Silvia Guerriero, SportWeek 3/11/2012, 3 novembre 2012
GIOCHIAMO INSIEME?
Circola un detto, nel mondo dello sport, che fa sorridere o arrabbiare, di sicuro pensare: "Il campione nasce orfano". Come dire: i genitori, con le loro intromissioni nelle attività dei figli, producono più danni che benefici. Anche a livello professionistico. Anche, e soprattutto, quando genitori e figli si trovano a lavorare insieme (e nello sport capita spesso, soprattutto in questa combinazione: padre allenatore e figlio giocatore, dove le sorti del secondo sono quasi sempre legate a quanto ingombrante sia la figura del primo). Ma è proprio così? Senza arrivare ai casi limite ricordate la nuotatrice ucraina Kateryna Zubkova, ai Mondiali 2007, aggredita davanti alle telecamere dal padre-allenatore che la accusava di non aver dato il meglio di sé? -, ci sono in effetti situazioni su cui bisognerebbe riflettere. Nel tennis, soprattutto femminile, non mancano purtroppo gli esempi negativi: Richard Williams che telecomanda l’esistenza delle figlie Serena e Venus, Damir Dokic che distrugge il talento di Jelena a colpi di abusi e violenze, Stefano Capriati che viene allontanato da Jennifer. E poi vogliamo metterci i padri della Graf, della Seles, della Pierce che volevano contare nella vita e in campo? Un altro padre-padrone è quello dei fratelli terribili dello sci, Janica e Ivica Kostelic, che comunque devono gran parte del loro successo ai consigli e ai sacrifici di papà Ante, ex giocatore di pallamano di buon livello che ha mollato tutto per dedicarsi anima e corpo all’educazione sciistica dei suoi figli. Nell’atletica vengono invece in mente gli Ottoz: papà Eddy, campione dei 110 ostacoli negli Anni 60, ha dovuto separarsi dal figlio Laurent, che a un certo punto se n’è andato in Florida perché non si sapeva più chi soffocasse l’altro.
In tema di rapporti non sempre idilliaci c’è stato Meneghin padre (Dino, team manager della nazionale di basket) che non si è mostrato sempre entusiasta nei confronti del figlio (Andrea, giocatore); c’è stato Johan Cruyff che sulla panchina del Barcellona teneva spesso fuori squadra suo figlio Jordi così come, parlando sempre di olandesi. Arie Selinger, c.t. degli orange del volley, non faceva mai vedere il campo al figlio Arvital, secondo palleggiatore, protagonista a sorpresa dell’eliminazione della favoritissima Italia ai Giochi di Barcellona non per merito del padre, bensì per colpa dell’infortunio occorso al titolare Blangé.
In molti, moltissimi altri casi, però, si è trattato di un matrimonio proficuo e senza ombre. L’esempio più eclatante, in casa nostra, viene dal calcio: Paolo Maldini nel 1986 viene chiamato nella nazionale under 21 dal padre Cesare (che lo ritroverà nella nazionale maggiore dal ’96 al ’98 e in un breve periodo anche al Milan, nella primavera del 2001). E, nel Paese dei raccomandati, solo la grandezza di Maldini junior alla fine ha avuto ragione dei sospetti di nepotismo che circondavano il giocatore nei primi anni di una carriera poi rivelatasi eccezionale. Negli Usa, lo stesso è capitato a Michael Bradley, centrocampista della Roma, che ha esordito in nazionale nel 2006 grazie al padre Bob (ora c.t. dell’Egitto). Altri figli d’arte non hanno avuto la stessa fortuna. Viene così da pensare che gli eredi di Ancelotti e Mancini siano stati spediti in campo da papà (il primo, Davide, nel Milan e il secondo, Filippo, nell’Inter) per dar loro un contentino...
Negli altri sport, tra i tanti che si sono fatti seguire con successo dal padre, Tania Cagnotto è diventata una grande tuffatrice grazie ai consigli di Giorgio, Pino Maddaloni ha vinto nel judo anche per merito di Gianni, Marvis Frazier aveva all’angolo Joe, ex pugile (uno dei tanti ad aver portato il figlio sul ring). Poi ci sono discipline come il volley e il basket che, anche per questione di Dna, hanno sfornato tantissimi campioni che soprattutto a inizio carriera si sono ritrovati sottorete e sottocanestro agli ordini di papà.
Meno comune il caso in cui genitori e figli si sono trovati "alla pari". Cioè insieme in campo. Nell’hockey ghiaccio il mito canadese Gordie Howe, asso dei Detroit Red Wings, a fine carriera ha giocato negli Houston Aeros e negli Hartford Whalers con i figli Mark e Marty; il ceco Jaroslav Pavlu ha pattinato per due stagioni a Bolzano con il figlio Martin (poi capitano dell’Italia), prima di allenarlo. Evidentemente, il ghiaccio conserva bene... E sono molti anche i casi in cui il papà è diventato manager del figlio, per esempio nel mondo dei motori: per citarne alcuni, Lewis Hamilton si è fatto seguire per un certo periodo da Anthony e Marco Andretti corre sulla vettura di Michael in Indycar. Il mitico Jackie Stewart, invece, negli Anni 90 è stato proprietario di scuderia in società con il figlio Paul, anch’egli ex pilota. E non è l’unico caso di "team building" familiare. Da noi quello più noto riguarda il c.t. Cesare Prandelli, che in occasione dell’ultimo Europeo ha "convocato" nello staff il figlio Niccolò, preparatore atletico. Apriti cielo: si è parlato subito di Parentopoli (come se di polemiche calcistiche non ce ne fossero state abbastanza, la scorsa estate), ma alle accuse il tecnico ha risposto serenamente: «Pensate pure quel che volete, l’ho preso perché è bravo». E non si è mai pentito: «Auguro a tutti i genitori di poter lavorare assieme ai propri figli, se lo meritano». Anche se a volte, come nel caso di Niccolò, devono meritarselo un po’ più degli altri.