gente come Caparezza, rapper come Fabri Fibra e Marracash e esordienti come Il Cile». Andrea Laffranchi