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 2012  novembre 15 Giovedì calendario

Quando stamane gli presenteranno Ilaria Capua come una fuoriclasse simbolo della ricerca italiana nel mondo, Giorgio Napolitano abbia chiara una cosa: senza una svolta se ne andrà anche lei

Quando stamane gli presenteranno Ilaria Capua come una fuoriclasse simbolo della ricerca italiana nel mondo, Giorgio Napolitano abbia chiara una cosa: senza una svolta se ne andrà anche lei. Dove lavora, infatti, le hanno detto che deve accontentarsi degli spazi che ha. Inaccettabile, per chi gioca una partita planetaria. Romana, laureata in veterinaria a Perugia, specializzata a Pisa, anni di esperienza in giro per il mondo, direttrice e anima del dipartimento di Scienze biomediche all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie a Padova, Ilaria Capua non è stata scelta a caso per rappresentare questa mattina il settore scientifico agli Stati Generali della Cultura organizzati a Roma dal Sole 24 Ore, dall’Accademia dei Lincei e dalla Treccani. Qualche anno fa s’impose isolando coi suoi collaboratori, primo fra tutti Giovanni Cattoli, il primo virus africano H5N1, la nasty beast (brutta bestia, secondo la definizione di Nature) dell’influenza aviaria umana. Quella nuova forma di peste che, se infetta qualcuno, la maggior parte delle volte lo ammazza. Ciò che la rese celeberrima fu tuttavia il passo successivo. Cioè la risposta che diede all’alto funzionario dell’Oms che l’aveva chiamata per chiederle di mettere tutto ciò che sapeva in un database privato del quale avrebbe avuto una delle 15 password d’accesso. Quella scelta di condividere la scoperta in una cerchia ristretta poteva significare fama, finanziamenti, prestigio, soldi. Ma lei, come ricorda nel libro recentissimo «I virus non aspettano» (Marsilio) decise di rifiutare quell’occasione di entrare in un cenacolo di eletti: «Ero assolutamente basita. Intimidita e scandalizzata al tempo stesso. Ma vi sembra un comportamento serio e adeguato alla situazione? I virus non aspettano. Siamo nella fase di espansione di una malattia epidemica, che per la prima volta nella storia colonizza il continente africano. L’Africa è piagata dalla povertà e dalla malnutrizione. Un virus che uccide i polli e le galline sottrae nutrimento anche alle fasce più povere della popolazione, l’epidemia è destinata ad allargarsi a macchia d’olio, e in una popolazione già flagellata dall’HIV e dalla malaria, per dirne solo due, un’altra infezione trasmissibile alle persone è pioggia sul bagnato». Dunque «era assolutamente indispensabile che le forze si unissero e quindi dare l’informazione soltanto a quindici laboratori mi sembrava insensato». E così mise la sua scoperta su «GenBank», a disposizione di tutti. Guadagnandosi «lettere di sostegno da tutto il mondo, un servizio su Science, un hip hip urrà da Nature, un’intervista in doppia pagina con ritratto dal Wall Street Journal, un editoriale sul New York Times. Ma anche una valanga di critiche dure e taglienti dai colleghi che appartenevano al gruppo dei quindici laboratori afferenti al database privato». Li lesse anche Kofi Annan, quegli articoli. E volle capire com’era andata perché gli pareva impossibile che scoperte in grado di salvare la vita alle persone potessero venire egoisticamente tenute nascoste. E si mise in moto un meccanismo che ha portato nel tempo a una maggiore trasparenza e condivisione delle informazioni utili a tutti. Insieme con le rampogne dei colleghi più navigati, Ilaria Capua ha raccolto in questi anni anche i riconoscimenti più prestigiosi. Come il «Penn Vet World Leadership Award» che, spiega nella prefazione al libro lo scienziato americano Alan M. Kelly «è di gran lunga il riconoscimento più prestigioso nel campo della medicina veterinaria». Prima donna a riceverlo, prima sotto i sessant’anni. Va da sé che, accumulando via via successi professionali e accrescendo la sua «collezione di virus» che per un centro di ricerca simile equivale alle ricchezze di una biblioteca, la scienziata è riuscita ad attirare sempre più investimenti e raccogliere intorno a sé una settantina di ricercatori. Fino ad avere sempre più bisogno di spazio per competere coi grandi centri internazionali. Per usare il paragone di Roberto Perotti sull’università: se la squadra di Villautarchia rifiuta di partecipare ai campionati più duri e si accontenta delle amichevoli per non misurare il valore dell’allenatore e dei giocatori, non potrà mai avere Ronaldinho. Occorre giocare ad alto livello. Ed eccoci a oggi. Da luglio, a Padova, è pronta la «Torre della ricerca» voluta, progettata, finanziata e costruita da «la Città della speranza». La fondazione non profit che, dopo essere entrata nel cuore degli italiani tirando su in un solo anno un intero lotto ospedaliero destinato a salvare i bambini colpiti dal tumore, (tutto con soldi dei generosi donatori senza un centesimo di denaro pubblico) si è ingrandita fino a diventare il centro italiano della guerra alla leucemia infantile. Anche stavolta, avuti in regalo 10 mila metri di terreno dal consorzio della zona industriale di Padova, «la Città della speranza» ha fatto quasi tutto da sola. E in due anni e mezzo, tutto compreso, contando sulla generosità non solo del progettista Paolo Portoghesi e delle imprese coinvolte («in pratica hanno recuperato tutti le spese vive», racconta Franco Masello, l’anima storica della fondazione) è nato quello che dovrebbe essere, coi suoi dieci piani, i suoi 13.200 metri quadri di laboratori, i suoi 350 ricercatori, il più grande e moderno centro europeo per la ricerca sulle malattie infantili. Il posto giusto anche per Ilaria Capua. Infatti lì era previsto andasse con la sua struttura, comunque ancorata allo Zooprofilattico Sperimentale. Tutto deciso. Da due anni. Con tanto di finanziamento regionale. Ma ecco, improvvisamente, la svolta. Con la retromarcia dell’Izs. «Praticamente volevano che cedessimo loro due piani gratuitamente», spiega Franco Masello. «Ma noi non ce lo possiamo permettere. Noi non guadagniamo un euro da questo sforzo enorme da 32 milioni che abbiamo fatto, ma una parte dei soldi vogliamo recuperarla per investirla nella ricerca». «Spostati pure, per un paio d’anni finché costruiamo i laboratori nuovi nostri, ma puoi portarti dietro solo la metà dei tuoi», sarebbe stato offerto a Ilaria Capua. Una proposta considerata irricevibile. Perché non andare nel posto giusto, condividendo con centinaia di ricercatori idee, scoperte, macchinari? E davanti al braccio di ferro, la scienziata ha fatto capire che se fosse costretta potrebbe andare via: bye bye... La voce di un possibile addio è scoppiata nel Veneto come un candelotto di dinamite. Scatenando le ire trasversali del governatore leghista Luca Zaia e del sindaco padovano democratico Flavio Zanonato. Decisi l’uno e l’altro, con ipotesi e accenti diversi, a trovare una soluzione. Perdere altri «cervelli» in una situazione così, mentre «la Città della speranza», nonostante i nuvoloni della crisi, investe sul futuro, sarebbe davvero un delitto.