Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 03 Sabato calendario

MOLMENTI DI MONTAGNA


[Daniele Molmenti]
«Sappiate che io in montagna vado per stare lontano da voi giornalisti». Il Parco delle Dolomiti Friulane è la tana di Daniele Molmenti. Entrare con lui in quei 37.000 ettari di natura selvaggia tra Piave, Tagliamento e Collina significa bussare a un angolo profondo della sua anima.
L’appuntamento con l’olimpionico di canoa slalom a Londra 2012 è per le 5.45 alla foresteria del centro visitatori di Cimolais, una delle porte del Parco insieme a Forni, Tramonti, Andreis e Claut. Molmenti arriva da Pordenone: è reduce dall’ennesima cena celebrativa, ha dormito poco ma addosso ha un’energia travolgente. Molmenti è un Forestale vero, non indossa solo una divisa. Conosce la natura, distingue animali, alberi e fiori. Si arrabbia se vede un mozzicone di sigaretta, mostra il tesserino a chi lascia rifiuti a terra. In piena notte, sulla strada per il rifugio Pordenone, ferma l’auto a fianco di una radura e indica quattro occhi in fuga verso il bosco. «Eccoli, sono due caprioli». Alle 6.45 si inizia a camminare. Il passo è quello dell’atleta, vuole arrivare prima possibile sotto il Campanile di Val Montanaia, un monolite di 300 metri al centro di un anfiteatro dolomitico, struggente simbolo del Parco. Mentre l’alba inizia a colorare le vette si gira a guardare l’altro lato della valle. «Quel monte è il Pramaggiore. Lì ho portato Pierpaolo Ferrazzi, il mio allenatore. Quando lasciavo il centro d’allenamento di Valstagna lui credeva che nel weekend andassi in discoteca. Così una volta l’ho portato con me e gli ho detto: "Ecco, quando posso io vengo quassù". Mi ha chiesto di portare anche lui».
LO SPIRITO DEL CAMPANILE
L’avvicinamento al Campanile toglie il fiato, e non solo per la bellezza del paesaggio. «Forza, che per scrivere di fatica bisogna conoscerla». Dalle pareti scendono rivoli d’acqua. Basta avvicinare le labbra per capire quanto siano incontaminati questi luoghi. «A volte mi porto solo la tenda e una bottiglia di plastica, non mi serve altro. Il resto me lo fornisce la natura». Cibo per gli occhi e per l’anima. Ecco il Campanile. «Sembra un attore, vero? Un attore al centro di un enorme palcoscenico. Chi ha creato tutto ciò? Il Solito, quello che comanda».
Spunta il lato spirituale di Molmenti. «Sì, io credo. Qualche tempo fa mi trovai a metà strada in mezzo alla neve alta. Non volevo tornare indietro, ci avrei messo troppo tempo, ma non trovavo la traccia per andare avanti. Chiesi a Dio un segno. Poco distante vidi emergere un pezzo di metallo. Spazzai un po’ di neve: era un segnavia. Con la cartina riuscii a orientarmi e tornai a casa».
C’è la neve anche al bivacco Perugini, quota 2.060. La prima della stagione. Dallo zaino Molmenti estrae qualche barretta energetica. Ha pensato anche ai camminatori improvvisati. Il bivacco è in ordine, ci sono solo alcune coperte fuori posto e a lui viene spontaneo di piegarle e rimetterle in ordine. Poi si sale, ancora, verso i 2.333 metri di Forcella Montanaia, perché «andare oltre fa parte della natura dell’uomo». Non si è ambiziosi solo in canoa. Molmenti divora la vita, ha sempre un progetto in testa. Ama le donne, il buon vino e la compagnia. «Per dieci giorni dopo l’oro olimpico ho combinato disastri, e anche oggi le tentazioni sono tante e forti. Così a volte ho bisogno di ritrovare il vero Daniele, perché so di non essere così. Ho un padre spirituale. È un monaco, si chiama don Franco Mosconi, vive nell’eremo di San Giorgio a Bardolino. Vado da lui qualche giorno e mi rimetto in asse. È come un vestito. Ogni tanto gli dai una spolverata, ma arriva il momento in cui te lo senti addosso sporco, e allora devi portarlo in pulitura».
Al bivacco Perugini nel frattempo è salito Giampiero Feltrin, medico. Se ne sta seduto a contemplare il Campanile, ne studia le forme e le trasferisce in un disegno. Accoglie i nuovi arrivati con curiosità. Sarà la bellezza dei luoghi, sarà la condivisione della fatica, ma in montagna le persone si avvicinano. È più facile diventare amici. Molmenti estrae dallo zaino un integratore e il medico non approva. «Lo sai che un cucchiaio di miele ti darebbe la stessa energia?». Per salire in montagna forse sì, per essere i migliori al mondo no. La discussione prende vita, finché Daniele non si svela. Pesca dallo zaino una cartolina, c’è lui con l’oro al collo sul podio di Londra 2012. «Dottore, solo col miele questa non l’avrei mai vinta». Il medico non ci crede. «Sei tu questo? Davvero, sei tu?». Nessuna risposta, solo un sorriso. «Beh, allora scusa. E complimenti».
Poi si scende. Se la mattina i ghiaioni della val Montanaia erano stati un tormento, durante la discesa diventano una giostra, autostrade di sassi da divorare passo dopo passo, in pochi attimi, scarponi ben piantati e peso a monte. Quando si arriva al parcheggio sono quasi le 15. Lungo il torrente Cimoliana ogni tanto Molmenti ferma l’auto, sale su un masso e osserva. Con le mani simula i passaggi tra i flutti, le manovre per evitare gli ostacoli. «Sarebbe bello farci scendere le canoe. Ma ci sono troppi alberi, troppi salti».
E ALLA FINE, SCATTO IN PARETE
La giornata non è ancora finita. Da un paio d’anni Molmenti si è avvicinato all’arrampicata, dopo l’oro di Londra è anche salito sul Campanile con Mauro Corona. Si conoscevano già, quel giorno sono diventati amici. Lo scrittore vive a Erto e lì vicino, sotto il paese di Casso, c’è una falesia che lo stesso Corona ha attrezzato con chiodi e catene. C’è il tempo per qualche tiro di corda e, forse, per un incontro. Per Matteo Mocellin, fotografo, arrampicatore e guida, è un invito a nozze. Sale una prima volta a 30 metri, poi fa salire Molmenti, poi torna su per attrezzare anche la propria via, dalla quale si appenderà per l’ultimo scatto. L’immagine è quella qui sotto (al centro), e sarebbe solo una foto di arrampicata, se sullo sfondo non si vedessero un ammasso di terra e una lunga striscia grigia di cemento che lo argina. È la diga del Vajont. Quel nome riapre una ferita anche in chi, come Daniele, il 9 ottobre 1963 non era ancora nato ed è cresciuto in pianura, lontano dalla frana del Toc. Ma se queste valli non sono state abbandonate, se hanno un futuro oltre quei duemila morti figli dell’avidità e della sfrontatezza dell’uomo, il merito è di gente come Mauro Corona, che quelle montagne le vive ancora. Lo scrittore arriva su una vecchia Panda nera. Abbraccia Molmenti, indossa l’imbrago e gli fa da sicurezza, mentre l’olimpionico si arrampica. «Il prossimo anno lo porto nei posti che mi piacciono di più, dove nessuno ha mai messo piede». Perché andare oltre fa parte della natura dell’uomo.